Andrea Cirolla: Il Rilke di Paci

Lun, 11/10/2008 - 16:44

Andrea Cirolla: Il Rilke di Paci

Il nome di Rilke compare per la prima volta sotto la penna di Enzo Paci nell’autunno del 1942. L’occasione è una recensione su “Primato” della raccolta di saggi di Alessandro Pellegrini Novecento tedesco, dove il poeta non è certo menzionato con toni entusiastici. Partendo da una considerazione duramente critica sulla recente poesia tedesca (in quanto viene a risolversi in una ricerca intellettualistica dell’arte), Paci gli dedica queste poche parole: «Da quello che potremmo definire “intellettualismo simbolistico” non si libera nemmeno Rilke, che pure è una schietta natura di poeta»[1].
Passano tre anni e l’atteggiamento nei confronti di Rilke cambia sensibilmente. In una pagina di diario del 21 settembre 1945, scritta tre mesi dopo il ritorno dal campo di concentramento di Wietzendorf, Paci si appella all’insegnamento rilkiano: «è molto più difficile qui […] conservare in sé la libertà, l’indipendenza, ciò che mi fa libero dalla storia. Vivere nell’immanenza portando in sé il senso della trascendenza. […] Devo saper soffrire. Non ho ancora imparato! E maturare come una pianta, maturare nel senso di Rilke. Prima di addormentarmi rileggerò Rilke e ne presento il saluto che lo unisce alla mia speranza – oltre le vicende quotidiane e la tentazione di muoversi in esse, dimenticando un poco, dimenticando troppo, quei due anni vissuti nel regno della verità ai confini con la morte. Rilke mi aiuta a non diminuirmi, a non cadere, a non perdermi»[2].
Il 3 giugno del 1946, un anno dopo la conclusione del periodo di prigionia, Paci torna sul poeta tedesco con un breve saggio intitolato La fontana di Rilke[3]. Vi vengono toccati pressoché tutti i luoghi classici della sua produzione, da Il libro delle immagini alle Nuove poesie, da I quaderni di Malte Laurids Brigge alle Elegie Duinesi, dai Sonetti a Orfeo fino alle Lettere a un giovane poeta e Lettere a una giovane donna. Uno dei temi fondamentali di Rilke risulta essere il mito della morte di Orfeo: «le cose del mondo non vivono, o vivono di una falsa vita, di cui devono morire, per ritrovare davvero se stesse nel seno dell’antica sorgente: […] “Solo perché, sbranato, lo stormo feroce si sperse, oggi, udiamo: e una bocca ha in noi la divina natura” (Son. a Orfeo, trad. Errante)». A conferma dell’unità della poesia di Rilke, lo stesso motivo viene rintracciato nelle Elegie Duinesi: «“Terra, non è questo dunque il tuo volere: in noi risorgere invisibile? Terra! Invisibile! Quale è, se non metamorfosi, il tuo fermo comando?”. (Nona Elegia, trad. Traverso)». E ancora nelle Lettere a un giovane poeta: «“Condurre a termine e poi generare: è tutto qui. Bisogna che lasciate maturare in voi ogni espressione, ogni germe di sentimento, nell’oscuro, nell’inesprimibile, nell’incosciente, in queste regioni chiuse alla comprensione. Attendete con pazienza e con umiltà l’ora della nascita”. […] Le cose rinascono dunque nella parola, nel grembo materno al quale ritornano l’uomo e la natura. […] maturare, nascere. Maturare: reifen. È forse il verbo più tipico di Rilke»[4].
Il tema del “maturare” verrà ripreso l’anno dopo in Rilke e la nascita della terra, saggio ove La fontana di Rilke confluisce parzialmente[5]. Qui la lirica Annunciazione dal Libro delle immagini va a sostituire in quanto a centralità il ruolo prima svolto da Fontana romana (inclusa nelle Nuove Poesie). E soprattutto, il paragrafo finale pone in estrema evidenza il fulcro dell’interpretazione paciana: «Esso si potrebbe enunciare così: il mondo dell’esistere, nell’angoscia della sua inconsistenza, deve morire ed aprirsi all’assoluto: da questa morte, attraverso il dolore, nella parola e nell’umiltà dell’opera umana, rinasce il mondo, tutto trasfigurato nello spirito, o, meglio, qui, il mondo nasce a se stesso per la prima volta»[6].
Il tema risuona in tutti gli altri saggi di Esistenza e immagine, come pure nella personale elaborazione teoretica del filosofo di Monterado. Il motivo della “rinascita della terra nell’uomo” torna ad esempio nelle pagine dedicate a Valery, dove viene attribuito all’architettura, la quale opera una cosciente ricostruzione umana di ciò che la natura costruisce “inconsciamente”. E ancora in Valery, tramite l’antinomia di  contenuto romantico e forma classica si ripete la dualità tra poesia e filosofia, vita e spirito. Questa dualità è «ciò che la filosofia potrebbe indicare come il trascendentale, nel suo doppio aspetto metafisico e metodologico»[7]. L’incontro tra esistenza e verità, è, anche, «qualcosa di simile […] all’incontro del tempo e del senza tempo nell’ultimo Eliot»[8].
Ciò che guida l’analisi di Paci, tornando a Rilke, rimane insomma la dialettica insolubile tra valore ed esistenza, essere e non essere, ora in veste di guida maieutica per l’uomo, che dovrà affrontare «almeno una volta nella vita […] il salto nello spirito»[9]. «La missione dell’uomo si rivela qui come il compito di trasformare l’esistenza in verità nell’intimo della sua anima: […] questa nascita della terra nello spirito è ciò che abbiamo indicato come incontro tra l’esistenza e la verità ideale, tra immanenza e trascendenza […]. Su un piano filosofico non dovrebbe essere troppo difficile tradurre questa intuizione rilkiana. Non è per Croce l’arte la forma aurorale dello spirito? Non è solo perché alla base di tutta la sintesi spirituale c’è l’arte che la sintesi è possibile? Non è l’arte che rende possibile la sintesi teorica e, quindi, la sintesi morale?»[10].
La fondamentale funzione creatrice dell’arte era stata teorizzata da Paci già a partire dal 1939, nel volume Principii di una filosofia dell’essere[11], alla luce del quale guadagna più senso quel richiamo a Croce[12]. L’arte, come momento particolare del movimento circolare dello spirito, vive nei Principii della stessa dualità rintracciata in Esistenza e immagine: forma e materia, espressione (la legge del giorno) e liricità dell’arte (passione della notte), apollineo e dionisiaco. Nell’arte la fenomenologia dell’essere ha uno dei suoi snodi cruciali, è momento creatore che innalza l’esistenza fino a mutarla, a maturarla in forma, valore, idea. Rivivendo nel particolare la stessa dialettica del generale, il fenomeno artistico è ciò che permette l’identità di visione (l’immagine) ed essere (l’idea), pur senza risolversi in quest’ultimo; esso permane come movimento eterno, rappresentato nei Principii dalla legge trascendentale.
Il particolare ruolo dell’arte, che riveste un’importanza decisiva in queste iniziali prove teoretiche, attraversa come una corrente carsica il primo periodo esistenzialista di Paci, quando l’attenzione va a rivolgersi principalmente al dibattito che sfocerà poi nella celebre inchiesta di “Primato” dei primi mesi del 1943. In questo senso il 1941 è un anno decisivo, in quanto vede sia pubblicato il volume Pensiero esistenza e valore – lavoro che ancora riecheggia la tripartizione dell’essere tipica dell’opera sistematica del ’39 –, sia confermato il contributo di Paci al nascente esistenzialismo italiano, con saggi quali Il significato storico dell’esistenzialismo[13] e Romanticismo e antiromanticismo[14]. Le tre forme dell’essere descritte nei Principii (pensiero, esistenza e valore) si fondono così in quello che Mario Dal Pra ben definì “esistenzialismo critico”[15]: l’incontro tra istanza dell’esistenza, criticità della ragione e dovere della morale.
Il progressivo approdo all’esistenzialismo spinge Paci ad alcuni cambiamenti di prospettiva, uno su tutti l’individuazione della trascendenza – cioè del momento della sua manifestazione – non più nella coincidenza di essere puro e pensiero, ma nella sfera stessa dell’immanenza. La trascendenza, alla quale apriva l’arte e dalla quale si era assorbiti nella religione, si risolve ora tutta nell’immanenza, nella finitezza divenuta nuovo “segno della moralità”. Questa finitezza non è nient’altro che l’esperienza esistenziale, dalla quale sorge il mondo dell’arte. Si ripresenta insomma, sotto una nuova veste, il rapporto tra arte ed esistenza studiato fin dai Principii: «Penso che non ci sia poesia senza esistenza, ma credo che l’esistenza non possa diventare poesia se non esprimendo la propria finitezza in un valore eterno (senza, e questo è essenziale, fuggire dal finito)»[16]. E nel mito della morte e della rinascita viene così ribadita anche la coerenza dell’intero percorso filosofico di Paci, dal problema del negativo all’antinomia di essere e non essere[17].

 

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"Vorrei che la vita tenesse più conto degli sforzi che faccio per mettermi d'accordo con lei".

Nato nel 1911 a Monterado (AN) e morto nel 1976 a Milano, Enzo Paci è considerabile certamente come uno dei personaggi più determinanti nell'ambiente filosofico italiano del '900. Formatosi sotto il magistero di Antonio Banfi a Milano, e dapprima sotto quello di Adolfo Levi a Pavia, si laureò nel capoluogo lombardo nel '34, con una tesi sul Parmenide di Platone (poi riveduta e pubblicata nel '38). Fu esponente di spicco, con Nicola Abbagnano, del quale abbracciò l'impostazione, dell'esistenzialismo cosiddetto "positivo" (poiché italiano e in quanto pervaso da un orizzonte di ottimismo e da uno spirito di affermazione dell'individuo oltre lo scacco del reale - dunque in opposizione all'esistenzialismo tradizionale di scuola tedesca, quello di Heidegger e Jaspers, principali autori di riferimento del giovane Paci). Partito nel '43 per i Balcani, in occasione del secondo conflitto mondiale, al momento dell'armistizio fu deportato in Polonia (si oppose al reclutamento nell'esercito di Salò), dove scontò la dura esperienza del campo di concentramento.
Gli anni 50 videro Paci alle prese con l'insegnamento universitario. Nel '51 ottenne la cattedra di filosofia teoretica a Pavia, nel '58 passò alla Statale di Milano, sostituendo l'antico maestro Antonio Banfi. In corrispondenza ai primi incarichi accademici Paci volse i propri interessi verso quello che fu definito un "esistenzialismo relazionistico", centrato sull'evento che è l'esistenza, sui rapporti tra gli individui e il concetto di temporalità, che sottende quello di relazione.
Gli anni 60 videro infine crescere in Paci l'interesse verso la fenomenologia di Edmund Husserl, scoperta e "importata" in Italia dal maestro Antonio Banfi.
I tre momenti della ricerca di Enzo Paci - sempre caratterizzata da illuminanti riletture e un costante e creativo dialogo con i propri autori, più che un autonomo filosofare - non sono da considerarsi come momenti slegati, quanto come frangenti di un unico corso di pensiero.

Opere principali:

- Il significato del Parmenide nella filosofia di Platone (1938)
- Princìpi di una filosofia dell'essere (1939)
- Pensiero, esistenza, valore (1941)
- Esistenza ed immagine (1947)
- Esistenzialismo e storicismo (1950)
- Il nulla e il problema dell'uomo (1950)
- Tempo e relazione (1954)
- Dall'esistenzialismo al relazionismo (1957)
- Diario fenomenologico (1961)
- Tempo e verità nella fenomenologia di Husserl (1961)
- Funzione delle scienze e significato dell'uomo (1964)
- Relazioni e significati. I, Filosofia e fenomenologia della cultura (1965); II, Kierkegard e Thomas Mann (1965); III, Critica e dialettica (1966)
- Idee per una enciclopedia fenomenologica (1973)

 

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[1] E. Paci, Recensione di A. Pellegrini, Novecento tedesco (Principato, Milano-Messina 1942), in «Primato», 1942, n. 21.
[2] E. Paci, Colloqui con Banfi, in “Aut-Aut”, n. 214-215, 1986, pp. 72-77 (trascritto dai diari conservati nell’Archivio Paci sotto la segnatura Di-I).
[3] E. Paci, La fontana di Rilke, in «Giornale di mezzogiorno», 3 giugno 1946. Ringrazio Dario Borso per avermi segnalato il testo, assente nelle varie bibliografie paciane.
[4] Ibidem.
[5] In E. Paci, Esistenza e immagine, Tarantola, Milano 1947, pp. 123-148.
[6] Ivi, p. 140.
[7] Ivi, pp. 142-143.
[8] Ivi, p. 141.
[9] Ibidem.
[10] Ivi, pp. 141-143.
[11] E. Paci, Principii di una filosofia dell’essere, Guanda, Modena 1939.
[12] Nei Principii viene mutuata la divisione crociana delle forme dello spirito nella tripartizione: vita morale, vita dell’arte e vita religiosa.
[13] E. Paci, Il significato storico dell’esistenzialismo, «Studi filosofici», 1941, n. 1.
[14] E. Paci, Romanticismo e antiromanticismo, «Architrave», 1941, n. 8.
[15] M. Dal Pra, Introduzione ad A. Civita, Bibliografia degli scritti di Enzo Paci, La Nuova Italia, Firenze 1983, p. XX.
[16] E. Paci, Recensione di A. Pellegrini, cit.
[17] Su ciò cfr. A. Borghesi, “Enzo Paci e il mito della rinascita in Proust e Mann”, in E. Esposito [a cura di], Le letterature straniere nell’Italia dell’entre-deux-guerres, Pensa Multimedia, Lecce 2004, I, p. 132.

 

(Nella foto: Rainer Maria Rilke)

  1. Antão Sacarolhas (non verificato) on Mar, 11/11/2008 - 19:07

    [...]«Esso si potrebbe enunciare così: il mondo dell’esistere, nell’angoscia della sua inconsistenza, deve morire ed aprirsi all’assoluto: da questa morte, attraverso il dolore, nella parola e nell’umiltà dell’opera umana, rinasce il mondo, tutto trasfigurato nello spirito, o, meglio, qui, il mondo nasce a se stesso per la prima volta»[...]

    Non posso nascondere di essermi preoccupato quando mi sono imbattuto nel termine "assoluto", in quell'aprirsi all'assoluto. La mente fatica ad immaginarselo, figurarsi a porlo come termine ultimo!

    Poi, man mano leggevo il testo la mia preoccupazione è andata scemando. Con "l'umiltà dell'opera umana" e poi più avanti, con la verità accostata al termine ideale, il mio "spirito" si è quietato.

    Sono sempre stato refrattario a concetti, quali: spirito, anima, assoluto, trascendente; mi hanno sempre scostato dalla filosofia, dall'interesse per questa disciplina e dal desiderio di approfondirla. Ho sempre inarcato le sopracciglia per diffidenza, poiquando si incontra sul proprio cammino qualche autore particolare, si è come spinti ad una reazione.
    Mi torna in mente Eliot e la teoria del catalizzatore - tanto caro ai chimici, tanto caro ai biologi sottoforma di enzima - Paci rileggendo Rilke riflette partendo dall'esistenza, dai reagenti e con metodo arriva ai prodotti, una morale; il catalizzatore resta intaccato e partecipa ogni volta alla reazione.

    [...]La missione dell’uomo si rivela qui come il compito di trasformare l’esistenza in verità nell’intimo della sua anima: […] questa nascita della terra nello spirito è ciò che abbiamo indicato come incontro tra l’esistenza e la verità ideale, tra immanenza e trascendenza […]. Su un piano filosofico non dovrebbe essere troppo difficile tradurre questa intuizione rilkiana. Non è per Croce l’arte la forma aurorale dello spirito? Non è solo perché alla base di tutta la sintesi spirituale c’è l’arte che la sintesi è possibile? Non è l’arte che rende possibile la sintesi teorica e, quindi, la sintesi morale?»[...]

    L'arte e la creazione di questa. Una vita a regola d'arte, un'esistenza da cui partire per fondare la morale, una morale che possa sostituire le vecchie morali e le morali nuove e vane.

    E poi per finire:
    [...]«Penso che non ci sia poesia senza esistenza, ma credo che l’esistenza non possa diventare poesia se non esprimendo la propria finitezza in un valore eterno (senza, e questo è essenziale, fuggire dal finito) »[...]

    Sarà forse illusione mia, ma mi piace quando il trascendente e l'immanente si fondono e non si distinguono...
    è come mischiare il sacro con il profano...

    Mi verrebbe in mente un'altra riflessione che poi è ormai da anni che mi gira in testa...

    Ma ora devo scappare...
    A presto.

    Antão Sacarolhas

    p.s: davvero "interessante", Sig. Andrea Cirolla...

  2. nautilus on Mer, 11/12/2008 - 10:53

    Non si spaventi, caro Saccarollhas, di termini come assoluto o trascendenza, ma goda semplicemente del testo, e Rilkiano e Paciano, e Cirolliano. Della trascendenza nell'immanenza si stupisca pure invece, e volentieri. E' un'immagine tanto chiara. Da Paci a Merleau-Ponty ne vedrà delle belle, se vuole approfondire. La Wesenschauung fenomenologica (husserliana) ci dice proprio questo.

    Herr Cous Stipato.

  3. Antão Sacarolhas (non verificato) on Mer, 11/12/2008 - 11:47

    Proprio ieri avevo tra le mani il mio veccho manuale di filosofia del liceo e cercavo il suddetto Husserl, poi comprendendo l'inutilità di tale gesto, visto lo scarso approfondimento dedicato all'autore, sono tornato sui miei passi e leggendo L'uomo senza qualità di Musil, riporto questo passo:

    [...]Ma qui lei mi deve concedere una digressione. Per motivi molto evidenti, ogni generazione considera la vita che li si presenta dinanzi come un dato fisso e fermo, tranne pochi cambiamenti a cui è interessata. Ciò è utile ma è falso. Il mondo potrebbe invece mutare a ogni istante in tutte le direzioni, o almeno in una qualunque di esse; ce l'ha, per così dire, nel sangue. Sarebbe quindi un modo originale di vivere quello di chi tentasse una buona volta di non comportarsi come individuo definito in un mondo definito dove, direi, non c'è che da girare due o tre bottoni - il modo che si chiama evoluzione -; bensí, fin da principio, cercare di vivere come un uomo nato per trasformarsi, cioè press'a poco come una goccia d'acqua dentro una nuovola. Mi disprezza perché sono di nuovo inintelligibile? [...]

    A.S