Doppio Movimento

Ven, 03/28/2008 - 09:32

Doppio Movimento




Doppio movimento: note per Jeanne Hersch*
di Roberta Guccinelli 
C'è un doppio movimento nel pensiero di Jeanne Hersch, un movimento implicito: la dura legge dell'esclusione, dello spazio che separa - due corpi non possono occupare contemporaneamente lo stesso luogo - e la nascita.
L'esclusione e la partecipazione.
Quasi il gesto di un artista. Il segreto di un pittore o di un quadro.
Perché lo spazio "interiorizzato" dell'opera d'arte, ciò che la isola e la fa essere, diventa un contenuto di memoria, l'eternità (o l'eterno presente della natura) che si ripete nel ciclo delle stagioni, nella goccia che cade e scava la roccia... Lo spettatore partecipa di quest'eternità e tuttavia la svolge nel tempo umano, quello che si articola in passato, presente e futuro. Così la misteriosa eternità della natura diventa storia. E l'opera d'arte una festa (o una "festa in lacrime") in cui ciascuno ha il proprio posto.
Il doppio movimento si ripete, variando, in tutta l'opera di Jeanne Hersch. Sia nei saggi filosofici, sia in quelli d'intonazione poetica. Finitudine, corporeità, mancanza, da un lato; apertura alla realtà, a un sentire non puramente sensoriale, dall'altro. L'uno è il presupposto dell'altro. È solo vedendo, sentendo, toccando, esercitando le funzioni per così dire (risvegliando i sensi), che approfondiamo gli strati della nostra vita emotiva e scopriamo, nella passività (attiva), la libertà (l'intenzionalità) del sentire.
Il senso del doppio movimento è quello dell'incarnazione.
Dio creò il mondo.
E fu la separazione.
Tutto ciò che è reale è separato e la separazione dà a ciascuna realtà contorno e forma, determinazione, senso e bellezza. 1
Jeanne Hersch racconta nel mito la "condizione umana", l'esistenza nel tempo, e indica nella percezione, nello sguardo e nell'ascolto di Eva che nasce al mondo, un atto di "fede" nei confronti dei fenomeni.
È una realtà d'esilio quella di Eva. Una terra inospitale, certo. Eppure non ha nulla di un paesaggio desertico. Si tratta di seguire i lineamenti di un volto, di una mela, di un gatto, per scorgere nella forma il cuore delle cose. Perché la bellezza, questa vita "orlata d'inesistenza"2, è il frutto dolce di Eva, e la nascita, la morte, questo mondo, il solo che possiamo abitare. Nel contorno il rilievo: come la montagna in un quadro, se l'occhio non arretra di fronte alla "ricchezza disperante e meravigliosa"3 di un pezzo di materia. Perché le cose hanno mille lati, si guardano dall'alto, dal basso, e non si finisce mai di guardare: "il corpo contemplato richiede un'ulteriore contemplazione, e poi un'altra ancora, continuamente, perché non ha né fine né fondo", come il petalo di un fiore.4
Quella di Jeanne Hersch dunque non è una semplice filosofia delle forme - dei limiti kantiani. Jeanne Hersch è poco kantiana nel suo gesto fondamentale, quello dell'incarnazione. Ho cercato di "mimare" questo gesto, di scoprire - come direbbe lei - cosa fa l'altra mano, mentre la prima disegna un paesaggio desertico, lo scolpisce di profilo.
Come se la severità kantiana fosse illuminata qua e là da una "veglia sognante", come se  talvolta si potesse vivere il presente dimenticando l'addio. E quel momento, ogni istante della nostra vita, fosse per sempre. Nel conflitto tra l'assoluto e la realtà Jeanne Hersch non sceglie: "L'essenziale" - scrive la protagonista di Temps Alternés - era già deciso dentro di me, sempre, ed esigeva obbedienza. Non ho scelto tra l'assoluto e la vita. Cosa conta di più? [...] Chi devo amare? Non lo so. Io ho amato".5 Il gesto dell'incarnazione infatti è un gesto d'amore nei confronti della realtà, della sua profondità. Se gli amici di Jeanne Hersch la chiamavano la "figlia del deserto", per me si trattava di vedere in che modo si manifestasse, in quel paesaggio così spoglio, l'esuberanza della realtà.
Se il "fare" va inteso nel senso di poiesis - dare forma, sottrarre all'indefinito e all'oscurità la materia, limitandola, ritagliandola quasi in un aspetto continuo dell'essere - la "forma del fare" evoca il contenuto, il nucleo di realtà d'ogni atto (agire, conoscere, creare, contemplare), il segno che a ogni passo si lascia nel mondo quando, rispetto ad esso, si prende posizione. Non una sorta di pragmatismo, ma un incontro con le cose, un'iscrizione tra i fenomeni che ogni volta permette di scoprire un pezzettino della vasta realtà di cui siamo parte e, insieme, un pezzettino di noi stessi.
Imbrattare una tela può essere un'attività valida per chi la imbratta, anche se il risultato estetico è privo di valore, purché l'occhio, la mano, la mente e l'anima si siano esercitati, purché ci sia stato un momento di coinvolgimento per la gioia, vigile e attenta, di scoprire l'inesauribile in un piccolo pezzo, un pezzo qualsiasi, del mondo concreto. Fare un'esposizione e aprirla a tutti, significa risvegliare il desiderio di guardare, di ammirare, di confrontare, di imbrattare. 6
 Fare è insieme fare qualcosa di noi. Anche un atto apparentemente passivo, come ascoltare la musica, è attivo, nella misura in cui invita a fare qualcosa di noi stessi, a cambiare la direzione dell'ascolto, dall'interno all'esterno, a risvegliarci talvolta dall'indifferenza. Così "Il contenuto del contenuto è la forma" - una delle tesi centrali di questa pensatrice - ha un senso "fenomenologico".   La materia, questa X sconosciuta, più misteriosa del noumeno kantiano, tra le mani di Jeanne Hersch parla, e parla con la sua voce, assume il volto della condizione umana. "Il contenuto del contenuto è la forma" vuol dire scoprire la profondità dell'"apparenza", scoprirla ogni volta che lo sguardo si posa su un "dettaglio". Seguendo le linee essenziali di un oggetto, senza imporsi ad esso, la forma valorizza il contenuto e lo porta in superficie, lo rende visibile. Fenomenologicamente: la forma esibisce le qualità del reale, il bello, il brutto, il meschino, il ridicolo ecc. -  cattura la luce, i colori, la densità della vita. Con le parole di Jeanne Hersch:
La Grecia è roccia e profili, è fatta per lo sguardo. Il blu duro del mare, compatto come un'enorme pietra preziosa, in cui stupisce vedere avanzare la prua tagliente delle navi. La "luce del giorno" rende manifesto l'assoluto, che esclude gli accomodamenti, le complicità smussate della durata, il camuffamento delle brume. Per questo tutto esiste, là, insieme, nello stesso istante. E si vede. La morte nel cuore della vita, lo scheletro nel corpo dell'atleta, la geometria nella bellezza, la tragedia ovunque. È cosa bella -  più che buona - vivere. L'astuto Ulisse lo sapeva bene.7
E mentre parla di separazione, Jeanne Hersch racconta la nascita: non solo quella di Eva, del tempo e della storia umana, ma anche quella dell'anima, della ragazzina di Temps Alternés; anche quella dell'opera d'arte, di un "quasi-sujet" - un analogo della persona. L'opera d'arte che, nascendo, mette al mondo un mondo; che restituisce, nei suoi tratti essenziali, il senso di una tempesta o di una tragedia. E ci stupisce, nel tempo, come all'inizio dei tempi. Estetica e ontologia dunque, perché il realismo di Jeanne Hersch si manifesta una volta in più nell'evidenza estetica; perché una scultura, un quadro, l'opera d'arte autentica "presenta agli occhi e alle orecchie di tutti la sua realtà materiale, il suo corpo. E ciò che ha in più rispetto al corpo non cancella mai il suo corpo [...] Il suo corpo non diventa mai un mezzo, o una realtà derivata. Ciò che ha in più rispetto al corpo rinvia costantemente al corpo stesso, a quella realtà materiale, a quel nuovo dato che l'uomo creò".8
L'artista e l'opera d'arte sono legati da un'azione, ma l'azione al tempo stesso è una "creazione". L'artista e l'opera d'arte sottolineano la relazione tra il "fare" e la "genesi", e mostrano che un'azione non ha necessariamente un carattere pragmatico e economico; che forse talvolta, nel tempo e nello spazio, è possibile un gesto gratuito: per amore dell'opera d'arte che deve essere realizzata, per amore della materia in cui quella nuova creatura deve incarnarsi. C'è un filo sottile che unisce la "gratuità" del fare (dell'artista) alla "gratitudine" (del pubblico). Penso alla responsabilità di quel gesto che strappa l'applauso, un gesto di spoliazione - una rinuncia degli affetti, degli interessi personali da parte dell'artista - un farsi carico delle storie che hanno popolato (che avrebbero potuto popolare) il mondo, di un colore, di una lotta, di un semplice dato che, trasfigurato, restituisce nello shock del nuovo, dell'inaudito, il senso di una comune appartenenza che suscita forse "gratitudine". L'arte è un vedere insieme e un vedere meglio il senso delle cose, e quindi anche l'insensatezza o il dolore... Non è una fuga. Non dice come dovremmo comportarci, e non dice nemmeno che il buono sarà felice e il cattivo dannato - non salva l'anima come una preghiera - non dice che è tutto uguale. Non permette di fare previsioni perché non offre certezze. Eppure scava nel "vero".
Un gesto "gratuito" quello dell'artista tessitore di Jeanne Hersch, un po' come quello di Eva, che coglie il frutto con una mano "cieca", quasi distratta. Ma gli occhi sono ben aperti, e guardano altrove, lontano da sé. Perché il suo movimento, la danza lenta della sua nascita, non è dettato da un "occhio economico", perché lei "non vive il presente come uno strumento del futuro"9 - secondo lo schema mezzi/fini. Lei vive completamente nell'attimo della separazione, nella nascita. In quel presente assoluto la realtà non è disponibile, a portata di mano, ma si vede e si ascolta da lontano, come il mare in una conchiglia che si porta all'orecchio. Così Eva ascolta se stessa, e tesse la sua storia e la nostra, prima di dire "io".
Che esperienze di questo tipo esistano, lo conferma la percezione musicale. Nella ricettività attiva (nell'ascolto attento della musica) scopriamo il senso di un esercizio etico. La musica non annulla le condizioni spazio-temporali, ma le trascende, permettendo di vivere "ora" quel momento d'eternità che le urgenze della vita non concedono. La musica estende i confini della percezione: sentiamo come non abbiamo mai sentito, in altri luoghi e in altri tempi; sentiamo che "qualcosa passa e non passa".10  La musica esprime senza parole ciò che spesso avvertiamo: la necessità che le cose siano andate in un modo e non in un altro. Ma in termini musicali, la necessità e la realtà di ogni nota, della piccola durata - un presente denso che si sfrangia nel passato e nel futuro - diventa la legge della libertà dell'opera musicale. L'ascolto musicale è modo di vivere la presenza dell'assenza: i suoni e i ritmi si susseguono, scompaiono, ma quelli precedenti qualificano i suoni che ascolto ora, dunque non scompaiono. Come non scompare ciò che è stato una volta, amori, lotte, segreti. La musica dice che "qualcosa permane nel divenire". Qualcosa sarà stato - uno strano futuro anteriore che sta per un impensabile presente eterno. Sarà stato: anche se nessuno ricorda.
È questa l'ontologia positiva di Jeanne Hersch: qualcosa c'è. Il mistero del passato (della creazione, del mito), ma anche la concretezza dello spazio calpestato e condiviso: della storia o di storie possibili, di tutto ciò che, nell'assenza, ci accompagna, come una frase musicale all'uscita da un concerto. Forse per questo un'autentica opera d'arte - anche quando mostra gli abissi del cuore, quando rivela il lato grottesco, tragico della nostra esistenza, anche quando ci umilia - strappa un applauso, un consentire che, in fondo, è un sentimento di gratitudine.
Celebriamo le feste. Festeggiamo chi ci ama, le stagioni, le lune. Ciascuno ritroverà la certezza che quaggiù c'è posto per lui. Forse è questo l'essenziale: che la festa crei un ordine solenne in cui ciascuno è confermato nel proprio ruolo, nel proprio posto rispetto al tutto. È questo, credo, ciò che più manca agli uomini del nostro tempo: la certezza di avere il proprio posto nella festa esuberante e tragica del mondo e della storia.11 
   
 
 
* Per un approfondimento di questi temi cfr. R. Guccinelli, LA FORMA DEL FARE. ESTETICA E ONTOLOGIA IN JEANNE HERSCH, Bruno Mondadori, Milano, 2007.
1 J. Hersch, Dall'esilio all'addio (1984), in Id., La nascita di Eva. Saggi e racconti, tr. it. di F. Leoni, Interlinea, Novara, 200, p. 2000, p. 59.
2 Id. Dall'esilio all'addio, cit., p. 59.
3 Id., Perché scrive? (1958), in Id., La nascita di Eva..., cit., p. 57.
4 Ivi, p. 89).
5 J. Hersch, Primo amore (Temps Alternés) 1942, tr. it. di R. Guccinelli, Baldini Castoldi Dalai, Milano, 2005, p. 41.
6 Id., Idéologies et réalité, Essai d'orientation politique, Librairie Plon, Paris, 1956, p. 18.
7 Id., Alla vigilia del mio primo viaggio in Grecia (1984), ivi, pp. 44-45.
8 Id., Essere e forma, (1946), tr. it. di R. Guccinelli e S. Tarantino, Bruno Mondadori, Milano, 2006, p. 28.
9 Id., Primo amore (Temps Alternés), cit., p. 12.
10 J. Hersch, Temps et Musique, cit., p. 59 (si segnala che la traduzione italiana di Temps et Musique comparirà prossimamente presso Baldini Castoldi Dalai, a cura di R. Guccinelli).
11 Id., Festa (1973), in Id., La nascita di Eva..., cit., pp. 53-54.