Giovanni Maccari: Animali

di Trasciatti il 22 luglio 2011 · 2 commenti

3. gabbiano
L’anno scorso siamo andati in un gruppo di gente sulla spiaggia a festeggiare il compleanno di Bernardo. Ci eravamo sistemati su un lato di una caletta molto bella che ci aveva insegnato Alessandra, una mia amica; gli adulti stavano sotto gli ombrelloni e i ragazzi facevano il bagno. Andavano a uno scoglio a pochi metri dalla riva su cui era possibile arrampicarsi e fare dei tuffi. Anna si era portata un’amichetta che si chiamava Elisa, che a un certo punto, come fa un certo tipo di bambine, ha stabilito di sabotare il compleanno di Bernardo, forse perché le mancavano i genitori oppure perché non si sentiva abbastanza investita dell’attenzione di Anna. È uscita dall’acqua e ha cominciato a dire che aveva freddo, si è avvolta in un asciugamano, teneva il naso in alto e guardava dall’altra parte quando uno le parlava. Anna le ha proposto di cercare le conchiglie, di fare una buca, di andare agli scogli, di giocare a carte, di farsi delle fotografie, ma non le andava niente, quel che voleva fare era starsene lì a mostrare la sua espressione insoddisfatta.

Allora ho fatto la proposta di andare dall’altra parte della caletta, dove c’erano degli scogli che promettevano di ospitare qualche piccola vasca di acqua ferma dove si poteva dare la caccia ai granchi o addirittura alle bavose. Era una cosa che fino a qualche anno fa avrebbe avuto una presa notevole, ma ormai i ragazzi erano grandi e non sono voluti venire.
Io sono andato lo stesso, per la mia tipica vigliaccheria di non poter vedere una situazione di stallo; e dopo un po’ Bernardo mi ha raggiunto, correndo e saltellando coi suoi movimenti scoordinati. Gli scogli in realtà non ospitavano vasche di acqua ferma. Siamo andati un po’ avanti per il gusto di balzare agilmente da un sasso a un altro; a un certo punto c’erano dei ragazzi che pescavano a canna e che erano intenti a gridare e a lanciare dei legnetti verso qualcosa che stava nell’acqua. Siamo andati a vedere che cos’era. Era un gabbiano. Ho domandato ai ragazzi come mai gli tiravano dietro della roba. Loro hanno detto che gli rubava il pesce, e hanno cambiato posto per pescare. Il gabbiano galleggiava nello spazio fra due scogli, mantenendosi fermo con dei piccoli colpi delle zampe palmate. Guardava dritto davanti e non sembrava stare male né bene; aveva ancora il piumaggio quasi tutto grigio, un esemplare molto giovane, quindi.

Fra me e Bernardo si è aperto un dibattito su cosa si dovesse fare; io sostenevo l’opinione ragionevole che non si dovesse fare niente, ma non era una certezza radicata in una vera coscienza ecologica, una questione di rispetto dei meccanismi naturali, ma più che altro pigrizia e volontà di evitare per esempio di dover adoperarsi, cercare il numero di qualcuno, la protezione degli uccelli o qualcosa di simile. Mentre Bernardo era animato soprattutto dalla curiosità, una forza ben più attiva e vivace, che fra l’altro in una forma consumata e arrochita dalla crosta degli anni agiva parzialmente anche in me.
Alla fine ho ammesso la tesi che il gabbiano potesse aver fame e ho accettato di andare all’ombrellone a prendere del pane mentre Bernardo restava a controllare i movimenti del gabbiano. Arrivato all’ombrellone, ho annunciato il ritrovamento del gabbiano e questo ha acceso in modo straordinario l’interesse di Anna. Anna è la tipica bambina che adora gli animali. Sono tornato indietro mentre Elisa e Anna mi correvano avanti. Naturalmente il pane lo portavano loro. Mentre correvano vedevo che Anna faceva dei gesti con le mani come per dire sì però bisogna stare attenti a non fargli male. Il mio ruolo nella vicenda era alquanto impallidito; sono arrivato lì, il gabbiano era praticamente nella stessa posizione; non si voltava neanche a guardare il pane che gli lanciavano i ragazzi, gli faceva esattamente lo stesso effetto dei legnetti dei ragazzi di prima.
Di nuovo si è aperto il dibattito, molto più acceso di prima a causa della presenza di Anna, che trovava assolutamente necessario che si facesse qualcosa. Io ho ribadito debolmente le mie posizioni, che in effetti mi sembravano buone anche dal punto di vista della tutela del gabbiano, ma erano screditate ai miei stessi occhi dalla loro connivenza con la mia bassa pigrizia. Me ne sono andato. Sono tornato ancora all’ombrellone, dove Francesca e gli altri (in verità erano tutte donne) a loro volta stavano discutendo del gabbiano, e per vari motivi erano tutte d’accordo che non andasse spostato da dove si trovava.

Era una giornata molto bella, anche se il vento era sbagliato, c’era uno scirocchetto che rendeva i colori, sia del mare che del cielo, più slavati e più opachi del normale, almeno a detta di Alessandra. A destra, in alto sulla scogliera, c’era una villa che era stata di Marta Marzotto, un edificio lussuoso e in una posizione scandalosamente piacevole. Dietro s’intravedeva un grosso residence che era entrato in qualche modo nelle losche faccende legate al capo della protezione civile, di cui appunto si parlava l’anno scorso. Forse i discorsi vertevano su quello, sulla gente che c’era sulla spiaggia o forse su un libro che qualcuno aveva letto. A un certo punto abbiamo visto Bernardo che correva verso qua e le bambine che lo seguivano girandogli intorno. Tutti gridavano (si gridavano di non gridare) e la gente si voltava incuriosita a guardarli. Bernardo teneva fra le mani il gabbiano.

Non era facile capire cosa avessero in mente, ma venivano in qua per l’esigenza incontenibile di fare qualcosa che stesse in relazione col gabbiano, per esempio provare a dargli una carota, del prosciutto o un uovo sodo invece del pane che aveva rifiutato, o forse volevano spostarlo o infine avevano in mente di convincerci, noi adulti, a mettere in atto un’azione incisiva per salvarlo. Il gabbiano non muoveva la testa, stava fermo fra la mani di Bernardo come se il proprio corpo non gli appartenesse, e come se in generale tutto quel che succedeva non potesse incontrare né la sua resistenza né una sua minima reazione. Bernardo l’ha posato per terra.
“Prendilo in mano” mi ha detto “non pesa quasi niente”
L’ho sollevato con cautela e non pesava niente, era incredibile. Un animale grande più o meno come un gatto aveva un peso trascurabile, per via degli ossi cavi che consentono l’enorme resistenza in volo dei gabbiani.

Sono seguiti vari tentativi di nutrirlo, poi di sollecitarlo per vedere se andava, se faceva qualcosa, se provava almeno ad aprire le ali. Tutti si sono scoraggiati. Così è stato deciso di riportarlo in sede e Bernardo è ripartito di corsa attraverso la caletta. Ora la novità era che il gabbiano non sembrava più in grado di tenere il collo dritto, gli crollava la testa da una parte; ma se Bernardo si fermava e lo posava per terra, allora si rimetteva in piedi e se ne stava fermo come una statuetta. Anna correva avanti e indietro, e poi Elisa e lei hanno visto per terra dei sassolini che brillavano, delle conchiglie, occhi di Santa Lucia, e hanno iniziato a raccoglierle. Sono venute a chiedere un secchiello, ma non c’era, era da qualche anno che non avevamo più secchielli. Ho tagliato una bottiglia di plastica e hanno fatto con quello il recipiente.
Dopo c’è stato il pranzo, un altro bagno, altre cose: ogni tanto veniva fuori il discorso del gabbiano ma tenuto sottovoce, dato che Anna e anche Bernardo sembrava che se ne fossero un po’ dimenticati. Dovrei dire che il cielo era del tutto terso a parte un lento convoglio di nuvole che si muoveva basso sull’orizzonte; e offuscava un po’ l’aria, questo è vero, come se propagasse un’onda di leggero pulviscolo che si spargeva dappertutto, anche nell’acqua, che pigramente si gonfiava e rovesciava sulla spiaggia con un rumore di ciottoli spostati. Eppure il sole picchiava e c’era odore di salmastro, delle piante odorose che ricoprivano la scarpata alle spalle della spiaggia, sicché tutti cadevano in quel torpido stato di calore e spossatezza caratteristico dei pomeriggi in spiaggia. La gente entrava e usciva dall’acqua, e sulle spalle dei ragazzi, sulle maestose spalle di mia figlia Anna, si formavano dei fili di gocce che evaporando, in seguito, lasciavano una minuscola traccia di sale.

I ragazzi sono andati a vedere come stava il gabbiano. L’hanno trovato a ridosso di uno scoglio, che ondeggiava al ritmo della risacca. Non si capiva se era lui che era arrivato allo scoglio o se ce l’aveva portato la risacca. Allora i ragazzi di nuovo l’hanno preso, questa volta era Anna che lo stringeva fra le mani, e gli hanno fatto rifare la traversata della spiaggia, fino in fondo, e questa volta la testa era del tutto crollata come la manica di una giacca. Sono arrivati all’ombrellone, si è creato un capannello, la maggior parte degli adulti elevava delle recriminazioni perché fin dall’inizio ognuno aveva detto che non andava toccato, né spostato, anche se questo non significava che sarebbe stato meglio, forse avrebbe lo stesso reclinato la testa perché era troppo indebolito, un esemplare giovane, forse caduto dal nido. E così l’unica soluzione è sembrata metterlo in una piccola grotta che almeno era all’ombra, un po’ più in là, riparato, e sperare che per qualche motivo gli tornassero le forze.
Ho seguito personalmente le operazioni di ricovero: il gabbiano è stato messo nell’acqua sotto un sasso ricurvo che faceva ombra, in uno spazio protetto dalle onde grazie a due scogli piatti che fermavano la corrente. Faceva fatica a stare in sesto, anzi tendeva a ribaltarsi di lato, come una barca senza chiglia. Siamo rimasti un po’ a guardarlo e poi ci siamo allontanati; abbiamo detto a dei bambini che giocavano lì intorno di non andare a disturbarlo (quindi i bambini sono subito corsi a dargli un’occhiata, anche se senza avvicinarsi).

In quella cala, che è particolarmente a ridosso della scogliera, il sole tramontava presto, e inoltre c’era da tornare a casa, fare tutti la doccia e poi vestirsi per andare al ristorante. Mano a mano che l’ombra conquistava una fetta della spiaggia, quelli che c’erano prendevano la roba e si avviavano verso le macchine. Noi eravamo fra gli ultimi (Alessandra ci aveva insegnato la parte dove il sole se ne va più tardi) e quindi quando abbiamo cominciato a radunare le cose la spiaggia era praticamente vuota. Tutti i rumori si sentivano più forte, più distinti: il mare che sciabordava e gli strilli dei gabbiani che arrivavano sempre più vicini a cercare gli avanzi da mangiare. L’uomo degli ombrelloni, un uomo enorme, tatuato, con una moglie brasiliana e un figlioletto buffo, nero con i capelli biondi, si era messo a svuotare i bidoni della spazzatura. Così ci siamo incamminati lungo lo stradello che, arrampicandosi sulla scarpata, porta alla strada asfaltata e di lì al parcheggio a pagamento. Prima di andare però siamo andati a controllare come stava il gabbiano, e abbiamo visto che era morto. Mentre dall’altra parte della spiaggia, dove l’uccello era stato avvistato per la prima volta, c’era un gabbiano adulto che saltava sugli scogli e poi prendeva il volo; poi ne arrivava un altro, un altro ancora, si buttavano giù e ripartivano rapidi con delle ampie giravolte, accompagnate da alte strida. Forse cercavano il gabbiano morto, o forse si contendevano il pane che i ragazzi gli avevano gettato.

[Agosto 2010]

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nanni dinegro luglio 22, 2011 alle 22:19

splendida storia, struggente come quei pomeriggi di famiglia al mare, le sere sempre più brevi, la risacca che guando ti rivesti ti dà un tuffo al cuore. belle le figure in controsole, i colori come di mosaico, confusi nell’oro brunito dal tramonto. e quel piccolo gabbiano, con la sua sommessa voglia di chiuderla lì. bella bella.

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Direktor luglio 22, 2011 alle 23:35

Concordo, concordo. Anche a me questa storia ha fatto riaffiorare un po’ di roba della serie “pomeriggi di famiglia al mare”. Ci si intenerisce, caro Nanni.

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