Maremma Maremma...

Ven, 02/08/2008 - 16:42

Maremma Maremma...

 
Cavalieri di razza
A svegliarmi è stato il rumore del mare che batteva forte la riva, tempestoso. Ma gli occhi mi hanno detto subito che ero in un'accogliente, silenziosa camera d'albergo: il mare era dunque un sogno. Mi sono avvicinato alla finestra e laggiù in fondo comunque l'ho visto. Un mare intenso oltre la pianura coltivata e la striscia scura dei pini di costa. Ho pensato al Granduca Leopoldo II, che della villa dove ho dormito aveva fatto il suo casino di caccia; forse anche lui si svegliava sognando la burrasca sul litorale e poi scendeva a basso, e col suo seguito usciva per inoltrarsi nella grande tenuta tutt'intorno, La Badiola, nell'entroterra di Castiglione della Pescaia. Nel rettangolo della finestra c'è il riassunto di tutta la Maremma: colori densi, grandi spazi di campagna senza case, l'ossessione dei pini piantati lungo la vecchia Aurelia, lungo le altre strade dell'interno, lungo le sterrate che portano alle fattorie. Anche La Badiola è solcata da una teoria di pini, alternati con matematico rigore ai cipressi: Andana è il nome del viale, e come lui è stata ribattezzata la villa da poco rimessa a nuovo, dove Alain Ducasse è venuto per esercitare l'arte della perfetta ospitalità. Per anni lo chef francese ha detto no all'Italia, poi è arrivato in questo angolo di Toscana ed è rimasto stregato. Già, perché un tempo la Maremma era soprattutto una zona da cui si fuggiva, mentre ora è un luogo che richiama, che invita irresistibilmente. Prima delle bonifiche ottocentesche qui c'erano paludi dal respiro malarico, strade che conoscevano il passo dei briganti, coste deserte e borghi arrampicati sulle colline. Ora qui la Toscana ha spostato la sua nuova frontiera del turismo, dell'arte, del gusto. Qui da tempo gli archeologi  forzano la terra,  ci ficcano le mani per tirarne fuori le radici etrusche, greche e romane. Ma poi sono giunti anche ingegneri e architetti per far sì che da quelle radici antiche germogliassero modernissime piante di vetro e cemento. Come la cantina Petra di Mario Botta a Suvereto. L'hanno chiamata in mille modi: astronave, tempio azteco, osservatorio babilonese...perché davvero tutto sembra meno che una cantina. Da lontano la vedi e rimani interdetto, guardi la collina che è stata divelta per far posto al grande cilindro del corpo centrale, pensi alle fondamenta che si suppongono enormi, a come doveva essere quel lembo di terra prima della violenza. Eppure devi arrenderti al tuo occhio che ti obbliga a dire che Petra è bellissima nella sua imponente linearità, nella sua purezza di forme. E vuoi salirci sul quel cilindro, fino in cima alla scalinata che lo seziona e di lassù guardare il mare, e nel mare l'Isola d'Elba che emerge. E vuoi entrarci in quel cilindro per capire dove siano i tini, le botti, le bottiglie, se davvero ci sia vino là dentro. E vino c'è, del migliore, e porta dei bei nomi: Petra ovviamente, e poi Zingari, Ebo, Quercegobbe. Modernissimi tunnel scavano la collina, dove il vino invecchia al fresco, nel silenzio, dove infine puoi sederti a meditare e poggiare l'orecchio sulla parete di sasso, a un palmo dal cuore etrusco che qui batte.
Chissà se il Carducci - che in Maremma, a Bolgheri e Castagneto, passò l'infanzia e spesso ritornò in età matura -  immaginava che la sua terra sarebbe stata percorsa da tedeschi, inglesi, americani... tutti alla ricerca di qualcosa di unico da poter fissare nella memoria, che si tratti di una rocca antica, di un paesaggio, di un bicchiere di rosso, di una carne speciale. Certo non poteva sapere che i suoi luoghi sarebbero diventati un parco, un Parco Letterario, immaginaria riserva che virtualmente lo ospita. Gli amici qui lo attendevano per fare pantagrueliche mangiate, le "ribotte", di cui si conosceva l'inizio e non la fine. Nella sede del Parco li puoi vedere ancora - il poeta ed i suoi amici -  ritratti in foto d'epoca, stravaccati ai piedi della Torre di Donoratico, pigri e satolli nelle loro giacche maremmane. Ecco, neppure di ciò che indossavano immaginavano il destino: quelle giacche tessute con "pelle di diavolo" per lottare contro i rovi "stracciabrache", foderate all'interno con tela "spazzina", munite di una "tasca ladra" dove nascondere la selvaggina di frodo,  sarebbero divenute segno di distinzione, di raffinato vivere, oggetti da mostrare con compiacimento. Il marchio Capalbio (ormai sinonimo di giacca maremmana) da diversi anni è proprietà della prestigiosa Clothing Company di Franco Malenotti, ma è nato in Maremma, a Roccastrada, da un'idea di Fabrizio Fulceri, che iniziò a riprodurre, con lievissimi aggiornamenti, le antiche giacche che tutti, in questa parte di Toscana, amavano indossare, fossero briganti o gentiluomini. Perché qui la tradizione è dura a morire, si rinnova, si modula sul passo del tempo ma non muore. Gli artigiani non mollano, come Renato e Giacomo Regoli, padre e figlio, che ancora inventano scarpe su misura, piede per piede, come faceva il nonno e prima ancora il bisnonno, quando bisognava peregrinare di fattoria in fattoria a fare scarpe per i contadini in cambio di uova e di polli perché soldi ce n'erano ben pochi. Adesso quelle scarpe se le contendono i personaggi del jet set, che fanno chilometri pur di calzare stivaloni da buttero o scarpe da maialaro. Quelle giacche e quelle scarpe parlano di uno stile di vita lontano, ce lo hanno scritto fino nelle cuciture, e ora lo portano in giro nel passeggio mondano delle città.
La Maremma è un territorio che si abita con la mente prima ancora di andarci, un luogo mitico, finito di peso nel frasario delle imprecazioni, delle semi-bestemmie, perché quel maremmacane! che si sente spesso è un improperio scagliato contro la divinità, contro una terra più matrigna che madre, che invece di allattarti ti sbatte nel mondo come facesse un tiro di dadi o una mano distratta di carte. Ma le carte non sono solo azzardo. Nella loro combinatoria c'è chi sa leggerci inclinazioni e destini, sempre sperando in segrete fortune e dolcezze. Niki de Saint Phalle, delle carte ha fatto un canto plastico e un bosco incantato: il suo Giardino dei Tarocchi a Capalbio è abitato da giganti di cemento, con vesti a mosaici di ceramiche e specchietti, lungo i vialetti di una collina frondosa. A ogni passo una sorpresa, un mistero che si svela o che si aggiunge. E ogni tanto sinistri cigolii di ordigni semoventi, come un memento mori: sono le invenzioni di Jean Tanguely, che con Niki condivise la vita e l'arte, a Capalbio come a Parigi, dove firmarono la fontana Stravinsky di fronte al Beaubourg. Quando Jean è scomparso, Niki gli ha voluto dedicare un museo, a Basilea, e lo ha progettato proprio Mario Botta, l'architetto di Petra. Poi anche Niki se ne è andata, lasciando in Maremma il suo coloratissimo testamento a cielo aperto.
A svegliarmi era stato il rumore del mare, avevo detto. E il rumore del mare qui c'è sempre o lo possiamo immaginare perché il mare è una presenza costante, sempre all'orizzonte o subito dietro un temporaneo ostacolo. Qui attraccavano le navi etrusche cariche del ferro dell'Elba e quelle greche con le loro mercanzie, specialmente il vino di Chio. Il mare è scambio, andirivieni, incrocio di popoli e di vite individuali. Ogni porto, anche piccolo, è un occhio, un orecchio sul mondo. Ogni nave che arriva, anche piccola, porta da fuori qualcosa con sé, come un ambasciatore. Non è un caso che uno dei più celebrati ristoranti d'Italia, il Gambero Rosso di Fulvio Pierangelini, sia proprio qui, affacciato sul porticciolo di San Vincenzo. Le fantasie di Pierangelini sono popolate di ospiti esotici in banchetti di corte, di diplomatici eleganti in perenne trasferta, seduti ad una tavola impeccabile, semplice e raffinatissima. Come il suo locale. Come la sua cucina. E di fronte sempre il mare, liquido corridoio di uomini e merci, riserva di splendido pesce. E alle spalle la terra, le vigne, gli uliveti, gli animali bradi e in recinto. Animali che da secoli forniscono carni d'eccezione, animali simbolo di antica cultura gastronomica, approdati persino ai manuali di storia dell'arte, come quel maialino di cinta che Ambrogio Lorenzetti dipinse mentre entra col suo padrone in Siena, e i cui discendenti - se così si può dire - possiamo ancora gustare al Gambero Rosso.
Ma a svegliarmi, dicevo, fu il rumore del mare. Batteva forte la riva.
(Alessandro Trasciatti, GenteViaggi, agosto 2005, pp. 114-125, foto di Massimo Borchi/Atlantide)