Angelica D'Agliano: L'orso

Mer, 06/17/2009 - 15:27

Angelica D'Agliano: L'orso

 

“Ecco bambini, guardate là. Il circo!” Era uno spiazzo immenso a dir poco. La terra battuta, chiara, sembrava quasi che finisse in polvere sotto al soffio del vento estivo. I tendoni stavano in mezzo all'acciottolato, ai calcinacci e alla sabbia, nell'odore dei piscialletto e del traffico della circonvallazione che passava lì davanti, dove c'erano anche il Palazzetto dello sport e gli uffici dell'Associazione Commercianti. Erano proprio come si vede nei disegni. Le cime appuntite, con le bandierine al vento, e le incredibili strisce bianche e rosse, interrotte da un cartello tutto incrostato di lampadine spente che diceva che il CIRCO MERANO, alla fine, era arrivato anche a Lucca. Tutto intorno, macchine. La gente correva tra le file di automobili parcheggiate, cercando un buco il più vicino possibile all'entrata del tendone. Ogni tanto si sentiva un clacson, e poi delle parolacce urlate dai finestrini. All'entrata dello spiazzo, lontano dai tendoni, c'era un chiosco di frittelle, e lì vicino ridevano a bocca piena dei ragazzi appollaiati sui motorini coi cartocci in mano e le dita unte. Cesira era emozionata, perché i tendoni le facevano venire in mente la Piazza Rossa di Mosca (è una questione di occhio, diceva. È proprio la stessa fantasia). I suoi bambini invece piangevano. Si erano sciroppati almeno un chilometro e mezzo di marcia per evitare le code , e avevano male ai piedi. Giulia aveva smesso di camminare all'altezza del frittellaio, e ora sbraitava per una stecca di zucchero filato. Giacomo si era piantato davanti al serraglio dei cammelli e era deciso a dar loro da mangiare. Alla fine Cesira andò dal ciambellaro e comprò due cartocci: uno per Giulia e uno per i cammelli. Ma Giulia si mise a piangere ancora più forte, perché lei in realtà voleva lo zucchero filato. I cammelli, che forse erano dromedari, annusarono la carta e uno sputò addosso a Giacomo. Allora Giulia cominciò a ridere a crepapelle e Giacomo attaccò a frignare. I dromedari, che forse erano dei lama, facevano “Boooo... Boooo...”. Per arrivare all'entrata c'era da attraversare un campo di almeno settecento metri quadrati. Sette centinaia di metri di macchine buttate sulla terra battuta. Piero le guardava una a una ridacchiando da sopra il doppio mento. Sapeva già tutto. Alla fine dello spettacolo migliaia, forse milioni di persone si sarebbero alzate dalle panche di legno, si sarebbero incolonnate verso l'uscita dei tendoni, e da lì avrebbero raggiunto la propria auto. Allora quello davanti si accorge che anche quello dietro vuole uscire, e che anche tutti gli altri vogliono fare la stessa cosa, proprio nello stesso momento. Allora quasi tutti provano a scappare il prima possibile e a buttarsi nella circonvallazione. Ma siccome tutti vogliono uscire in fretta qualcuno fa un incidente. E allora da due macchine escono due uomini, che sono stati due ore a vedere i muscoli in azione della gente sui trapezi, i giocolieri, i dromedari, le tigri striate, i leoni domati col bastone, le donne in costume, i clown, le risa, gli urli. Per due ore, a dieci euro per persona. E poi a sentire i bambini che vogliono toccare le bestie, che vogliono dire un sacco di cose, che vogliono lo zucchero filato, che vogliono tornare a casa, mentre loro due vogliono solo spaccarsi la faccia. Ma qui, dicono le mogli, se non arrivano i vigili non torna a casa nessuno! E allora nessuno si spacca la faccia, ma c'è da aspettare i vigili coi liplap. Così anche gli altri non possono più uscire, e pensano che se non stessero per arrivare i vigili gli spaccherebbero la faccia volentieri a tutti e due. Razza di coglioni! Ma loro erano arrivati a piedi. Piero si carezzò la pancia impiegatizia e pensò di aver avuto l'idea migliore del mondo. Cesira lo seguiva a fatica, tenendo Giacomo per l'orecchio sinistro, Giulia per l'orecchio destro e la borsa di vernice nera a tracolla, con le frittelle a friggere sopra il rossetto, il portafogli e le chiavi di casa. La terra battuta si era infilata fra la scarpa e il collant, leggerissimo, dietro al calcagno, e tutte le volte che faceva un passo sentiva la sabbia strusciare contro la calza, che strusciava contro la pelle, e allora la pelle veniva via, e faceva sangue, che si appiccicava ancora di più al collant, che raschiava via ancora più pelle, fino all'osso. Sperava che l'osso sarebbe arrivato in fretta, così avrebbe smesso di sanguinare, intanto teneva duro, e tirava ancora di più le orecchie a Giacomo e Giulia, proprio come fanno i soldati in trincea quando vengono feriti, e si ritrovano nell'ospedale da campo con un legno da stringere in bocca e un cetriolo da smaltire su per il culo. O come era successo a lei il giorno del parto, passato con una mano nella sua mano e l'urgenza di espellere diffusa in tutto il corpo. Una botta di estrogeni. Stringi la manina, mammina, che poi passa. Stringi il bastoncino, soldatino, che poi passi. Una botta e via. Spingi, stringi, spingi! Le panche erano di legno scheggiato, ma tinto di rosso. Nelle fessure aperte dai forse mille culi che, nei secoli, avevano scrostato la vernice, si vedeva che prima del rosso qualcuno aveva scelto il turchese, e prima ancora qualcun altro aveva osato il giallo. Quello che c'era sotto al giallo era ancora un mistero inconoscibile. Altre chiappe, forse, lo avrebbero scoperto fra molti molti anni. Tutti i bambini erano in delirio e sventolavano bandierine con una grossa emme tutta rossa e piena di riccioli color oro. In mezzo c'era una tigre a bocca spalancata cavalcata da una donna a cosce aperte, a 2 euro e cinquanta. Le distribuiva un omino pelato, insieme ai lupini e a certe stecche di croccante che sembravano fatte col mastice. Giacomo volle per forza un abominevole triangolo scaleno di pistacchi caramellosi (almeno mezzo chilo!), e dopo averlo sbavato per bene lo appiccicò sulla testa di Giulia, che si mise a urlare. Piero dovette comprare una bottiglietta d'acqua che l'omino fece apparire subito con una giravolta su se stesso, altri 2 euro, e con quella Cesira tentò di staccare il croccante dalla testa di Giulia, che ora teneva il capino inclinato dalla parte della stecca e faceva “Boooo... Boooo...” più forte che poteva. Cesira mise anche il croccante nel cartoccio. Chissà, magari quelle povere gazzelle là fuori l'avrebbero mangiato. Alle brutte c'era il criceto, a casa. Poi entrò l'orso. Erano passati i clown, i polli ammaestrati, i giocolieri, i trapezisti (Giacomo giurò di aver visto anche l'omino dei lupini, tra di loro, ma con una parrucca bionda lunga fino all'ombelico), erano passate le contorsioniste, i gemelli siamesi, i nani, le foche, i coccodrilli. Erano passati tutti. Ma poi arrivò l'orso. All'improvviso divenne buio e si sentì un rullio come di piatti spaccati. Una voce, che secondo Cesira era sicuramente quella dell'omino trapezista, urlava in circhese che quello, quello dio mio era il prodigio che il mondo non aveva ancora mai visto. La meraviglia delle meraviglie. Il nonplusultra. Sioressioriiiiiunbelaplausoaaalll'ooooooorssooooo!!!! Silenzio. Piano, pianissimo, qualcosa scostò le tende e barcollò in mezzo all'arena. Era una povera cosa, enorme e insieme magra da far spavento, china sotto l'insulto di una bombetta di cartapesta e incespicante sopra il sellino di un monociclo microscopico. Dietro, un donnone vestito da cavallerizza sbraitava agitando un frustino. La pelliccia, che un tempo forse era stata molto bella, qua e là si apriva sulla pelle macera. Nelle curve, quando la bestia si piegava di lato per non cadere, appariva il disegno delle ossa. Le tuberosità della spina dorsale come una cresta. Le zampe scarne. Gli artigli limati. I denti scheggiati. Solo lo sguardo del suo unico occhio diceva che un tempo, in un tempo lontanissimo, in un tempo quasi dimenticato, e tuttavia in un tempo sicuramente esistito l'orso aveva combattuto tante battaglie. Dall'altra parte, l'orbita vuota piangeva, forse, per quella più importante, che evidentemente era stata persa. Il donnone incalzava. A ogni colpo di frustino le ballavano le tette. Gli uomini erano in visibilio. I bambini urlavano. Nell'aria schioccavano i palmi, crepitavano i carpi, snocciolavano le nocche. Piero stava zitto con le mani sul pancione, e sudava freddo. L'orso fu obbligato a scendere dalla ruota su cui aveva traballato per cinque minuti buoni. Ma qualcosa andò storto, Piero lo capì subito. Il donnone, che prima incoraggiava l'animale e il pubblico con degli urletti ritmici e sempre più forti, all'improvviso si fermò. A capo chino, la bestia aveva mandato un lamento altissimo e era crollata sulle giunture delle zampe posteriori, come in ginocchio. La gente si era alzata in piedi, in tripudio, e qualcuno già chiedeva il bis. Ma cosa c'era da urlare, si domandava Piero? Dio santo, non lo vedono che quella povera bestia sta male? Non lo vedono che non sta recitando? Per tamponare l'imprevisto il donnone si era fatto ancora più grasso e si era piazzato sotto i riflettori, in pasto al pubblico. Nel mezzo all'arena faceva grandi inchini a destra e a manca. Aveva un body di lustrini e quando si piegava, precisamente a pi greco mezzi, il costume s'infilava nella fessura del corpo, le piume si alzavano sulle natiche da sollevatrice di pesi, e proprio in cima in cima alla coscia compariva una voglia che sembrava la setola di un pennello. A ogni inchino gli uomini muggivano. Sbavavano quasi. Piero non capiva. Ma cos'avevano tutti? Cos'avevano tutti quanti? L'orso arrancava. Muscolo dopo muscolo era riuscito a rimettersi sulle quattro zampe. Ansimava, e con la testa tentava di mettere al riparo l'occhio buono dagli insulti dei riflettori sparati sulla sua carcassa. Guardava la gente di sbieco, con tutto il suo odio. Quando il suo occhio incrociò quelli di Piero lui sentì un fremito su per il pancione, sotto alle mani incrociate. Ma non bastava ancora. Doveva danzare. Con un braccio tutto muscoli, forse perfino peloso, il donnone fece un gesto improvviso verso l'alto, e l'orso fu come trascinato a forza da un elastico invisibile. Piero gemette quasi quando vide che la donna teneva nella mano chiusa a pugno la cima di un cavo di acciaio, e che quel cavo di acciaio si chiudeva a cappio intorno al collo dell'orso. Così, sotto gli occhi di tutti. Senza nemmeno fingere che non fosse così. Senza nemmeno aver vergogna che fosse proprio così. Dio mio, dio mio, ma cosa stanno facendo? Allora Piero prese l'unica vera decisione di tutta la sua vita. La gente lo vide alzarsi in piedi, e gridare basta! E come per incanto videro la scena fermarsi, l'arena diventare un'immagine ferma e stupefatta di uno schiavo e di un carnefice congelati in una posa di violenza, entrambi fermi a osservare quell'uomo che non c'entrava niente, e che pure aveva interrotto il naturale svolgimento delle cose. E poi lo videro avanzare, fino a portarsi nel centro dell'arena, per dire a tutti che siccome perfino dio si occupa dei soli uomini è giusto che anche gli uomini si occupino solo di se stessi. Basta, dio mio, basta! Che prendano me, piuttosto, e lascino libera questa povera bestia! Il donnone intuì il baratto, e con le mani forti strizzò le lonze sui fianchi di Piero, che divenne tutto rosso. Sembrava soddisfatta. Poi dette un'occhiata prima all'orso, e dopo alla famiglia. L'orso si era alzato sulle zampe posteriori, e fissava Cesira, che immediatamente abbassò lo sguardo sorridendo. Giacomo e Giulia squittivano dalla contentezza. Allora Piero, con delicatezza, prese la bombetta dalla testa dell'orso e se la mise in capo. E in mezzo agli applausi iniziò la sua nuova vita. Poi successero le solite cose che succedono sempre in questi casi. Sul suo piccolo monociclo Piero dette un sacco di spettacoli in tutta Italia. Dopo un anno di vita circense sposò il donnone, che nonostante la ciccia a letto era una bomba, e dimagrì un sacco di chili. L'orso invece andò a vivere con Cesira e i bambini, prima adattandosi a dormire in giardino, e poi reclamando il proprio posto nel talamo coniugale. Fece rigare dritto i figli adottivi, aggredì a morsi il proprio capo ufficio, infine chiavò la vicina di casa, che si tenne i cuccioli con suprema soddisfazione. E vissero tutti felici e contenti.