Pignagnoli storicizzato

Sab, 11/10/2007 - 09:54

Pignagnoli storicizzato

 

Questa è l'antologia di Gino Ruozzi che include alcuni scritti di Learco Pignagnoli. Gino Ruozzi insegna letteratura italiana all'università di Bologna ed è particolarmente attento alle forme brevi di scrittura. Questo volume va a completare una sorta di trilogia "ruozziana": Epigrammi italiani (Einaudi, 2001), Scrittori italiani di aforismi (Meridiani Mondadori, 1994-96) e, appunto, Favole, apologhi e bestiari (BUR, 2007), il cui eloquente sottotitolo è "Bestie, cose, persone. Moralità poetiche e narrative nella letteratura italiana". Ruozzi, infatti, traccia un percorso antologico trasversale tra prosa e poesia, giacché il genere, la forma, la silouette letteraria da lui inseguita è fatta di testi disparati, diversissimi tra loro, ma con una caratteristica comune, che - assieme alla brevità e concisione - è quella di voler insegnare qualcosa o perlomeno di avere i modi dell'insegnamento. Infatti, con il mutare dei valori di riferimento, varia anche la portata dell'ammaestramento e varia il suo obiettivo che, specie nel novecento, diventa ondivago, oscillante, finanche corrosivo e anti-dogmatico. Del resto, moralista non è  solo chi presume di avere nozione certa del bene e del male, ma anche chi si pone di fronte al problema di distinguerli, senza magari riuscire a farlo. Sarà una morale del dubbio, del punto di domanda, ma sempre morale è.  Come quella di Pignagnoli, in fondo. Scrive Ruozzi: "E' indubbio che nel Novecento la tradizionale natura pedagogica delle favole si misura con l'accresciuta incertezza morale e lo stato di crisi che caratterizza il secolo. Perciò l'insegnamento delle favole è sovente un controinsegnamento, una messa in guardia contro le ovvietà e i luoghi comuni, scaturito più dall'esperienza personale che da un condiviso pensiero sociale. Gli apologhi denunciano moralismi beceri e bigotti ma nello stesso tempo, proprio per la loro innata natura formativa, continuano a porsi come veicoli di moralità. Essi sono il frutto di autori indignati e 'malpensanti'..." (pp.389-90). Nell'antologia prendono posto nomi illustri del novecento italiano, da Pascoli a Tozzi, da Gadda a Calvino,  a Malerba, a Rodari, preceduti da molti classici dei secoli addietro: Dante , Petrarca, Giordano Bruno, Leon Battista Alberti, Leonardo da Vinci. Non ci pare un azzardo dire che ci sia una sorta di filiazione da Leonardo a Pignagnoli, passando per Gadda (che di Leonardo fu commentatore: Primo libro delle Favole, 1952). Le micro-favole di Leonardo sono una rassegna di stoltezze punite, tragiche se prese singolarmente, ma con effetti (ci pare) involontariamente comici se considerate nel loro insieme, nel loro accumulo di sciagure: "Il ragno, volendo pigliare la mosca con le sue false rete, fu sopra quelle dal calabrone crudelmente morto"; "Volendo l'aquila schernire il gufo, rimase coll'alie impaniate, e fu dall'omo presa e morta"; "Il noce mostrando sopra una strada ai viandanti la ricchezza de' sua frutti, ogni omo lo lapidava"; "Il fico stando sanza frutti nessuno lo riguardava; volendo, col fare essi frutti, essere laldato da li omini, fu da quelli piegato e rotto"; "Il ragno credendo trovar requie nella buca della chiave, trova la morte"...e via di questo passo. Un simile tono lapidario, ma con un esplicito humor (a volte nero), la troviamo in Gadda, scrittore ridondante ma qui incredibilmente parco: "Il dinosauro, fuggito dal Museo, incontrò la lucertola che ancora non vi abitava. Disse: "Oggi a me, domani a te"; "La scimmia, trovato un elmo da pompiere, se lo mise in testa. Ma rimase al buio". Gadda scivola insensibilemente verso l'assurdo e il nonsense: "Gli stoici erano impassibili al dolore e aborrivano il vizio. Qualcuno era un po' grasso"; "Un vecchio pappagallo, sentendo sé prossimo alla fine, volle registrate sul disco le frasi che tuttodì andava ripetendo ai passanti. Nacquero così le opere complete del pappagallo" (cosa che sembra preannunciare le altrettanto improbabili Opere complete di Pignagnoli: era Gadda un profeta?); "Giuseppe Verdi compose una Messa da Requiem che in Paradiso, appena la udirono, gli pareva d'essere tutti in palco. Alla Scala". Ecco, qui dove l'incongruenza è massima, ci pare di sfiorare davvero Pignagnoli: "Conoscevo uno che sbagliava sempre le parole. Una volta voleva dire polipo, ha detto flauto"; "Per tutta la vita Tonino era stato a chiedersi come aveva fatto a essere l'ottavo di sette figli"; ma c'è anche in Pignagnoli un sottofondo di amara saggezza che ci riporta, con tutte le trasformazioni del caso, ai sentenziosi detti leonardeschi: "Tranne me e te, tutto il mondo è pieno di gente strana. E poi anche te sei un po' strano"; "Le donne s'innamoravano sempre di quello seduto vicino a lui". Pignagnoli a parte, l'antologia di Ruozzi, ci pare utile soprattutto perché tenta di costituire un canone della brevità, in una cultura - la nostra - in cui la brevità non gode di grande fortuna. Il racconto (e ancor di più il racconto breve) resta un genere da rivista letteraria (la cui circolazione è notoriamente limitata), è difficile che approdi alla raccolta in volume quando l'autore non sia già conosciuto per altre vie. Il libro di racconti, in Italia, è costretto ad un'esistenza zoppicante, non si vende, non ha mercato, gli si preferisce incondizionatamente il romanzo, o qualcosa a cui può essere incollata l'etichetta di romanzo, più o meno arbitrariamente. Non così nel mercato anglosassone (credo), dove le short stories hanno i loro autori riconosciuti, il loro pubblico e il loro mercato. La responsabilità è solo del poco coraggio degli editori? Non credo. Il lettore italiano, mediamente, preferisce il romanzo per una sorta di bisogno di rassicurazione, vuole una storia in cui potersi infilare e da cui lasciarsi trasportare dalla prima all'ultima pagina di un libro, come una barca si affida alla corrente. Un libro di racconti, o peggio, di racconti brevi, aforismi, epigrammi è destabilizzante, chiede di rimettersi in gioco dopo poche pagine o poche righe, di ricominciare da capo, letteralmente. Anche il più giocoso libro di favole o il più leggiadro libro di poesie è destabilizzante formalmente, direi quasi per statuto. Figurarsi quando anche i contenuti sono inquietanti e bizzarri come quelli di gran parte della narrativa breve del novecento...Sarà perché molti leggono nell'intimità delle coperte prima di dormire, quando tutto intorno è buio e ci si sta per affidare all'incoscienza del sonno, ma sembra che dai libri si cerchi ancora soprattutto un conforto, una coccola, una moina. Non c'è verso, siamo inguaribimente mammoni.

Alessandro Trasciatti