La Sibilla lucchese

Ven, 11/21/2008 - 10:44

La Sibilla lucchese

Dei ritratti di Chiara Matraini  il più eloquente è il quadro che lei stessa commissionò ad Alessandro Ardenti per ornare l’altare ai piedi del quale si sarebbe fatta seppellire. Tutti e tre visibili: il quadro, custodito al museo Guinigi; l’altare in Santa Maria Bianca, diverso, dall’originale, ma nella stessa posizione e dedicato in seguito a Santa Filomena; il luogo della sepoltura, nel transetto destro della stessa chiesa. Qui, tre lapidi, sul muro a sud ne ricordano una la pia decisione, un’altra il significato allegorico del quadro e la terza, a livello del pavimento, l’estrema dimora. Il viso ovale, la bocca disegnata, il naso che accompagna la linea arcuata delle sopracciglia, l’ampia fronte che fin dall’attaccatura a punta dei capelli prepara un mento volitivo concorrono alla resa eroica del personaggio. La poetessa lucchese è dipinta in veste di Sibilla Cumana, circondata dai profeti, mentre sospende con la destra un libro socchiuso sulla testa di un imperatore o condottiero e con la sinistra indica in cielo la Madonna col bambino, circonfusa di gloria. Il progetto di salvezza, che si manifesta attraverso la pace in terra agli uomini di buona volontà, ha come anticipatrice e intermediaria la donna che sa e che vede attraverso la propria esperienza oracolare. Altre due incisioni che la ritraggono, a mezza età e nella vecchiaia, ne ribadiscono la forza di carattere, l’humanitas. Più altera forse e luminosa in quella di profilo del 1555, sul frontespizio delle "Rime et prose di Madonna Chiara Matraini Gentildonna lucchese"; più interiore e prossima al congedo nell’altra di tre quarti che accompagna l’edizione dei salmi penitenziali, ispirati a quelli di Davide. Qui, dove lo sguardo fissa senza sconti l’osservatore, l’espressione severa acquista autorevolezza e tratti quasi maschili.
Vedere Chiara Matraini (1515-1604) incrociarne il viso, ricordando che fu tra le prime donne ad essere ritratte solo in virtù del proprio ingegno, serve ad entrare nella lettura, densa di incroci e prospettive, del libro che Daniela Marcheschi  ha dedicato alla poetessa lucchese e alla letteratura delle donne nei nuovi fermenti religiosi del '500. Serve a mettersi in sintonia con una vita complessa, spesso amara, dove le prove personali si susseguono, intrecciandosi con la cultura eterodossa che caratterizza gli anni a cavallo tra la Riforma luterana e la Controriforma cattolica. Basti ricordare che esponenti della famiglia Matraini furono giustiziati e perseguitati per aver partecipato alla rivolta degli straccioni (1531) con cui si chiedeva l’ammissione alle cariche cittadine anche di chi non proveniva dal patriziato. E che qualche tempo dopo (1532) la congiura ordita dai fuoriusciti venne scoperta dal Consiglio degli Anziani proprio grazie alla delazione di un parente di Vincenzo Cantarini che Chiara Matraini aveva sposato all’età di sedici anni. L’episodio finirà per acuire i rapporti tra le due famiglie e tra la madre e il figlio che le negherà la restituzione della dote. Il marito era morto nel 1542 e nel 1554, muore violentemente Bartolomeo Graziani, sposato ad Elisabetta Sergiusti. Con lui la poetessa ebbe una relazione che fece molto scalpore, perché vissuta in una sorta di ménage a tre.
È su questo sfondo che spicca l’attività letteraria di Chiara Matraini, la cui educazione culturale resta imprecisabile anche se riconducibile ad un ambiente di ricchi artigiani, di uomini e donne di Chiesa. Un’attività contrassegnata da numerose pubblicazioni, da traduzioni di testi latini come l’"Oratione d’Isocrate a Demonico figliuolo d’Ipponico, circa a l’essortatione de’ costumi che si convengono a tutti i nobilissimi giovani", da una corrispondenza con scrittori e intellettuali contemporanei e soprattutto da quel profondo desiderio di unirsi ad un processo di rinnovamento spirituale che pur rimanendo in seno alla Chiesa calca il confine tra libertà di pensiero e posizioni ereticali.
La Sibilla lucchese fa parte di gruppo di donne letterate che, in quegli anni, si affacciano sulla scena letteraria italiana e di conseguenza mondiale. Fenomeno con molte spiegazione, tutte correlate tra loro. Tra queste, la tesi di una naturale superiorità, fisiologica e mentale, delle donne rispetto agli uomini. Superiorità che la tradizione delle antiche profetesse conferma e la visione riformata della fede sostiene, ma che l’incombenza dei lavori donneschi e la posizione tradizionale della Chiesa inibiva sul nascere. I fermenti che attraversano la fede, sintetizzabili in un recupero del cristianesimo originale, coinvolgono innanzitutto la percezione della propria identità e di questa rispetto alla storia. Così chiarisce Daniela Marcheschi verso la fine del III capitolo del suo libro: «Che la volontà o l’iniziativa culturale tesa a mettere in evidenza, e in numero così cospicuo, le donne e le loro opere letterarie sia dovuta ad una matrice ideologica ispirata a una religiosità rinnovata, lo lascia pensare anche la presenza, in alcuni Paesi europei dove la riforma si affermò, di una schiera crescente di erudite, insegnanti (in Germania), scrittici, artiste (in Olanda), insieme ad amministratrici (ad Amsterdam, ad esempio) - regine, è ovvio, a parte».
Questa finestra temporale si chiude con il Concilio di Trento (1565) e la restaurazione cattolica, coincidendo inoltre con la «morte di tutti quegli scrittori e intellettuali che, in vario modo, dell’editoria del tempo e di quel moto culturale erano stati i maggiori, attivi, protagonisti: Lando… Domenichi…Porcacchi… Varchi… Ruscelli… Dolce…».
Come sottolinea l’autrice all’inizio: «Chiara Matraini non è né donna di corte né cortigiana: presto vedova, è una borghese indipendente, libera in una libera città, e di questa singolarità appare sempre consapevole». Da un simile ritratto bisogna partire per intendere la vicenda umana e letteraria della poetessa il cui petrarchismo, secondo Daniela Marcheschi, deve essere letto tenendo ben presente le linee del pensiero riformato, interpretandone certi tòpoi alla luce degli scritti di Erasmo e non in funzione di una banale ripetizione di stilemi.

Nicola Dal Falco

("Chiara Matraini, poetessa lucchese e la letteratura delle donne nei nuovi fermenti religiosi del '500" di Daniela Marcheschi. Collana La città e la memoria - Maria Pacini Fazzi Editore. Lucca ottobre 2008, 162 pagine; 10 euro)

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Deh come il tempo se ne fugge e vola                                                                                                                    
e di noi sempre se ne porta il meglio,                                                                                                                                                                                         
dicemi spesso il mio fidato speglio,                                                                                                        
e com’ogni mortal cosa ne invola!
Né dal pigro mio sonno anco una sola                                                                                             
Volta, doppo molt’anni, i’ mi risveglio,                                                                                               
ben ch’io mi veggia il crin canuto e veglio                                                                                               
e fuggir la beltà che ne consola.
In questo parla con la mente e dice                                                                                                      
un pensier che il tema il cor mi punge:                                                                                               
Non tardar a trovar securo albergo;
ché chi col tempo i passi aggiunge,                                                                                                                       
qual pellegrino stanco et infelice                                                                                                            
a mezza notte il dì si trova a tergo.

Il sonetto è una variante di quello petrarchesco "Dicemi spesso il mio fidato speglio (specchio)". Le rime successive appartengono, invece, a un madrigale. Chiara Matraini, in una lettera, ricorda indirettamente il suo interesse per la musica, scrivendo di aver inviato un sonetto «fatto di capriccio, mentre suonavo il mio malcapitato liuto». Di lei si racconta che «suonava la spinetta e cantava d’ottimo gusto, di modo che la gioventù lucchese, allettata dalla sua grazia, andava a far conversazione a casa sua».

Venuto era ‘l mio sole al mio languire                                                                                                  
più che mai bello in sonno a consolarme,                                                                                                       
e vinto da pietà del mio martire,                                                                                                                   
me dicea con parole                                                                                                                                      
rare nel mondo o sole:                                                                                                                           
Perché si mesta tra sospiri e pianto,                                                                                                                   
tutta la verde etade,                                                                                                                        
senz’aver mai di voi stessa pietade,                                                                                                           
vi consumate tanto?                                                                                                                                 
Deh prendete di mia gioia conforto,                                                                                                  
ch’io son vivo e non morto:                                                                                                                
volgete il pianto in amoroso riso!                                                                                                                  
E appressandomi il viso,                                                                                                                            
mi diè fra due rubin due fresche rose                                                                                                                 
non mai nell’odorifero oriente                                                                                                                                                                                            
viste più belle, o in terren paradiso:                                                                                                                  
la cui si bella vista                                                                                                                                         
e ‘l disusato odore                                                                                                                                                                
tornar subito al core                                                                                                                                            
la smarrit’alma sconsolata e trista:                                                                                                                       
cose ch’appena in ciel veder si ponno                                                                                                         
Deh perché non fu eterno un sì bel sonno?