Giovanni Maccari: Animali

di Trasciatti il 27 ottobre 2010 · 1 commento

1. pappagallo

Oggi ho capito che in realtà il pappagallo non è pagato dai servizi segreti per farmi saltare i nervi, è solo vittima a sua volta della situazione. È vittima di una sindrome compulsiva per cui quando la luce è accesa deve dondolarsi sulla sua altalena. L’altalena è fatta di un bastoncino e di due fili di ferro curvi alle sommità, che sono appese al sopra della gabbia. Questa altalena cigola, più forte quando il pappa accelera e più piano quando rallenta.
Il pappagallo inoltre, se la luce è accesa, ha un’altra sindrome compulsiva che consiste nel cantare, cioè produrre dei suoni di spaventosa acutezza e intensità. Lo si può mettere fuori, in terrazza, si sente solo il sottofondo dell’altalena che cigola e il suo canto tropicale in concorrenza coi versi degli uccelli locali.
Il suo obiettivo, quando è in gabbia, è uscire. Quando è fuori e mi cammina sulle spalle o mi si posa sul pollice, il suo obiettivo è strapparmi le pellicine vicino alle unghie o beccarmi le orecchie. Sale sul bordo del computer, si gira in modo che il culo è dalla parte dello schermo e poi deposita la sua piccola cacca, una minuscola cacca che però corrode, essendo acida. In casa mia in dei punti ci sono dei depositi di guano, questo succede anche perché non passo quasi mai lo straccio.

In compenso non faccio altro che aspirare, nel qual caso il pappagallo mi si sistema sulla spalla, molto vicino all’orecchio, e canta, ovvero emette i suoi fischi laceranti. Questo dipende da una terza sindrome compulsiva di cui soffre il pappagallo, che è quella di entrare in concorrenza con qualunque rumore e quindi anche con quello dell’aspirapolvere. Lo scaccio via con la mano e lui fa un volo e torna, come se fosse assicurato alla mia spalla per mezzo di un elastico.

Per acchiapparlo, quando è fuori e si accorge che lo voglio rimettere in gabbia, allora non ci vuole andare e comincia a sfuggirmi con una tecnica astuta. Vola in cima alla porta e quando io mi avvicino plana su una lastra di granito appesa al muro, un’opera d’arte contemporanea. Mi avvicino alla lastra e lui atterra sul computer, poi di nuovo la porta, poi la lastra. Alla fine mi si posa sulla testa e cautamente allora mi dirigo verso lo sgabuzzino, entro, chiudo la porta.
Al buio il pappagallo perde i suoi superpoteri, diventa un’altra cosa. Lo prendo in mano e lo accarezzo sulla testa, è una cosina piccola e indifesa, una testina rossa, il becco adunco, le ali verdi e arancioni.

Se avessi una casa più grande gli comprerei una voliera da tenere in terrazza, una terrazza grande, con un bel panorama sulla parte sud di Firenze.
Non lo terrei sempre in gabbia, lo farei uscire lo stesso. D’inverno lo terrei in una delle molte stanze di quella casa grande col parquet per terra, anzi con le liste di legno. I bambini avrebbero una camera per uno e io passerei per il corridoio gridandogli che se non mettono a posto non si esce per andare al cinema.
Con una casa grande, molti soldi, la coscienza a posto, la situazione sarebbe molto migliore e se ne avvantaggerebbe di sicuro anche il pappagallo. Non guarirebbe mai dalle sue sindromi, perché anche l’altra volta il dottore mi diceva che nessuno guarisce dalle sue nevrosi: solo che i sintomi sarebbero leniti, la sua vita di colpo gli sembrerebbe accettabile.

2. gatto
C’era una volta un gatto molto anziano che in seguito alla morte della sua padrona era rimasto solo in una casa vuota, dove andava una donna ogni due giorni a dargli da mangiare.
Dopo tre o quattro mesi un amico della padrona andò a prenderlo con una gabbietta e lo portò a casa sua, a Firenze, in una di quelle vie che ci sono fra piazza Oberdan e il cavalcavia. La mattina l’amico della padrona se ne andava, ma il pomeriggio era di nuovo in casa, e spesso apriva una portafinestra in modo che il gatto potesse andare in terrazza.
A volte telefonava qualcuno: allora l’uomo si metteva in poltrona e iniziava a parlare grattandosi la testa.

Il gatto soprattutto aveva scelto due posti: uno in camera e uno nello studio, e all’inizio tendeva a stare nella stessa stanza dove era l’amico della padrona, ma in seguito questa abitudine si era offuscata.
I due posti erano una branda pieghevole con un cuscino sopra (nello studio) e l’estremità sinistra del divano letto (camera), anche lì in corrispondenza di un cuscino.
Quando l’amico entrava in casa il gatto non se ne accorgeva neanche da quanto era sordo. Era anche quasi cieco. I suoi occhi celesti da siamese erano senza luce, come pietre opache, e così l’andatura era alquanto sbilenca. Eppure la gente che veniva lo giudicava un bel gatto e quando apprendeva la sua età (19 anni) diceva: «chissà come era bello da giovane».

Essendo molto vecchio era curioso osservare come questo gatto avesse delle fissazioni come hanno le persone anziane. Se non trovava il cibo per esempio, e soprattutto l’acqua, si metteva a miagolare con un’intensità e un senso di strazio che a sentirlo rimescolava il sangue.
Qualche volta, anzi praticamente sempre, emetteva questo miagolo atroce anche spostandosi da una stanza all’altra, caracollando sulle zampe malferme (soprattutto quelle posteriori), e allora dava l’impressione di essersi perso nel mondo, come un vecchio che se gli cambi casa non capisce più niente.

Ogni tanto l’amico della padrona alzava anche la voce contro il gatto, pur sapendo che era inutile, ma obbedendo unicamente al bisogno di sfogare la sua esasperazione. Quando per tanto tempo stava chiuso in casa senza fare quasi niente, e non veniva nessuno, non chiamava nessuno, solo gente che all’amico procurava delle noie o non faceva piacere.
Allora il gatto iniziava a miagolare e il pappagallo cominciava a strillare per tutta risposta. C’era un ronzio di sottofondo nella casa, dato dall’eco del traffico nelle strade vicine e da una specie di elettricità che passava fra i muri del condominio. L’uomo si alzava spesso e poi si rimetteva a sedere. Poi magari andava in camera per prendere una cosa e trovava che il gatto aveva vomitato sulla stuoia, o sul divano, sul cuscino, dappertutto meno che sul pavimento, dove sarebbe stato facile pulire.

Ecco allora che l’uomo alzava la voce contro il gatto, non perché avesse un senso, ma per sfogare la sua frustrazione dovuta a un insieme di cose.

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{ 1 commento… leggilo qui sotto oppure aggiungine uno }

n novembre 9, 2010 alle 08:30

con le piume di pappagallo gli indios si fanno generosi copricapi e gonnellini; con i gatti un bavero di cappotto non è neanche più di moda

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