L'importanza delle pulizie...tredicesima puntata

 


13. Il sorriso di Minnie
Uccidere un uomo e non provare rimorso. Solo organizzazione, tempismo, precisione e tanta fortuna: troppa, non si dà pace Scomazzon da sabato notte.
È la moglie a riferirgli la notizia del ritrovamento di un cadavere assassinato a scuola. Lo chiama dalla cucina dove sta pelando le melanzane davanti al televisorino che si porta in giro per le stanze in cui ne manca uno fisso. Alle dodici e trentacinque ha i capelli arricciati intorno a giganteschi bigodini rosa pallido, quasi festosa nel suo grembiulino unticcio con la faccia ridente di Minnie.
"Cosa c'è da urlare? Un po' di pazienza, arrivo subito. E smettila di urlare!"
"Sbrigati o finisce il servizio" punta il coltello in direzione dello schermo gremito di mamme manifestanti fuori dall'edificio della scuola. Il portone è reso irriconoscibile da un enorme striscione bianco che lo sovrasta con la scritta rossa "Ribelliamoci".
"Scioperano contro i figli? Toh, c'è anche la signora Zurleni. Si vede che non rivuole più indietro il figlio in casa" ironizza stancamente Scomazzon.
"Shhhht! Fammi sentire!"
La voce fuori campo elenca dettagli sul cadavere di un metalmeccanico rinvenuto in un'aula semiabbandonata piena di cianfrusaglie. Uno zoom coglie a bruciapelo l'espressione contratta del procuratore Corridoni. I due agenti al suo fianco sono risucchiati dal primo piano del volto dominato da un naso eccezionalmente largo cosparso di peli. Gli occhi sfuggono all'obiettivo con risaputa dimestichezza. Ignorando le domande dei cronisti, il procuratore ripete la formula di rito: "Mi spiace ma fin quando non ci sono prove non posso rilasciare alcuna dichiarazione ufficiale. Cercate di capirmi...".
Un brusco montaggio stacca sulla caparbia affilata nonostante il colorito esangue della Bovera, mentre in sottofondo la voce di Corridoni si schernisce ancora dall'incalzare di un giornalista che blatera qualcosa a proposito di diverse telefonate: "A me ne risultano almeno tre".
Finalmente la Bovera recupera la sua voce: osservandola per la prima volta Scomazzon intuisce in quello sguardo tardivo, come raggomitolato in una solitudine sediziosa, un'affinità inattesa. Si sente attratto dalla sicurezza con cui minimizza i tranelli di quel giornalista che non si occupa più di morti sfracellati ma comunque si trova sul posto.
"Non trovi che somigli a Leonardo Di Caprio, l'attore, quel giovanotto lì?" lo infastidisce Loredana.
"Come vi ha già detto il procuratore, è ancora presto per trarre delle conclusioni. Posso però aggiungere che secondo me non si tratta di un atto inconsulto. Questo è un delitto premeditato."
Da dove proviene tanta sicurezza? L'attrazione è raddoppiata da una strana forma di fascino, più potente persino di una bruttezza così particolareggiata. Scomazzon sente il bisogno di sedersi. Si siede sullo sgabello accanto al frigorifero e si rialza.
L'afrore stantio delle ascelle della moglie gli impedisce per un attimo di seguire la concitata ricostruzione degli avvenimenti da parte del preside, meticolosissimo nel fornire un alibi sebbene nessuno glielo abbia domandato. L'insulto da parte di una madre inviperita sfrugola il suo aplomb brianzolo da cui si leva una parolaccia troncata a metà dal montatore, evidentemente divertito.
"E tu cosa pensi di fare? Mi sa che dovrai testimoniare."
"Testimoniare? Ma se sono stato tutto il tempo nell'aula di scienze."
"Ah sì?"
"Sì, certo. C'era un documentario."
"Su cosa? Avanti, sentiamo."
Scomazzon vorrebbe pronunciare il nome della moglie. Alla fine vince la ritrosia: "Cara..." si arresta subito. Insomma, come dovrebbe rivolgersi a lei senza far trapelare un disgusto viscerale che ora si appunta sulla guancia invischiata di pelato di pomodoro di una ridentissima Minnie?
"Se te lo chiedessero sapresti riassumere tutto il documentario? Guarda che sono tremendi negli interrogatori, mica te la cavi tanto facilmente. L'hai visto quel Corridoni, e quel commissario donna? Gente che sa il fatto suo. Sta' a sentire me che sono un'esperta di ficcion."
Nel frattempo un uomo tracagnotto in giaccone di pelle blu avanza verso la telecamera. È Rondo, ringhioso in una camicia scura con una evidente difficoltà a esprimersi a causa dell'attacco di sbadigli di cui è vittima. Agita la mano fremebonda per far segno di allontanarsi alla telecamera costringendo l'operatore a un'azzardata panoramica verticale con cui finisce il servizio: "Quanti misteri sotto questo cielo di piombo".
Scomazzon è visibilmente scosso. Detesta le semplificazioni della moglie, le trova così misere: "Tu non sai quello che stai dicendo. Quante volte te lo devo ripetere. Lo dice anche Di Pietro che la vita non è un telefilm!".
"Di Pietro?"
Scomazzon ha già lasciato la cucina senza però sbattere la porta, tanto la moglie è mezzo sorda. Meglio girarsi  e mostrarle in piena faccia il pugno che simula un montante con cui idealmente la stende a terra.
"Ricordati che non l'ho mai fatto" la fissa negli occhi confondendo fierezza, stupore e pentimento per questa astensione messa in serio pericolo da un malcelato avvertimento. Tornando indietro a piccoli passi, la fissa stupefatto.
"Perché avresti dovuto, scusa?" trova un po' ridicolo il marito, di solito così compito anche nel disapprovarla. Al massimo le nega la parola o in segno di disprezzo le rinfaccia di puzzare: "Mica come le sgualdrine. Quelle sì che si puliscono, e soprattutto lì!".
Le è di fronte: "Guardati la tua televisione e se vuoi che io venga a mangiare togliti quei bigodini che nemmeno la portinaia...".
"Magari l'avessimo, una portinaia."
Scomazzon fa un altro passo avanti: il pugno è ancora sospeso, stretto in uno sforzo tremante, a pochi centimetri dalla moglie. Loredana non arretra, aspetta incredula. E quando le nocche impattano contro lo zigomo un urlo di sorpresa accompagna la caduta all'indietro. Le mani alla vana ricerca di un appoggio. Il tagliere che le sfiora una spalla mentre le fette di melanzana si accaniscono sulla felicità di Minnie. Il duro del linoleum, tutto il suo peso. Fino all'irrisione conclusiva dei bigodini rotolanti ai suoi piedi con ancora indosso le pantofole di spugna: rosa anche loro.
"Io esco da questa casa." Evita di sincerarsi delle condizioni della moglie, vederla sanguinare è uno spettacolo obbrobrioso. Si incammina verso l'ingresso. Il tempo di chiudere la serratura un po' difettosa della borsa di cuoio. Il rammarico di non potere urlare tutto il suo disprezzo perché tanto non sentirebbe.
È già sul marciapiede verso via Arbe, 31.
La domenica l'androne del palazzo è spazzato da un impercettibile sentore di aglio. Tintinnare di posate, sigle di telegiornali, le voci più movimentate e quasi nessuno scricchiolio. Questo cambiamento indispone l'indole abitudinaria di Scomazzon. Detesta la sola idea di sentire anche per sbaglio le risate sbarazzine delle puttane, in contrasto con la grossolanità furiosa che monta il suo desiderio di ascoltatore silenzioso.
Anche l'ascensore è intriso di un aroma inconsueto, forse il mazzo di fiori di un innamorato ha sopraffatto quella pesantezza soffocante di profumi a basso costo che Scomazzon associa alla bassezza dell'adescamento.
Subito dopo aver premuto il pulsante del terzo piano la mano sudata si fionda nel vano del plafond dove è riposta l'arma del delitto. La accarezza. Diventa sempre più oscura la presenza di quel punteruolo nel vano, vista la sua estraneità al funzionamento dell'ascensore. 
Il corridoio è fastidiosamente inondato dal sole dell'una, che si insinua violento dalla finestrella in fondo allo sguardo di Scomazzon. La domenica è avversaria dei vizi ma la luce è quasi più propizia delle tenebre a solleticare le tentazioni nella completezza della visione, bisognosa di ombre.
Anche il suo studio è abbagliato da una luminosità popolata di suoni inconsueti. Voci di megere addolcite in vocine di nonne. Il disagio accresciuto dal pianto di un bambino: vicinissimo.
Dall'altra parte del muro i fratelli Colorni sono in preda a un'eccitazione irrefrenabile. Scomazzon si mette in ascolto.
La paura è scacciata dalla ridda di supposizioni con cui ricostruiscono in sequenze ogni volta diverse il delitto. Il nome della Verdelli ricorre con accanimento esaltato. L'ostinazione nel trattenerli in infermeria dopo aver appurato il falso allarme del malore di Bianca, nonché la fretta nel lasciarli lì assicurandosi che non potessero sfuggire al controllo dell'infermiera costituiscono due indizi indiscutibili. O è coinvolta in qualche modo nell'assassinio o è vittima di un'instabilità psicologica ancora più preoccupante. A suffragare l'ipotesi di un comportamento in ogni caso equivoco gioca un peso rilevante il fatto che sia la gita al Planetario sia la proiezione del documentario sono state proposte da lei: entrambe le iniziative prese all'ultimo momento, quasi volutamente per coglierli alla sprovvista.
"Ma come fa a sapere?" riempiono i silenzi di riflessione con variazioni intorno a questa domanda.
Non appena la paura si insinua in uno di loro, l'altro lo sobilla a un diversivo. "Adesso chi chiamiamo?": tanto il numero del cellulare è criptato, non compare sul display di chi riceve. Bianca esegue, Alfredo si sbizzarrisce nell'ispirarla. A lei sta l'abilità nel camuffare il tono di voce. Non ha nemmeno bisogno di attutirla con un fazzoletto tanto è brava a contraffarla: sembra che la gonfi a suo piacimento.
Il fratello si occupa di alterare il sottofondo. Gira velocemente la manopola della radio alla ricerca di voci; scartabella tra videocassette e dvd, ne mette su una fino ad arrivare al punto della scena di una sparatoria di un film alzata a massimo volume; inserisce un cd di musica new age, una nenia di onde marine e ghirigori mugolosi.
Intanto Bianca diventa una addetta alle pulizie che dichiara alla redazione di un giornale di aver pulito personalmente le macchie di sangue lasciate dall'assassino nel corso della fuga. La volta successiva litiga con un poliziotto un po' sordo affermando di essere la Gina, una vecchietta che ha visto uscire in maniera sospetta dalla scuola una donna la cui descrizione fisica corrisponde a quella della Verdelli. Alfredo la blocca quando spacciandosi per la professoressa Goglio chiede alla moglie del preside di passarglielo urgentemente.
Dall'altra parte del muro Scomazzon è disorientato. La fantasia di quei due maledetti ragazzini gli sta scombussolando i ricordi. Alcuni particolari sbiaditi vengono rimessi in discussione. Delle certezze su cui non è più tornato tanto gli sembravano irrevocabili di colpo vacillano. Per esempio le macchie di sangue: poteva benissimo essere che sulla suola dei mocassini avesse attecchito un po' di sangue, magari pochissimo, che poi si è seccato e si è staccato senza che lui se ne sia reso conto. Ma se anche fosse? Adesso i mocassini sono sommersi dall'immondizia dei due cassonetti in cui sono stati eliminati spaiati dentro un sacchetto del supermercato. E così l'impermeabile bianco, il completo grigio, la camicia bianca col collo francese, la cravatta che aveva comprato in un negozio di via Montenapoleone il giorno prima della finale delle olimpiadi di matematica, la cintura di Valentino dimenticata dallo zio piastrellista di Loredana di cui si era appropriato, la canottiera e le mutande azzurro pallido, i calzini color cappuccino. Ogni oggetto debitamente separato dall'altro, richiuso in un sacchetto di plastica e gettato in un cassonetto diverso.
Nel pomeriggio si sbarazzerà anche della Mont Blanc che portava nel taschino della giacca e del portafogli in similpelle marroncino: i documenti, i soldi, gli scontrini e la tessera dell'autobus li ha già bruciati nel lavandino, quindi ha raccolto la cenere in una bustina di plastica e l'ha dispersa in un tombino.
Nessuna traccia di ciò che portava ieri deve essere alla portata della polizia. Per questo decide di liberarsi della sua amata borsa di cuoio. Prima la svuoterà di tutto il suo contenuto, compresi i compiti in classe della Quarta B e gli appunti su uno studio sui numeri primi nonché il canovaccio con le paperelle intriso di sangue nero: provvederà a suddividere il contenuto della borsa in tanti sacchetti di plastica, poi la taglierà in tanti pezzi di larghezza non superiore ai dieci centimetri. È ancora incerto se bruciarli o seguire il solito procedimento dei sacchetti. L'importante è far sparire qualsiasi oggetto collegato a sabato. Questo è fondamentale.
"Fondamentale" ripete tra sé senza smettere di riflettere, considerare, ponderare: anche i ricordi cambiano con i punti di vista. Chi può dire con sicurezza che un'idea, se accompagnata dalla giusta suggestione, non inquini l'immagine del passato e si insinui nel ricordo con convinzione doppia perché nella mente del testimone le cose "non potevano che andare così"? La logica nasce per dissipare l'ansia del caos: una verità tanto amata da Scomazzon.
Ansima, investito dal bisogno di sedersi e però frenato dalla paura di farlo: guai a fermarsi. Gli vengono in mente i rimproveri della madre ormai inferma, quando la andava a trovare all'ospizio un sabato sì uno no. La determinazione con cui rifiutava di sedersi accanto a lei come se fosse in grado di contagiarlo. La rabbia che si impossessava della sua voce, incapace di farle finire una frase. La sensazione di violenza che gli intorpidiva i muscoli. Il pensiero della violenza contro quella donna di cui detestava anche il modo con cui alla fine della visita gli allungava due biglietti da cinquantamila lire da spendere come voleva. Un pensiero impotente, minaccioso verso di lui, che in ogni atto subito vedeva la violenza come una possibilità irraggiungibile di soddisfazione. E la soddisfazione da cui è nata la vergogna davanti al cadavere striminzito della madre. La vergogna di non averle dimostrato con coraggio tutto il suo odio.
Avvinto dal terrore, Scomazzon sta piangendo.

  1. nedovannini on Mer, 04/30/2008 - 08:33

    Se non ho capito male il Direttore è in volo per Praga Magica. Lì c'è una guaritrice (tal Ludmilla Kakace) che potrebbe, se non sanare quell'uomo triste e avvizzito, almeno farlo un pochino ingrassare, e, come dire?, levigarne la superficie lievitandolo. La lievitazione del Direttore è un problema di fondo per la sopravvivenza di questo brutto sito. Questa cosiddetta “lievitazione impropria” (o ingrassamento indotto), per il noto Secondo Principio della Lievitazione Universale (vedi Roberto Amato, Le cucine celesti, Diabasis 2003), porterebbe il nostro inutile direttore in una specie di aura lunare (dato che la lievitazione diventa lentamente ma inesorabilmente levitazione), e lì, quell'uomo tondo e satellitare comincerebbe il suo perpetuo orbitare.
    Certo sarebbe bello avere un direttore perpetuo, e soprattutto perfettamente definito nella traiettoria. Dico nel caso ci pigliasse lo sghiribizzo di abbatterlo a fucilate.
    Sì perché il punto è proprio questo: non si tratta di sghiribizzo. Insomma... vorrei dire e non dire... Chiamerei volentieri in causa Sebastiano Mondadori che (se non sbaglio) è una specie di Vice (e comunque è molto vicino alle nostre istanze e alle nostre giustissime rivendicazioni).
    Si può esser chiari? Non lo so... Mi spiace parlare a nome di tutti senza nessuna riunione plenaria, senza nemmeno un po' di carboneria... È che giovedì sera, da Baralla, mentre il direttore era scappato in bagno a vomitare le seppie con la bietola mischiate a caso con uno sformato di peperoni e cavolo aleatico, io e Sebastiano ci siamo guardati e non ci siamo detti nulla. Ma, ne sono sicuro, le cameriere hanno capito...

    Nedo Vannini Psichiatra