Andrea Ponso sulle "Cucine celesti"

 
Roberto Amato, Le cucine celesti, Reggio Emilia, Diabasis, 2003.
Capita a volte che un premio importante come il Viareggio sveli ai lettori di poesia un autore prima quasi del tutto sconosciuto; un autore che certo si impone con una sua abbagliante fisionomia, ben definita e sicura, un outsider che non possiamo ridurre sbrigativamente tra le schiere rassicuranti dei promettenti (e grande merito va, in questo senso, anche all'editore che sta portando avanti un progetto non legato pedissequamente alle regole del mercato e capace di imporsi, nonostante il suo prezioso isolamento, anche su palcoscenici importanti).
Infatti, questa opera prima di Amato (se si escludono alcune sparute ma prestigiose apparizioni in rivista) impone alla poesia italiana non solo il suo autore ma anche, con dolce prepotenza, tutto un mondo, iconografico ma anche stilistico, conoscitivo e in certo senso musicale.
Già nella breve prefazione di Cancogni si accennava, per questa poesia, al clima e ai procedimenti dell'opera buffa, e a noi pare una intuizione più che pertinente, anzi diremmo centrale, sulla quale cercheremo di basare la nostra breve indagine.
Sappiamo che l'opera buffa nasce storicamente come intermezzo dell'opera seria, e diciamo subito che in Amato c'è questa volontà leggera ma ostinatamente tragica di dilatare all'infinito tale intermezzo, e non solo fino alla fine dell'esistenza ma, ci pare (e lo vedremo) anche oltre; d'altra parte, la lingua che Amato usa con apparente facilità potrebbe essere essa stessa una sorta di intermezzo all'interno della nostra tradizione (ricordiamo, solo a livello di materiali, i prelievi importanti proprio dai libretti musicali di alcuni grandi campioni dello stile semplice come Saba): lingua media ma sostenuta, leggerissima ma intimamente musicale, dolce e speziata, eppure chiara, limpida e priva di evidenti forzature stilistiche; insomma, una medietas che potrebbe tranquillamente inserirsi nel solco della tradizione del monolinguismo che da Petrarca arriva fino ai giorni nostri; senonché in Amato essa mantiene una materialità, una farinosità e una fragranza davvero senza precedenti, per non contare il fatto che forse quasi mai una tale concreta limpidezza ha saputo raggiungere il mondo basso e farsesco, grasso e tragicissimo ad un tempo, insomma il mondo anche del comico, senza sacrificarlo ai gas azzurri e asfissianti dell'astrazione.
Questo tipo di terreno linguistico potrebbe anche far pensare ad un recupero parodico di istituti legati ad un clima di tipo crepuscolare (e sarebbe un assunto apparentemente giustificato anche dalla scelta dei temi trattati), ad una intenzione agonistica nei confronti del potere: niente di più lontano, ci pare, dai propositi di questo poeta, essenzialmente per due motivi; il primo riguarda la carica potentemente conoscitiva e direi quasi sistematica (termine rischioso) della spinta di Amato che in questi testi traccia con sicurezza le coordinate di un universo leggerissimo ma vivo e concreto, un mondo a suo modo autonomo ed esemplare; il secondo è legato alla situazione del poeta: ancora, come nell'intermezzo dell'opera seria, il poeta che, alla pari del personaggio principale, si trova derubato e spogliato degli attributi del destino e del mito, non si ripiega sulla contestazione delle istituzioni o sulla paludata recita delle commiserazioni elegiache di rito, ma al contrario accetta la situazione come una fatalità positiva, sprigionante leggerezza e velocità di movimento, liberato da ogni trascendenza che non sia interamente umana e fantastica: lo scioglimento, insomma, in pura ma concreta vibratilità musicale, in chiaro e perturbante desiderio.
Allora, a questo volatilizzarsi del soggetto che si prova e intuisce in un rimando continuo di specchi la sua inconsistenza se non come dialogicità musicale (è quello che, ancora una volta, succede nei lavori rossiniani) Amato reagisce impastandosi e cucinandosi, dorandosi e imbevendosi dei sapori e degli aromi di queste cucine, all'incrocio tra lo svanire e il rigore del morto, dell'uom di sasso o delle carni senza vita.
La cucina diviene allora l'immenso laboratorio dove tutto passa e cambia, dove ogni cosa viene saggiata o recuperata: è il luogo degli odori e degli amori, della morte e del nutrimento, studiolo magico dove si cercano ricette arcane e dove addirittura i morti vengono sistemati e profumati, dove si cerca (vanamente ma tenacemente) il principio della levitazione universale (altro punto conoscitivo forte, questo, che smentisce derivazioni rinunciatarie, elegiache o crepuscolareggianti), dove le generazioni e soprattutto le donne si accavallano e strusciano, sudano e addolciscono, sfrondano e disperdono; la cucina, insomma, diventa l'incunabolo e il ventre della scrittura stessa di Amato: è la stessa scrittura nel suo tentativo divergente di catturare le vibrazioni e le frenesie musicali del dissolvimento gioioso o doloroso ma anche terreno in cui si provano e si riprovano all'infinito (non so più cosa son cosa faccio) gli aborti verso una possibile, minima, e musicale consistenza.
Ecco allora quel senso continuo di gioia certo, ma di gioia in qualche modo pericolosa e inquietante, che scorre in pacifica profondità sotto al bianco soffice e casalingo di questo libro, come di chi cerchi se stesso in un groviglio di lenzuola scaldate dalle braci, o come chi si trovi di prima mattina, solo in una cucina dove gli strumenti e gli utensili siano sparsi nei tavoli, segni di un passaggio di cui a volte perdiamo le tracce; del resto, il tono cantilenante di molte poesie, le rime volutamente facili ma limpidissime che ricordano nella loro dinamica quasi i movimenti lenti e sempre uguali dell'impastare, ci riportano ad un mondo bambino, e il bambino, si sa, è il terreno privilegiato di battaglia di istinti primordiali, potenti e assoluti, dell'odio e dell'amore smisurato, della mania e dell'angoscia, nel quale il terrore per il fuori è una ferita che si apre proprio all'interno dell'amnios familiare.
Non dimentichiamo che la cucina e la macelleria sono anche luoghi crudeli, di sangue e smembramenti, di morte e nutrimento: sono davvero il cuore beato che non sa, come l'infanzia; e del resto, il tentativo di un ritorno, la risalita al mondo uterino nasconde il desiderio impossibile ma concretissimo, carnoso fino allo scandalo (uno scandalo dolce, come non potrebbe essere altrimenti per questo poeta discreto fino all'autolesionismo) di non consistere-esistere in quel discontinuo eppure amato mondo di orpimenti e medicamenti, di cucinature (che sono anche bruciature e uccisioni) e cuciture; lo dimostra la splendida sezione intitolata Le fate dalla quale è giusto estrapolare qualche pezzo: "Nel vasto corpo della Fata/ascolto i transiti di sublimi banchetti./I boli./E melodiose urine. Ascolto il lungo oscuro/defecare./Sento come si lava sotto/dopo nell'acqua dolce/o nelle amare/salamoie.//Le salmodie che canta prima del lungo sonno/e il suo russare che si perde solo//dove filtra/la luce."; è il sogno di un ascolto unificato, che si fa corpo sonoro, senza dolore: consistenza non legata al continuo lavorio del costruire-cucinare; la gioia potrebbe essere questa forma musicale di ritiro cavernoso e membranoso (anche l'orecchio, in un certo senso, con molta facilità può ricordare il caldo filamentoso della cavità intrauterina) nel quale abbracciare le proprie amate/odiate frattaglie in perenne alzheimer vibratorio, oppure qualcosa di più immediatamente legato ad una sempre corporale beata incontinenza:"e finalmente il mondo/per me sarà una trina//beata incontinenza/la siepe è diventata una latrina/non so se piango/o stringo tra le mani/un uccellino/i piedi mi si bagnano/tingo di giallo l'orlo/dei calzoni/e anche l'orlo dei fiori:/qualcosa di salato/a ghirigori/forse un dolore immenso/stilla fuori"
Insomma, la voce e la sua musica è principio perturbante e di leggerezza, che scioglie e impasta (e si impasta) i nessi logico-sintattici, gli apparati melodici e stilistici: poesie, queste, che proprio in ragione di quanto appena detto, hanno bisogno di una carta, magari quella da zucchero, ruvida quanto basta per sgranare e infarinare la traccia vocalica: insomma, Amato è e non è annoverabile tra la schiera di quei poeti che, come ricordava Zumthor, sono in esilio sul foglio scritto: "Mio figlio Lapo mi chiamò Ventofino/(lui che trovava i soprannomi a tutto)/si accorse subito/fin dal primo vagito/che le mie mani erano fatte d'aria/solamente//e nel vestito/non c'era quasi niente/tranne la voce chiusa/nella bambagia della barba finta/e lunga/e sfusa/come i pappi dell'Orsa/e le lattigini/delle folte comete".
Tra le pagine di questo libro troviamo le tracce, ancora calde e fragranti, a volte luminose e comuni altre volte vergognose ma umanissime, del tentativo poetico ma anche intimamente vissuto (e vissuto proprio nella sua perturbata aria di fiaba e crudeltà) di dare una straziata e consistente dolcezza e lentezza al consumarsi e smangiarsi del tutto, la ricerca del luogo impossibile di una materialità non dolorosa, come abbiamo visto amniotica e avvolgente, masticata e digerita la parte dura; ma le ricette non bastano, spariscono e non sempre si ricordano, si smarriscono proprio come le genealogie, gli alberi familiari, le parole e le voci, e allora non resta che impastarsi della propria voce:"Sono la madre di mia madre/e parlo su di me - mi canto/mi soffio di vento/non mi capisco e non mi pento/per questo/parlerei con le stelle/se fossero più bianche/e meno stanche di me/che - lo so - le tormento!/dire che sono stelle/e mischiarle alle cose di me/ne faccio grappoli e semenze/ma la mia voce è voce d'uva/e di lupini scossi/d'uova di cigno/e losaddio che voce da me sola/mi faccio" o arrendersi placidamente alla propria inadeguatezza:"...fatto coraggio/mi sono/certo guardarsi così/senza puntelli/senza robusti capitelli/e così nudo - un grande pene/ma che non va d'accordo/col resto//allora mi rivesto/copro le spalle magre/il petto cavo/penso che sono un favo/e perché no?/abitatemi api..."
Andrea Ponso
 

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