Nicola Dal Falco: Praga, di qualche anno fa

di Trasciatti il 15 dicembre 2010 · 2 commenti

Forse è vero, Praga non cambia. Era già diversa prima e il tempo continua a corteggiarla senza averla; al massimo riesce ad impreziosirne i contorni come per certi visi a cui le rughe donano, fanno un effetto malizioso.
Certo, sono aumentati i negozi per turisti, i poliziotti cambiano divisa e il traffico sbatte la coda come un drago alla porta ma le facciate delle case si leggono ancora senza inciampare nelle insegne al neon e si può camminare indisturbati con la testa nei propri pensieri.
Praga è uno scrigno di storie e avventure.
Sui marciapiedi, i tavoli delle birrerie, i muri delle chiese barocche, qualche provvidenziale funzionario dovrebbe trascriverne un po’ in bella grafia: quella del templare senza testa  per esempio, quella  dei tutori di pietra, dell’omino verde, del golem o del fantasma che molesta le ragazze e si riconosce dalla puzza.
Passeggeremo, allora, in una città decorata di frasi e dialoghi come ombre cinesi, animata dai punti e vergola e da quelli esclamativi; un’intera biblioteca di personaggi, le cui voci andrebbero a mescolarsi ai concerti improvvisati sotto i portici.
Trasformandosi in una grande ballata, Praga diventerebbe un potentissimo afrodisiaco; agirebbe ogni due passi sulla mente, obbligando i desideri a una veglia perenne, offrendo un guanciale zuppo di sogni e qualche incubo mattutino dopo una nottata in birreria.
Continuerebbe a fare, in modo più ciarliero, quello che ha sempre fatto nell’era del socialismo reale, durante le lunghe attese senza vento, ma per altri marinai, un po’ più duri d’orecchio, perchè disabituati a parlare sottovoce.

Sono sceso per un breve soggiorno all’hotel U Pava, Il Pavone (ULuzickeho seminare 106).
La casa, le cui fondamenta risalgono al seicento, fu abbattuta nel 1853 e ricostruita con l’aggiunta di un piano.
Qualche anno fa venne ristrutturata, facendo spazio a tre appartamenti, otto camere, un bar e un ristorante per trenta persone.
Date le dimensioni, la vita dell’albergo coincide con quella degli ospiti: improvvisamente deserto quando si parte a passeggio in città e affollato negli orari canonici come per un compleanno.
Anche il rumore dei passi sulla scala di legno che sale ai piani, girando su se stessa, diventa presto familiare: un rumore di casa.
A cinquanta metri, attraversato il canale del Diavolo, si è subito sull’isola di Kampa, dove chi nasce si assicura un padrino tutto d’un pezzo, tra le statue di pietra del ponte Carlo.
La vista della camera 401 plana dagli abbaini sul giardino dell’ex convento delle Carmelitane, le case di Mala Strana, la chiesa di San Nicola fino alle finestre e ai cornicioni del Castello.
Il kafkiano complesso di edifici occupa tutta la collina, in un certo senso la sostituisce.
Un argine di palazzi che divide il cielo e la terra, un olimpo ministeriale, sacro e profano che culmina con i campanili a freccia della cattedrale di San Vito.
Partendo in basso da Malostranske namestì, l’ultimo tratto della via Nerudova costeggia a sinistra una valle che si apre e risale finendo nel bosco.
Gli alberi, le case, gli orti stanno al cielo e al verde come le sale e i cortili alle grandi tele di santi e di re.
Se la città, cresciuta sotto la collina di pietra ma attaccata al fiume, scruta giorno e notte il Castello, questa fetta di campagna indica la via di fuga, un sentiero profumato di birra e di vino.
In fondo, in una città così bella, così urbana, così città, è un continuo cercare la terra, le radici, il senso e il sapore del luogo di nascita.
La capacità di bere a Praga equivale alla capacità di camminare.
Si beve stringendo in spire sempre più strette il proprio cuore, entrando e uscendo dalle porte fornite d’insegne.
Qualcuno perde la testa ed altri trovano l’allegria, la leggerezza, come Bohumil Hrabal e i suoi amici nel libro Un tenero barbaro, in tempi ancora malfermi: «A Vladimir e a Bondy e a me piaceva tanto la birra che, appena portarono al tavolo il primo boccale, tutti e tre facemmo inorridire l’intera birreria, raccoglievamo la schiuma con le mani, ce la spalmavamo sulla faccia e ci mettevamo la schiuma nei capelli … alla seconda facemmo il bis … per cui eravamo lucidi di birra e il profumo si poteva sentire ad un miglio di distanza.
«Soprattutto, però, era (quell’esibizione spassosa) l’espressione della passione per la birra e della passione della giovinezza, che sprizzavamo da tutti i pori».
Due giorni a Praga  possono trasformarsi in quarantott’ore di musica, una staffetta di chiesa in chiesa, dove sotto un cielo dipinto e aggrovigliato di corpi soffia il mantice dell’organo o aleggia dolcissima la voce di quattro ragazzi, tirati a nuovo.
Città della musica, di Mozart, città della parola, di Kafka; inseguiti da tutti questi segni neri sulla pagina non possiamo che arrivare davanti al famosissimo cimitero ebraico, parallelo alla via Parizska.
Tra i rami verdi, i nidi dei corvi sembrano più vicini insieme a quel discorrere avvocatesco.
Esigenze di traffico limitano la visita delle tombe ad uno zig-zag, in fila indiana.
La selva di lapidi, cresciuta su dieci strati, è preclusa.
Qua e là, in un soprassalto di decoro, hanno seminato dell’erbetta e dei fiori.
Non credo che l’attenzione impietosisca molto gli ospiti fissi.
Per  gli ospiti momentanei, per i visitatori, occorre riflettere prima di entrare.
Non c’è più molto tempo, incalzati dai gruppi che seguono, per pensare, scrivere e deporre sotto un sasso, sulla tomba di un rabbino, i propri desideri.
Il foglietto scritto sparirà e rimarranno come ciclopiche intenzioni i piccoli sassi del sentiero, raccolti e posati con cura.

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artemisia comina dicembre 26, 2010 alle 19:10

,a guarda, Praga! dovrò visitare questo luogo con più attenzione. a presto.

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direktor dicembre 28, 2010 alle 12:23

cara Artemisia, lei immagino provenga dal sito degli Accademici Affamati, o sbaglio?

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