L'importanza delle pulizie... quattordicesima puntata

14. «Fidarsi è bene, non fidarsi è troppo» «Fidarsi è bene, non fidarsi è troppo.» Manolo si sta lavando accuratamente le mani sotto il getto violento del rubinetto del vascone di marmo vicino al banco in formica degli strumenti. Rannicchiata sull’unica sedia, la Bovera si concentra sugli esercizi di respirazione per placare gli effetti della abituale crisi di panico che le provoca assistere a un’autopsia. Solo Rondo si aggira garrulo intorno al tavolo su cui giace ancora il corpo ricucito di Renato Rabolini, coperto da un telo di plastica nera. «Fidarsi è bene, non fidarsi è troppo» ripete una seconda volta cercando senza successo l’attenzione di Luca, l’assistente mulatto di Manolo, impegnatissimo a riascoltare la registrazione dell’autopsia. «Che stranezza, però: tu sei brasiliano e hai un nome italiano mentre Manolo ha un nome spagnolo ma è italianissimo. Di Brescia o Bergamo?» Né Luca né Manolo lo degnano di una risposta: uno fissa immobile il piccolo registratore appoggiato sulla pancia del cadavere, l’altro si sciacqua il viso tastandolo ansiosamente con le dita come alla ricerca di qualche elemento estraneo. Nel frattempo la Bovera ha recuperato la padronanza del suo corpo, ancora un po’ barcollante nel raggiungere lo zainetto di tela grezza color vinaccia che proprio ieri ha ritirato in merceria dove gli hanno sostituito le bretelline, rimaste impigliate in un cancello nel corso di un inseguimento a piedi in cui dopo una rovinosa caduta aveva riportato la lussazione della spalla e un ematoma al braccio destro tuttora ricoperto da un livido nero. La mano annaspa dentro con impazienza prima di estrarre il telefonino naturalmente staccato. La voce si premunisce di una durezza punitiva: «Le Due Lucie? Ah, sei tu Pigi? Qui commissario Bovera. Preparaci un tavolo per le nove e mezza. Siamo in quattro. Un attimo» schiocca le dita ottenendo lo sguardo di Luca: «Vieni anche tu?». Scrolla la testa ritornando subito al registratore: «Magari vi raggiungo dopo che ho trascritto il referto». «Un tavolo per quattro alle nove e mezza, allora.» Spenge il telefonino e lo ricaccia dentro lo zainetto. «Non avete una fame da lupi?» Purtroppo il concetto di fame della Bovera corrisponde a un’idea alquanto striminzita di lupo idiosincratico. Sulla tavola apparecchiata con una tovaglia di plastica a quadrettoni bianchi e rossi quattro mani si accaniscono su un grande vassoio ovale gremito di strati appiccicaticci di fette di lardo di Colonnata. Chi se la porta direttamente alla bocca, chi la accompagna a un pezzo di pane toscano bagnato nell’olio, alternando i bocconi a rumorosi sorsi di Bonarda. «Questa sì che è una mangiata» il commissario si rivolge entusiasta a Diego Pertempi della scientifica proprio mentre con il tovagliolino di carta spazza via le briciole dalla cartelletta con la bozza dei rilevamenti effettuati nel pomeriggio sul luogo del delitto. In silenzio da oltre due ore, basito in uno stordimento alcolico, lui che solo per rispetto nei confronti del capo non ha ordinato né gli spaghetti alla carbonara né la bistecca con patatine e al momento del dolce quando il cameriere ha accennato a una torta della casa con crema di zabaione si è alzato di corsa per filare in bagno, Rondo ha atteso il momento propizio per assestare il suo proverbio risolutore, forse la sua velata critica alla sottovalutazione dei bisogni fisici di un trentacinquenne in piena forma quale si ritiene: «Non è come ci si sente, ma è l’età che conta». Pertempi, sempre in dubbio se Rondo sia particolarmente spiritoso o completamente stupido, arrischia una battuta: «È per questo che hanno inventato la carta d’identità». «Chi ha parlato di carta d’identità?» la Bovera si riprende dal suo studio della tovaglia, convinta più che mai del nesso tra la sua plasticaccia dozzinale che farebbe inorridire la madre e la sua passione per questa trattoria. Manolo è subito conciliante, oltre a essere il solo della tavolata a darle del “tu”: «Lo sai che appena possono questi due si divertono a punzecchiarsi. Stavano solo scherzando». «No, non è questo. Mi domandavo più semplicemente se per affittare un frac ci sia bisogno di rilasciare un documento.» «Perché, pensi che Rabolini l’abbia affittato, il frac? A me sembrava un vestito vecchio e malandato. Probabilmente l’aveva comprato per fare da testimone al suo migliore amico e poi l’ha buttato in un armadio pieno di naftalina.» «Ma perché andare in frac a un incontro che ha tutti le caratteristiche di essere segreto? E poi com’è possibile che lungo il tragitto da casa alla scuola nessuno si sia accorto di un uomo in frac? Di sabato.» «Potrebbe essersi cambiato in un bar, per esempio. E poi i testimoni si sa che sono come i funghi. Spuntano quando vogliono loro» interviene Pertempi, che tradisce la stanchezza sulle rughe aggrottate intorno agli occhi umidi, resi ancora più azzurri dal contrasto con la pelle leggermente abbronzata. «Non mi risulta che i funghi siano dotati di una volontà» lo rimbecca subito Rondo, con la lingua sciolta dalla Bonarda. «Insomma, la volete smettere voi due!» Manolo non si fa sviare dal battibecco: «Credo che tu abbia ragione. È dal frac che bisogna partire». Pertempi smania di recuperare terreno: «Finora cosa sappiamo di questo Rabolini?». Gli risponde Rondo, prontissimo: «Abbiamo già sguinzagliato Rovini, e domani mattina presto Baranelli va a raccogliere informazioni in fabbrica». Pasquale Rovini è un investigatore della polizia in pensione di cui si serve la Bovera per i compiti più delicati. Pagato in nero grazie a un fondo speciale messo a disposizione per i casi di omicidio, svolge il lavoro oscuro, dai metodi tutt’altro che limpidi, parallelo alle indagini ufficiali. La media sorprendente degli assassinii risolti dalla Bovera, quattordici su diciannove, quasi il settantatré per cento, è il frutto di questa collaborazione in più occasioni osteggiata da Corridoni, fautore di una linea “morale” dettata in gran parte dal terrore di uno scandalo che ne intralci la carriera. Pieraldo Baranelli è l’investigatore ufficiale. Un quarantenne calvo dall’aspetto discreto e allampanato, quasi affabile nei modi se non fosse per il ghigno un po’ sbilenco dietro al quale si cela un intuito straordinario nel cogliere la psicologia degli esseri umani, non quella della moglie che lo tradisce da dieci anni con i suoi due vice. «C’è già qualche sospetto?» chiede ancora Pertempi, deluso di non poter fornire altri particolari sull’arma del delitto, una comunissima lama di metallo con una punta lunga sette centimetri dal diametro di due virgola quattro. «Mi sembri Corridoni» mentre manda giù una fetta di lardo: «vuole a tutti costi qualcuno da incriminare perché i genitori degli alunni stanno facendo su un casino. Pare che tra di loro ci sia un politico pronto a scatenare un putiferio.» «Sempre i politici» sospira Rondo. «E poi Rondo l’hai visto pure tu il preside. È terrorizzato. Mi ha ripetuto per quattro volte di fila dove si trovava tra le dodici e l’una. Pensa solo a discolparsi. Ma anche se non avesse un alibi uno così non lo incriminerei mai. Non voleva neanche stringermi la mano dalla paura!» «Cos’abbiamo di sicuro, allora?» incalza Pertempi, che si è già dilungato sulla mancanza di impronte nonché sulle marche dei detersivi usati per pulire l’aula di arte e il corridoio da dove è passato l’assassino: gli stessi in dotazione alla scuola. «Domani interroghiamo i professori. Quelli rimasti a scuola erano tutti nell’aula di scienze ad assistere al documentario. Siccome è una scuola privata, mi ha spiegato in un barlume di lucidità il preside, loro incoraggiano i professori a partecipare alle attività supplementari pagando degli straordinari altissimi. La fortuna o la sfortuna che il delitto sia stato commesso fuori dall’orario regolare delle lezioni elimina molte persone. Di bidelli per esempio n’era rimasto uno solo. Poi c’erano un’infermiera e non ho capito se c’era ancora la segretaria del preside. Comunque domani la scuola rimane chiusa e ho convocato tutti i professori in commissariato alle sette e mezzo del mattino. Cominciamo a interrogarli alle sei e mezzo.» «Scusa Graziella» si alza Manolo «ma se non mi muovo adesso ora che torno a Brescia.» «Certo, vai pure. E Luca, non doveva raggiungerci con il referto?» «Sai com’è fatto, è brasiliano.» Pur nella sua indeterminatezza, la risposta è sufficiente per la Bovera, sempre briosa all’inizio di un caso: «Poi sarei io la razzista?». «Se non c’è altro, commissario» si alza anche Pertempi «sono un po’ provato, sa. Sono quasi le due e mezzo.» «Be’ certo» ridacchia Rondo «lo dicevo che non è come ci si sente ma l’età...» Non lo lascia finire la Bovera: «Domattina mandami il referto appena puoi, mi raccomando. Anche tu, Manolo eh?». Appena escono, il commissario redarguisce Rondo: «La vuoi smettere di infierire sul povero Pertempi. Ti voglio vedere a sessant’anni con un solo polmone». «Delle volte non la capisco proprio, commissario. A proposito, quanti bicchieri di Bonarda ha bevuto finora?» È il destino di Rondo, rivolgere domande che non trovano risposta. «Come, se n’è andato anche Pigi?» «Ci ha salutati mezz’ora fa, signor comm...» «Almeno ci ha lasciato le chiavi per chiudere?» «Be’, signor commiss...»: com’è titubante Rondo, più titubante del solito nell’indicare il mazzo di chiavi accanto al bicchiere semivuoto della Bovera. «Prima o poi dovremmo trovarci un’altra trattoria» commenta prendendo il mazzo. Da quando Pigi è stato costretto a vendere la trattoria Le Due Lucie a Jo Togneri e Roger Carollo le loro cene di lavoro si sono dimezzate. Solo l’abitudine, un po’ di nostalgia, la possibilità di stare a tavola anche dopo l’orario di chiusura e soprattutto il lardo di Colonnata li riportano nel locale che adesso appartiene a due dei mafiosi più in voga della città sui quali stanno indagando da otto mesi senza alcun risultato concreto. La Bovera e Rondo salutano dalla finestra Manolo dietro il casco nero che ondeggia caparbio nel mettere in moto la Vespa bianca. È arrivato anche per loro il momento di uscire. Passeggiano distratti nella notte già sfumante nell’alba. «Certo che il lardo di Colonnata...» soddisfatta di aver scampato gli agnolotti ripieni di carne e il brasato all’erba cipollina di Gioia e Felice. «Strana la morte» cercando una stella nel cielo biancastro, Rondo sembra ancora più basso del solito vicino alla testa svettante della Bovera. «Si dice strana la vita. La morte è normale.» «Ma morire in frac...» «E se stessimo partendo col piede sbagliato? Se Rabolini non conosceva il suo assassino? L’hai detto anche tu prima: l’ha fregato la fiducia. Ma la fiducia nei confronti di chi? Il mio istinto mi dice che dietro quest’omicidio c’è una storia di ricatti che coinvolge più di una persona. Non escluderei che chi ha pulito il parquet non sia l’assassino.» Rondo è imbarazzato, lo è ogni volta che la Bovera prende spunto da una sua frase per costruire delle teorie: se no perché si metterebbe a contare ad alta voce i lampioni rotti? La Bovera se ne accorge: «Sai cosa diceva mio nonno Otello? Diceva che l’istinto è roba da donne. Chissà poi se è una frase maschilista o femminista, che ne dici? Io comunque credo che il frac abbia a che vedere con la fiducia». «E il ricatto?» Non c’è tempo di rispondere, la Bovera ha fretta: «A che ora apre la panetteria della Cinzia?». «Non prima delle tre e mezzo.» «Va be’, visto che abbiamo tempo ci andiamo a piedi, così ci facciamo una bella scorpacciata prima di rimetterci al lavoro.» «Benissimo, signor commissario»: del resto andare a dormire a stomaco vuoto sarebbe stato un supplizio.