Via Emilia: sulla buona strada

 

 

Articolo apparso su GenteViaggi, marzo 2007, pp. 132-145, foto di Massimo Borchi/Atlantide.

 

Dai colli a sud-ovest di Piacenza la pianura padana è una visione di verdi riquadri scuri e chiari, di chiome d'alberi che si incrociano in linee ortogonali, un tappeto al di sopra del quale anche oggi tutto si perde nella foschia, così che il fondale delle Alpi resta invisibile come dietro un sipario. Parlare di fondale qui fa un certo effetto, perché due milioni e mezzo d'anni fa su questi rilievi c'era proprio il mare, il Mare Padano, e se queste terre sono ricche di vestigia fossili è perché allora qui spiaggiavano balene, balenottere e delfini. Era il periodo del Piacenziano, come lo hanno chiamato i geologi. Adesso, su questi antichi fondali emersi, c'è un rigoglio di pampini che danno buoni vini dai nomi chiusi, come il Gotturnio e l'Ortrugo, o estroversi, come il Bonarda. In questo mare di vino hanno dato forma concreta al loro sogno ostinato di imprenditori della terra i coniugi De Micheli, Luigi e Caterina: il loro podere Terravera, a Borgonovo Val Tidone, è un piccolo falansterio autosufficiente, un kibbutz dove approdano famiglie con bambini, personaggi famosi, piccoli gruppi in gita. Qui non si viene solo per soggiornare ma anche per imparare a interpretare il passo del tempo e delle stagioni, le fasi del sole e della luna, la disciplina segreta della terra: ci sono due meridiane, un roseto con migliaia di esemplari, un esercito di piante aromatiche, un laghetto sorgivo con oche e anatre, qui si organizzano corsi e presto ci sarà anche un osservatorio astronomico. De Micheli è allievo di Attilio Scienza, enologo di fama che Luigi continua a chiamare "professore" anche se si conoscono da una vita ed hanno condiviso più di un'avventura. Come quando andarono in Caucaso a cercare gli esemplari superstiti della vite selvatica e li trovarono, perché là c'è la culla della vite e là, sull'Ararat, la tradizione vuole che si trovino i resti dell'arca di Noè, primo uomo a sperimentare una sbronza di biblica memoria.
Sono arrivato qui dalla febbrile campagna industriale che la via Emilia percorre dritta tra due ali di pioppi, là dove le vaste distese dei bei campi sono interrotte da impoetici capannoni prefabbricati e dove pure i pensieri volano basso, sotto il peso delle pesanti folate che giungono dagli allevamenti di maiali. Eppure l'incanto c'è anche in pianura, basta attendere che da un lato o dall'altro della strada parta una sterrata alberata che porta a una chiesa in mezzo alle colture, a una villa, a un vasto cascinale, e si è ripagati di colpo dell'offesa visiva delle fabbriche. Negli orizzonti bassi delle province d'Emilia si può decidere se perdersi dietro le suggestioni mistiche di Novellara o di Nonantola, o quelle musicali di Busseto e Roncole Verdi, oppure ancora andare là dove i nomi dei luoghi sono diventati nomi di persona: a Vignola, a Correggio, a Mirandola. Io ho scelto di perdermi a Fontanellato. Lì la vita dei Sanvitale si svolgeva protetta dai cerchi concentrici delle case del borgo, del fossato d'acqua verde e delle mura con torri angolari. In una stanzetta oscura della rocca dipinse il suo capolavoro il Parmigianino: il mito di Diana e Atteone, trasformato in cervo e condannato ad essere sbranato dai suoi stessi cani. Mi ha assalito un brivido e non solo per la crudeltà della storia, ma anche perché quei volti e quelle forme così lievi le affrescò la mano felice di un ventenne (che sarebbe morto a trentasette anni), e perché in quel "Camerino" senza finestre l'affascinante Paola Gonzaga, moglie del conte Galeazzo Sanvitale, ammirava gli affreschi a lume di candela. Chissà cosa vedeva in quella storia, lei che aveva perso un figlio piccolissimo e che aveva voluto, tra i putti dipinti, i volti di un bimbo e di una bimba, così belli e dolci da essere inquietanti. Ma fuori, a protezione di questa tenera culla di dolore, il paese ancora si premura di sfoggiare la faccia tranquilla e discreta della provincia: le case coi portici, le facciate ridipinte, le chiacchiere del bar, la macelleria di sola carne equina.
La stessa faccia che ho ritrovato a Colorno, ma con un tocco di mondanità in più. Del resto, qui il paese non si deve confrontare con un rocca rinascimentale, sia pure trasformata in dimora signorile; qui i conti vanno fatti con una delle più belle regge italiane, costruita nel Settecento sul modello di Versailles. Il castello Farnese non ha le dimensioni della reggia di Caserta, ma è comunque tale da far scrivere a Gianni Celati, nel suo diario di viaggio Verso la foce: "è come se fossi in soggezione nel suo enorme parco pieno d'alberi, o davanti a quella facciata riflessa nell'acqua d'un canale. In altre epoche gli abitanti del posto dovevano essere in soggezione come me, davanti a tanta magnificenza". Centro di una sfarzosa e movimentata vita di corte, il palazzo accolse compagnie teatrali di grido ed anche Goldoni vi soggiornò spesso. Al fasto dei saloni interni doveva corrispondere uno spazio aperto che fosse una festa per gli occhi. Così il giardino divenne una vasta preziosità di aiuole, vialetti, fiori e alberi, che di notte poteva essere illuminata a giorno ed anche animata da suonatori, cantanti, apparati di macchine a sorpresa e fuochi artificiali. Adesso, in un'ala del palazzo, l'effimero e il sublime si toccano nella ghiotta Università di Scienze Gastronomiche.
Proprio in quest'Emilia di carne e di latte, dove da secoli bollono le pentole degli stufati e la dieta mediterranea è un'astrazione, faceva la fame il più smaliziato dei pittori naif: Antonio Ligabue (anzi Laccabue). Questo tragico espressionista ci ha lasciato un bestiario esotico e contadino, con tigri, cavalli da tiro, lupi siberiani, pastori tedeschi e una selva di autoritratti folli e struggenti. Non fosse stato per lo scultore Marino Renato Mazzacurati, Ligabue avrebbe continuato a svendere i suoi quadri per poche lire, a vivere nei boschi, a martoriarsi il naso a colpi di pietra in piazza Bentivoglio a Gualtieri per forgiarsi un profilo aquilino. I pittori "ingenui" sono stati molti e il regista Cesare Zavattini volle per loro il Museo Nazionale della Pittura Naif a Luzzara, il suo paese. Iniziò anche a registrare narrazioni orali dalla loro viva voce, lavoro poi continuato da Alfredo Gianolio, avvocato-scrittore che ha riunito in un libro, Vite sbobinate, le fascinose e bizzare "nastrobiografie" di questi  "primitivi estrosi e trasognati" della Valpadana. Tra loro perché non dire di Elena Guastalla che riunisce ancora gli amici per fare grandi mangiate a Lido Po, nei pressi di una casa-chiatta che lei stessa ha interamente dipinto? La chiatta è tirata in secco e il fiume scorre diversi metri più sotto. Ma quando il Po si gonfia in piena paurosa il barcone prende a galleggiare fra gli alberi. Comunque, piazza Bentivoglio a Gualtieri non merita una visita solo per il ricordo di Ligabue, ma anche perché vive dello strano fascino orizzontale che possiedono gli insediamenti urbani cresciuti senza l'assillo dello spazio. E' smisurata rispetto al centro abitato e confonde chi entra, specie se è sera o meglio ancora notte fonda. Ha qualcosa di vagamente francese, con quei vialetti e lampioncini, quasi fosse un fazzoletto di terra parigina, ma un po' sbracata, senza maquillage, perché la cura di sé richiede metodo, puntiglio ed anche civetteria. E Piazza Bentivoglio non è affatto civettuola, ti stupisce solo con la sua urbanità persa in piena campagna.
Ma di piazze che non posso tacere ce n'è un'altra: Piazza dei Martiri a Carpi, una piazza da capitale, la terza d'Italia per estensione. Fa l'effetto che farebbe il Teatro alla Scala se fosse a Lodi e non a Milano. E del teatro, Piazza dei Martiri conserva qualcosa, col suo Portico Lungo che sembra un loggione da cui sporgersi a guardare cosa succede in mezzo, o in cui si può stare fermi in crocchio come in un foyer, o sedere al tavolino di uno dei bar che prolungano questo spazio di chiacchiera e d'osservazione in un lembo d'asfalto fuori dal locale. Dall'altro lato della piazza il Palazzo dei Pio è un quieto, armonioso pachiderma di torri e bastioni allungatosi pigro nei secoli. L'ho guardato a lungo con la speranza irragionevole che quell'animale di mattoni si muovesse, ma l'attesa si dilatava troppo e allora sono andato a fare altre osservazioni, stavolta naturali. A Nirano, vicino a Sassuolo, la collina parla un linguaggio intermittente, fatto di improvvisi borborigmi della terra che sputa salse grigie e fredde che si solidificano in piccoli coni simili a vulcani. Alcuni bassi che arrivano al ginocchio, altri cresciuti per diversi metri a formare un vero e proprio parco lunare da percorrere a piedi senza toccare niente. Mi sono messo in ascolto e dopo un po' il gorgoglio è arrivato nell'intatto silenzio delle colline intorno e da uno dei crateri è sgorgato un fiotto di liquido denso.
Ma se a Nirano la crosta terrestre sembra in suppurazione, bisognosa di espellere liquidi in eccesso, pochi chilometri fuori Bologna si sgretola e si sfalda sotto l'azione dell'erosione. Il Parco dei Gessi e dei Calanchi dell'Abbadessa, offre uno spettacolo carsico fatto di affioramenti di pietre bianchissime, doline, inghiottitoi, vallate cieche, grotte inaccessibili o esplorabili, come quella della Spipola, che comunque non è stata attrezzata con facili ponti e passerelle per non intaccarne il fascino originario. Non si pensava invece alla tutela dell'ambiente quando in queste zone si scavava ferocemente il gesso, ma adesso quelle ferite hanno smesso di sanguinare e la loro vista fa parte del paesaggio del parco. Qui vivono istrici, caprioli, uccelli dai nomi pittoreschi come l'occhiocotto, lo strillozzo, il succiacapre e il più piccolo tra i toporagni d'Europa: il mustiolo che pesa appena due grammi e mezzo. Dove al gesso si sostituisce l'argilla, le coste collinari si fanno scure e scoscese, dirupate, spoglie. E' la severa bellezza dei calanchi.. Sui loro margini sembra che ami passeggiare Learco Pignagnoli,  singolare figura di mineralogista, scrittore e filosofo. Pare che egli semini limatura di ferro nei burroni e poi torni a vedere dopo anni se è cresciuto e se si può raccogliere, come in una miniera a cielo aperto. Questo, almeno, è quanto affermano nei loro convegni itineranti alcuni scrittori della via Emilia: Daniele Benati, Ermanno Cavazzoni, Ugo Cornia, Paolo Nori. Tutte persone serissime. O quasi.
La via Emilia l'ho percorsa da Bologna a Piacenza, mi sono lasciato sedurre dai cartelloni che pubblicizzano il culatello di Zibello e dalle indicazioni stradali che ammiccano all'abbazia di Chiaravalle della Colomba, al castello di Felino, alla reggia barocca di Sassuolo. Ho visto il circuito di Maranello e le officine Maserati, il sole velato dall'afa e i pescatori sul Po, i cascinali cadenti e le vigne di lambrusco. Ho risposto ai sorrisi delle cassiere e agli sguardi storti dei camionisti. Non si possono riassumere cinque province di una grande regione. Ma attraversarle e viverle d'un fiato, questo sì.
 
Alessandro Trasciatti

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