Daniele Benati: Grigiopoli

Dom, 05/25/2008 - 17:39

Daniele Benati: Grigiopoli

 

 

 

Dicono te Boiardi non ti preoccupare, vedrai che ti troverai bene, mentre che io invece mi preoccupo. Non mi chiamo neanche così. Fino adesso ho fatto finta di niente perché c'eravamo in così tanti che era difficile capirci qualcosa. Ma questa è una magagna che prima o poi salta fuori, ve lo dice un asino. Anche se come nome non mi dispiacerebbe, Boiardi. Ci ha un suo che d'alto rango. Solo che non è il mio e questo un po' di pensiero lo mette.
Detto fra noi, c'è un po' di casino qua. Che può essere anche solo nella mia testa ma comunque c'è. E poi lo vedo. Siamo tutti sotto una tettoia. Fuori piove. Vengon giù delle gocce che sembran delle castagne. Cioè parlo di qualche anno fa quando eravamo sotto una tettoia e fuori pioveva. Tutti assembrati sotto una tettoia. Una di quelle tettoie lunghe e larghe che c'erano una volta nei mulini per non bagnare i sacchi quando li caricavano sul camion. Si sentivan delle raffiche contro le lastre di lamiera che era come se grandinasse. Ma non era mica grandine, era pioggia. E noi lì a guardarci intorno pigiati l'un contro l'altro, che clima è? diceva qualcuno. E un altro: Piove. Eh lo vedo che piove, ma vengon giù di quelle castagne.
Insomma si discorreva così quando a un tratto è arrivato un nano dalla strada che ha cominciato a far degli urli, a urlare. Non si capiva cosa diceva, ma sembrava che desse degli ordini secchi, dall'arroganza che imprimeva nella voce. Io subito non l'avevo neanche visto perché ci avevo la visuale coperta dalle teste degli altri, ma poi era corsa la voce che si trattava di un nano. Chi è che fa di questi urli? aveva chiesto qualcuno. E quelli più vicini alla strada avevano fatto sapere che si trattava di un nano. Così tutti si erano alzati sulla punta dei piedi per vederlo, ma essendosi alzati tutti nello stesso momento nessuno l'ha visto. Il nano però ci aveva una cattiveria nella voce che si faceva sentire a non so quanti chilometri di distanza, anche se nessuno capiva quello che diceva. Nel mentre qualcuno continuava a chiedere: Ma chi è che fa di questi urli. e un altro a rispondere: E' un nano. Un nano? Poi alzava la testa per vedere, ma contemporaneamente l'alzavano anche gli altri e non si vedeva più niente. Tra parentesi, notavo che ci avevo una tuta blu indosso e una pancia che mi trasbordava dalla cintola. Ma questo non vuol dire. Dopo un po' qualcuno ha detto che il nano urlava perché voleva venire anche lui sotto la tettoia. Chi l'ha detto? ha chiesto un altro. L'ho sentito dire da quello là. E un altro: Vengon giù di quelle castagne.
Discorsi di questo genere. Finché poi è stato chiaro che il nano non urlava per venire al coperto, ma per farci tornare al lavoro. E questo qualche anno fa, quando io ero stato l'ultimo ad andarmene perché non avevo capito niente di quello che succedeva e mi ero lasciato urtare da quello che mi stavano dietro e che nella fretta di seguire il gregge o per la paura di perdere qualcosa che credevano toccasse anche a loro mi erano passati davanti sgomitando con ansia. Forse era una prova come quelle che si fanno di allarme antincendio. O come succedeva da militare che bisognava evacuare le camerate con la maschera antigas e tutto il resto dell'equipaggiamento nello zainetto tattico.
Come ho detto, c'è un po' di casino qua. Ed è un problema anche solo districarsi nelle cose più semplici. O avere una precisa nozione del cosa del quando del chi del perché e del come. Come anche il fatto del lavoro. Era una voce circolata sotto la tettoia, ma è mica detto che avesse un senso. Era una semplice chiacchiera che poi si è trasformata in un dato di fatto accettato da tutti. E così mi ero messo in cammino anch'io, quel giorno. Ero stato sulle mie per cercare di capire l'andazzo ma poi avevo accettato di fare quello che avevo visto fare dagli altri, cioè riprendere il lavoro dopo una pausa che evidentemente avevamo passato sotto la tettoia. Non c'entrerà ma avrà pure un senso il fatto che indossavo una tuta. Solo che dove c'è del casino è difficile aver le idee chiare. Scindere le cose, suddividerle, vedere quelle che vanno in ordine da sé e costringere il resto a trovare una sua collocazione. Anche perché, detto inter nobis, non avevo la più pallida idea di qual era il mio lavoro, nonostante la tuta che indossavo e che adesso mi pesava più d'un macigno. Una cosa detta tanto per dire, adesso mi creava uno sconquasso mentale che ci vedevo poco chiaro in tutto.
Comunque ho ripreso il cammino e sono salito sul primo filobus che passava, da qualche parte arriverò, pensavo. L'avevo già fatto altre volte di salire a casaccio su un mezzo pubblico quando mi trovavo in una città straniera. Ma molti anni prima. Quando volevo dare una veloce occhiata ai quartieri periferici o ai lunghi viali del centro. E lì mi trovavo di nuovo in una città straniera, o comunque una città che non era la mia. O una città che poteva essere la mia ma nel frattempo era cambiata così tanto da risultare irriconoscibile. Proprio nella mia città, gli ultimi tempi - e questo è l'ultimo ricordo che ho - ero partito una sera per andare a trovare un amico facendo la solita strada e mettete che dovevo andare a Milano, mi sono ritrovato a Torino. Una roba del genere. Le distanze nel mio tragitto erano più corte, ovviamente, ma forse è stato proprio lì che è cominciato il casino. E a un certo punto ho perfino avuto paura.
Cosa dir di più. Sul filobus abbassavo di tanto in tanto la testa per vedere se riconoscevo qualche edificio ma l'unica cosa riconoscibile era il sole riapparso là in fondo che faceva una luce fenomenale sotto la coltre delle nuvole. Non doveva però emanare un gran caldo perché i passeggeri indossavano i cappotti e i giacconi e i giubbotti tipici dell'abbigliamento invernale, e così pure la gente che vedevo per strada. Il Natale doveva essere già passato perché non si vedevano luminarie e nemmeno alberi con le palle accese. Poteva essere la fine di gennaio o i primi di marzo. Cioè di febbraio. Il sole calava in fretta. Ho sentito una signora che diceva che durante la notte sarebbe nevicato. Proprio un clima fatto a modo suo, ma intanto voleva dire non mi trovavo in una città straniera. Potevi capirlo anche dalle insegne dei negozi. Ma rimane il fatto che il cervello impiega un po' di tempo per riprendere a lavorare come suo solito dove c'è del casino, e quando ho fato quello che nelle mie condizioni chiamerei un volo pindarico, di controllare appunto le insegne dei negozi, mi sono accorto che erano tutte scritte in lingue diverse che in parte riconoscevo ma in gran parte no.
Non importa. Sono stato io che ho parlato di una tettoia? Tagliamo corto con questo tragitto in filobus e veniamo al nocciolo della questione. A un certo punto le rotaie hanno svoltato a destra e abbiamo costeggiato un gran fiume che tagliava in due la città. La parte di là s'inerpicava su per un'altura dietro la quale era scomparso il sole. Si stava facendo buio rapidamente e ho deciso di scendere anche perché il filobus era arrivato al suo capolinea. Poteva essere un venerdì sera. La gente che incrociavo per strada mi sembrava animata da una gran fretta di andare a far baldoria. I negozi però non chiudevano. Ho girato per non so quanto tempo riparandomi dal freddo in un centro commerciale e mi accorgo solo adesso che non mi sono ancora descritto fisicamente. Io sono un brutto uomo di cinquant'anni con la pancia e il doppio mento. Come capelli stiamo andando verso la calvizie e non c'è più molto da sperare. Quello che poteva succedere con le donne è già successo. Lo deducevo anch'io guardandomi allo specchio di un grande magazzino nel quale ero entrato non so per far cosa, forse per rendermi conto di che cera avevo. Parlo di qualche anno fa, quando un giorno mi ero ritrovato sotto una tettoia ed era arrivato un nano a farci sfollare tutti. Ma quel centro commerciale non era il posto adatto a me, troppo casino, e ben presto me ne sono uscito, prendendo una traversa che aveva tutti i marciapiedi sconnessi che andavano su e giù come quelli di un cimitero. Anche gli edifici erano tutti scrostati e dove non lo erano, lo smog aveva annerito l'intonaco. Contro alcuni di questi edifici sembrava che ci avessero sparato dei colpi di mitraglia e gran parte dei balconi avevano l'aria di essere pericolanti. L'illuminazione era scarsa e proveniva da lampade che parevano sospese in mezzo alla via perché i fili a cui erano attaccate non si potevano vedere contro il buio del cielo e alcune di queste lampade erano bruciate. I casi erano due: o che avevo fatto molta strada senza accorgermene, procedendo a passo spedito come quando si è soprappensiero, o che la città cambiava volto in maniera repentina, perché rispetto allo sfavillio di luci e di ricchezza intravisto poco prima, qui si aveva la sensazione di entrare in un quartiere di morti, oppure in una zona lasciata andare al suo destino di abbandono perché una qualche superstizione aveva indotto i ricconi a non investirci.
A me ciò non dispiaceva. Sentivo che era giù di lì che dovevo andare, come avevo fatto altre volte in passato quando m'impuntavo su una di quelle cose che si chiamano convinzioni. Volte in cui mi era sembrato di dover seguire una certa direzione solo perché mi ero intestardito di volerla seguire e la testardaggine non è altro che il prodotto dell'orgoglio il quale a sua volte è il principale artefice di tutti gli errori che si possono commettere. Strano che fossi proprio io a pensar di queste cose. Forse perché fuori nevica e Gabor mi ha detto di scrivere sul diario di bordo, come lo chiama lui, dato che lui non riesce a scriverci, parole sue, un cacchio di niente. Ossia, non ci riusciva anni fa, quando l'ho conosciuto quella sera. Adesso non lo so, dato che non l'ho più visto. Comunque andare e sempre andare. E' il mio motto. Parlo di quella sera di febbraio. Il freddo era pungente e prometteva neve. A un certo punto sono passato davanti a un Wine Bar che si chiamava Hegel e poi più niente per un bel po'. Un negozio di stoffe. Uno di dischi. Chiusi tutt'e due. Un ristorante sotterraneo a cui si accedeva per una scaletta che io avrei avuto il bel daffare con la mia pancia. E poi finalmente arriviamo al punto che volevo raccontare.
La via, come ho detto, era scarsamente illuminata e solo da qualche parte compariva una fioca lucina che arrivava sì e no a lambire i vetri delle finestre, mentre per il resto sembrava tutto disabitato. Le due file di edifici che avevo ai lati incombevano sulla strada con le loro masse scure e solo a tratti erano interrotte da enormi spazi vuoti ricavati dalla demolizione di altri edifici che proprio lì avevano conosciuto tempi migliori con le loro imponenti facciate.
E al quarto o quinto di questi parcheggi che vedevo mi sono fermato perché ho sentito la voce di un uomo che mi chiamava. Cioè non chiamava me, ma un nome che per qualche motivo ho pensato che poteva essere il mio. Mettetevi nei miei panni. Uno girovaga come avevo fatto io e poi a un tratto sente chiamare un nome nel vuoto del silenzio, anche solo per orgoglio, l'orgoglio di esserci, uno è tentato di pensare di essere lui. E così ho fatto. Ho avuto la piccola tentazione di poter essere io quello che veniva chiamato. Nient'altro. Una piccola e minuscolissima tentazione. Così ho detto: Parli con me? E la voce: Con te, sì, vedi qualcun altro? C'è qualcun altro che sta passando o ci sei solo tu? Ci sono solo io, ho detto. E allora parlo con te. Intanto mi ero fermato all'ingresso del parcheggio dove sulla destra c'era una piccola roulotte ovale, senza ruote e color cacca, che doveva essere la guardiola del custode. Attraverso il vetro posteriore non vedevo nessuna sagoma e ancora non avevo capito da che punto proveniva la voce che tuttavia continuava a farsi sentire: E' tutto il pomeriggio che ti aspetto, diceva. Farkas è uno che va in bestia quando si sgarra e ancor di più ci va se viene a sapere che un suo dipendente ha cominciato a marcar male fin dal primo giorno. Toccava a te sostituire Schiop, non te lo ricordi? Certo che me lo ricordo, ho detto, anche se non sapevo di cosa stavamo parlando. Stavo guardando in quel momento le macchine parcheggiate, che erano quattro, e alzando la testa al cielo avevo appurato che effettivamente stava cominciando a nevicare come predetto dalla signora sul filobus. Quel nanetto di Farkas ha chiesto di te e io non sapevo cosa dirgli. Mi hai coperto? ho chiesto io. Certo che l'ho fatto, ma quel nanerottolo lì è mica facile da convincere. Intuivo che Farkas era il padrone del parcheggio e che non eravamo in ottimi rapporti. Senti un po', gli ho detto, ci ho messo del tempo a arrivare, ma poi ti restituisco il favore. Altroché se lo farai.
E qui la voce s'è materializzata in un uomo davanti a me che potevo essere io come aspetto fisico anche se a un esame più ravvicinato sarebbero emerse mille differenze. Tipo piuttosto malandato che mi somigliava nei tratti fisici della decadenza. Comunque vieni qua, mi fa, e ho capito che intendeva lasciarmi le consegne. Il tipo della Volkswagen ha pagato per un mese e può andare e venire a suo piacimento. Quello della Copeika è arrivato poche ore fa con una gran ragazza che a quest'ora, se non è stato attento, gli hanno già fregato. Quello della Volvo, stai sul chi vive perché è un calvinista e può fare brutti scherzi. La Zaporozhets è di Farkas e l'adopera solo quando ha paura che qualcuno gli spari addosso. Per il resto - e diceva questo accompagnandomi dentro la roulotte - la palinka è al suo posto, anzi stasera abbiamo ricevuto il regalo dal negozio e il cassetto è pieno di bottiglie. Non farle fuori tutte, mi raccomando.
Come ho detto, c'è un po' di casino qua. Io non capisco niente ma faccio finta di stare al gioco e annuisco a ogni sua parola mentre nel profondo del cuore comincio a provare il cosiddetto magone. Oppure chiamatelo nostalgia. La sensazione che ti prende quando sei strappato da un posto che ti era famigliare per finire in un altro dove tutto quello che puoi fare è adattarti, ma in cui mancano i legami dell'affetto. Dove bisogna ricominciare daccapo in mezzo agli altri che sono già ferrati nella loro conoscenza del mondo e ti fanno pesare questo loro surplus di esperienza perché ci godono a sentirsi invidiati. Tuttavia una forza a me sconosciuta era pronta ad agire per reazione. E dove cazzo mi metto, gli ho detto, qua? indicando la branda dentro la roulotte. Non era la domanda di uno che trovasse da ridire sul posto che gli era stato assegnato ma nemmeno quella di uno che avrebbe accettato qualunque imposizione. Per il tono, e per l'uso della parolaccia, avevo inteso imprimere alle mie parole un significato che fosse come una via di mezzo. Cioè che io ero uno che non aveva mai voluto comandare ma neanche farsi mettere i piedi sopra la testa. Lui, che poi avrebbe detto di chiamarsi Gabor, ha inteso perfettamente la sfumatura di significato. E dove ti vuoi mettere? ha detto. Comunque, lì c'è il fucile, lì il frigo... le sigarette, te le sei portate? In frigo c'è del prosciutto cotto, delle fette di tacchino, del formaggio a fette, delle uova. Lì c'è il forno a microonde dove ti puoi scaldare tutto quello che vuoi, e questo è il telefonino. In caso qualcuno venga a rubare una macchina, tu pigia lo zero. O, se vuoi, imbraccia il fucile e vai fuori. Ma ricordati che è scarico. Il fucile è un deterrente. Non fare come Schiop che s'è beccato una pallottola in fronte. E sai perché se l'è beccata? Perché era orgoglioso. Fa fare di questi sbagli l'orgoglio. E non ne vale la pena, se pensi a tutti i soldi che s'intasca quel nanerottolo del nostro padrone.
Non ne intasca molti, se le cose vanno come stasera, gli ho detto, alludendo alle sole quattro macchine presenti nel parcheggio. Al ché lui scoppia in una gran risata di sprezzo nei miei confronti che la dice lunga sulla sua conoscenza delle potenzialità del nostro padrone. Cioè questo anni fa, quando lui era scoppiato in una gran risata prima di dirmi: Va bene, avrai tempo per farti le ossa. Comunque adesso vado a farmi un bel sonno. Un'ultima cosa, ha detto rientrando nella roulotte. Lo vedi quel cassetto? Lo vedo. Lui l'ha tirato e ne ha estratto un quaderno. Questo è il nostro diario di bordo. Quando stiamo qui, nella noia più totale, siamo richiesti di metter giù qualche nota. Qualunque cosa che ti passa per la mente. Farkas ci tiene ed è la prima cosa che viene a controllare quando fa la sua ispezione giornaliera. Prima ancora dei soldi è questo che vuole vedere. E fino adesso nessuno è mai riuscito a scriverci niente, tranne qualche scarabocchio che poi è stato coperto da un frego. Fammi il piacere, visto che sei nuovo di qui e hai ancora la mente fresca. Scrivici qualcosa tu perché io non riesco a farmi venire in mente un cacchio di niente. E poi, come per consolarmi: Vedrai che ti troverai bene qui, Boiardi. Non sai la fila di gente che avrebbe fatto carte false pur di avere un posto del genere. E poi se n'è andato tirandosi una bicicletta sotto le gambe. E mentre che andava lo sentivo cacciare una risata di commento a quanto aveva detto, aggiungendo subito dopo queste parole: E se qualcuno ti chiede chi è stato, digli che è stato Gabor.
Chi è stato a far cosa? ho cercato di chiedergli. Ma ormai si era già dileguato. In effetti non aveva tutti i torti ad andarsene con aria vittoriosa, anche se il nome con cui mi aveva chiamato non era io il mio. Forse aveva passato l'intera giornata o non so quanti anni ad aspettare un altro che non ero io. E adesso che il primo fesso s'era fatto abbindolare aveva fatto fagotto per trasferirsi da un'altra parte.
Quanto a me, non mi sembrava male come sistemazione. C'era anche il termo elettrico e la televisione. C'era la radio e un mazzo di carte per i solitari. Le carte erano diverse da quelle che conoscevo, ma avrei presto finito per assegnare loro un valore che mi permetteva di fare qualche gioco purché la memoria mi sorreggesse. Avevo un fucile più dieci o dodici bottiglie di grappa alle prugne. Pane e prosciutto cotto. Formaggio e qualche cetriolo. Nel freezer ho scoperto anche due bottiglie di vodka che Gabor si era dimenticato di citare nel suo inventario. Potevo accendere la televisione oppure la radio. Mi sembrava un sogno, oppure di essere finito in paradiso. Non so cosa avesse da fare quel ghigno ironico, perché se aveva preso me come bersaglio bisognava dire che aveva sbagliato mira perché io, in quell'insediamento, avevo come la sensazione di trovarmici a mio agio. C'era anche un libro di cui Gabor non mi aveva parlato. Un vocabolario di una lingua sconosciuta. Non l'avrei mai letto, perché nessuno legge un vocabolario, ma il fatto che ci fosse mi piaceva e mi sono ripromesso che di tanto in tanto ci avrei dato un'occhiata.
Insomma così. Forse facevo male ad essere contento della sistemazione che avevo trovato - per mia natura ero sempre stato uno che vola basso e dove c'è di che essere contenti avevo sempre visto il conto che poi bisogna pagare - ma era anche ora di brindare a una nuova vita e se pure era passata solo una mezza giornata dal momento in cui mi ero trovato sotto quella tettoia, adesso mi pareva che fossero trascorsi anni interi. La neve intanto continuava a cadere fitta e provate a immaginare il mio stupore il mattino dopo, quando ho visto che non era una neve bianca ma grigia. Non grigia perché sporca, ma proprio così di natura, come potevo ben vedere ancora adesso che stava cadendo. Tutto il piazzale del parcheggio e i tetti degli edifici erano coperti da un grande manto di neve grigia che faceva tutt'uno col grigiore degli edifici coperti di smog. La povera Copeika era rimasta sommersa e anche la Zaporozhets che sapevo di proprietà del nostro capo. Inoltre c'era il cosiddetto diario di bordo in cui avrei potuto scrivere e ho voluto cominciare proprio da lì. Ma subito non mi veniva niente e neanche nei giorni successivi. E neanche nei mesi o negli anni dopo. E' stato solo quando mi sono accorto che nessuno sarebbe venuto a darmi il cambio che mi è finalmente venuta una buona idea. E così ho cominciato a scrivere: Dicono te Boiardi non ti preoccupare, vedrai che ti troverai bene. E poi, dopo averci pensato per non so quanto tempo ancora, ho aggiunto: Mentre che io invece mi preoccupo. Non mi chiamo neanche così. 

(Tratto da: Daniele Benati, Un altro che non ero io, Aliberti 2007; il racconto è stato pubblicato anche su L'accalappiacani, n.1, DeriveApprodi, 2008)