Alessandro Biagetti: Il gorgonzola non dura niente

 
 
È un mattino atono. Anonimo. Non sembra assolutamente maggio. Non sembra mattino, non sembra bel tempo, non sembra sabato. Non sembra assolutamente nulla. Mattino bastardo, preso al canile per carità borghese. Giorgio ha un modo tutto suo di portare le ciabatte. Facendo perno sulla fascia, la ciabatta si scosta di trenta gradi buoni verso l'esterno rispetto all'asse del piede. Con il risultato che, secondo il ritmo della camminata, le dita e il tallone strusciano a turno sul pavimento. Ciabatte blu per quel mattino di nebbie, mutande boxer comprate a sconto al mercato di Castiglioncello da almeno dieci anni, fruit dal collo slabbrato con visibili variazioni di tonalità del colore all'altezza delle ascelle. Un caldo bestia, la moglie del capo condominio ha ricevuto in promozione assieme alla menopausa un senso di freddo costante e paranoico, e così il riscaldamento lavora sempre a pieni giri simulando atmosfere caraibiche. Giorgio sta di nuovo in casa con la sorella, di diversi anni più piccola, e i genitori. Ma da poco. È stato sei mesi fuori, a Milano, per seguire un corso sulle reti informatiche e sulla progettazione di siti web. Per tutto l'autunno e l'inverno ha palleggiato la sua esistenza in un bilocale vicino Costamasnaga, sempre lì in quell'agglomerato piatto di case e costruzioni varie, assieme ad altri studenti del suo corso; il sabato mattina si alzava più tardi e andava nel bar pasticceria vicino, magari semivestito o buttandosi su un maglione e un paio di jeans presi a caso nella valigia mai del tutto svuotata, e si faceva la sua buona colazione salata con caffè, succo e schiacciatina ripiena di gorgonzola e prosciutto crudo. Una bomba, ma a lui piaceva così; in più, era una nota di colore sfacciatamente stonata nella fauna solita del bar, commesso compreso, quella strana gente dalla testa frenetica come i milanesi e dagli occhi arcigni e sospettosi come i brianzoli. Oggi sabato, tutti zitti. Ci vuole la colazione salata. Queste sono le sue intenzioni bellicose mentre a passi stanchi ma convinti si avvicina al frigorifero. Sta un paio di minuti a scrutare con aria arrogante la porta dell'elettrodomestico, tappezzata di magneti colorati. Poi decide che è più logico iniziare col caffè; quanto meno, preparare la moka e metterla sul gas. Si avvicina all'acquaio, svita la caffettiera con l'aria di chi compie qualcosa di proprio faticoso, e la pulisce sotto lo scroscio freddo dell'acqua. E Marta, nel suo cervello. Ancora con quella storia, grande ferita fatta di sentimenti non completamente decifrati e di domande pesanti che sembrano gravargli tutte sulle spalle. Marta che aveva amato come non gli era mai successo, con la quale aveva deciso di crescere, maturare e invecchiare, Marta che gli era sempre sembrata la donna ideale per lui, Marta che il sesso e la tenerezza, Marta che gli occhi verdi come la serenità e allo stesso tempo azzurri come la bellezza del mare a mezzogiorno, Marta che quel seno grande e tondo con il quale giocare e sentirsi a casa. Marta che un giorno gli aveva detto ciao, così, semplicemente, come tutto quello che diceva e che acquistava una naturalezza e ovvietà da enciclopedia illustrata. «Non me la sento di continuare, tu hai fatto tante esperienze e io non ho mai avuto la forza di andare; ma adesso voglio andar via e non mi tratterrai», aveva detto. «Ma chi ti trattiene, vai! Vai e vivi, se io non ti ho lasciato libera!», urla con forza, di scatto, stupendosi di aver sciolto i lacci a quella frase uscita dalla testa senza il suo permesso e approdata prima sulle labbra e poi nell'aria ad interrompere il silenzio innaturale di quella mattina. Lascia cadere la moka nel lavello; poi la riprende e si mette a terminare la preparazione del caffè. Acceso il fornello si volta di scatto, gesto improbabile per quel suo stato di dormiveglia catatonico, e va a fronteggiare, pochi passi in avanti, il suo storico amico-nemico. Suspance da film western, prima dell'estrazione delle pistole. Gioca sui gesti, Giorgio. Di scatto, le cinque dita a serrare la maniglia del frigo. Apre fulmineo e il duello è vinto. No, irrimediabilmente perduto. La vaschetta bianca non c'è. Sparita. Comprato il giorno prima, l'agognato formaggio, non c'è già più. La sera prima non era a cena e si era dimenticato che, nella ritualità ossessiva di pianificazione settimanale di sua madre e sua sorella, il venerdì è giorno di pizza. Congelata, ovviamente, da farcire all'ultimo momento con quello che offre la dispensa. Il gorgonzola se n'è andato, immolato sull'altare della cena del giorno prima mentre lui era a trangugiare di furia un panino dopo la partita di calcetto. Il gorgonzola è finito. Spazzato via. Defunto per morte violenta, il suo gorgonzola. Incredibile. Lo spazio vuoto, quella piccola superficie di griglia bianca dell'elettrodomestico catalizza tutta l'energia rabbiosa di Giorgio. «Il gorgonzola in questa casa non dura niente». Frase spezzata, detta tra i denti in un ghigno animale di rabbia improvvisa e col pensiero avvinghiato ad altri luoghi e a volti duri da dimenticare. Il gorgonzola. Ci aveva fatto affidamento davvero, in quel sabato infido. Sperava che almeno lui durasse. Solo venti secondi, fino al fatidico “ding” del microonde, quanto basta di solito a sciogliere sulla base della schiacciata la parte bianca del formaggio molle prima dell'ultimo tocco artistico e culinario, ovvero l'aggiunta del prosciutto. Richiude il frigo. Non è un bello spettacolo la scialba parata degli appunti scarabocchiati su fogliacci di recupero tenuti su dai magneti, ma in quell'attimo a Giorgio paiono l'unica consolazione. Si ributta di testa nei suoi pensieri a senso unico, senza esitare un istante, come quando da bimbo voleva fare il bagno al mare e l'acqua era ancora troppo fredda. Il gorgonzola non è durato nulla, nemmeno lui. E Marta, nemmeno. Nulla e niente. Nevermore, quoth the Raven. Mattino infinito di vuoto. Ci vuole Edgar, non lui, a commentare l'ecatombe. Dov'era il gorgonzola, il suo amore, la sua scanzonata eterna voglia di ridere e prendere in giro tutto e tutti? Nevermore. Mai più. Solo il caffè della moka grande, quella che viene sempre peggio ma almeno serve alla colazione dell'intero organico familiare. Già, il caffè. Inizia a uscire fuori. Va spento. Ovvero c'è da traslare il corpo di pochi passi e animare il braccio fino a trasmettere il movimento alle dita che non avrebbero poi avuto altro da fare che ruotare la manopola del gas. Banale, in condizioni normali. Ma quei due metri di nebbia prefestiva sono infestati, maleodoranti di un'essenza nauseante e dolcissima ad un tempo che si chiama Marta. E Giorgio ci sbatte contro ad ogni centimetro che guadagna nel lento muoversi dal frigo ai fornelli. La moka inizia a fischiare. Ma lui è ancora lontano. Non ha voglia di spostarsi, perché non c'è scampo per i suoi passi. Ogni avvicinamento è probabilità di incontrare una mina ossessiva del ricordo di lei. Di quando andarono a fare spese in centro città per cercare un bambolotto di due metri, di quella pazza uscita in scooter verso le Apuane, di quando improvvisarono una lotta all'ultima secchiata nel giardino di casa sua per pulire le auto. Marta, senza di te è svuotato tutto. Anche il frigo. Il gorgonzola non dura niente. «Spengi quel cazzo di fuoco...» Alle sue spalle, Rita. Si è svegliata presto, stamani. Appena in tempo per impedire a Giorgio di far esplodere la caffettiera. Brontolio provvidenziale, che riesce ad incoraggiare la potenzialità cinetica del fratello tanto da riguadagnarlo al mondo dei vivi. «Lo vòi anche te il caffè?» «Grazie, tato. Piglio uno yogurt». Le due figure umbratili si radunano al tavolo, ammaliate senza recupero dall'aroma del veleno nero della mattina. Due tazzine bianche, il Richard Ginori del mercatino dell'usato, e un sorso funereo. «Ma perché piangi?» Ecco, sono domande da farsi? O sono piuttosto una scarica di mitra sui medici senza frontiere che tra una goccia salata degli occhi e l'altra tentano un intervento di fortuna nel cervello martoriato di Giorgio? Le donne sono mine anti-uomo. Il pianto isterico non ha che da aumentare. «Perché piango? Perché piango? » La voce è un urlo strozzato. «Ma ti fai un ballino di cazzi tùa?» Se t'avevo 'n culo, Rita, dopo questa frase ti càavo 'n Corsi'a. Un gesto stizzito, naturale epilogo di questa dotta interazione di pensieri inespressi e cacofonie verbalizzate. Giorgio afferra con violenza la caffettiera rovente dalla parte bassa. Con conseguente scottatura. E urlo. E adrenalina a palla. La caffettiera barcolla ma non si rovescia. «Piango, eh? E secondo te, perché piango?» Silenzio di sfida. «Perché avete finito il gorgonzola, ecco perché piango! Siete egoiste, cretine, cieche. Tu e mamma. Siete donne. Non c'è da farci nulla». Rita non capisce il vero movente di quegli insulti gratuiti, ma sa di trovarsi davanti a uno sfogo da inno nazionale. Indietreggia di un passo dal tavolino, senza pensarci. «Ma ricordati», il dito alzato come un improbabile fra Cristoforo e la voce cadenzata come “è arrivato l'arrotino e l'ombrellaio ripariamo cucine a gas”, «ricordati bene. Che nella prossima vita mi chiamerò Nedo. La prossima vita. Mi chiamerò Nedo». Ormai le lacrime vanno libere. Inondano il caffè amaro, il prosciutto e la colazione salata, gli appunti per scrivere pagine web e le poesie in inglese, la penombra di quella giornata di sabato e il lungo inverno della Brianza, il mare irrequieto di libeccio a due chilometri e la costa etrusca da Quercianella a Piombino. «Mi chiamerò Nedo, e basta. E andrò a giro con la testa alta, dé. Alta, capito? E le mamme che mi vedranno passare diranno ai loro bambini guarda c'è Nedo, guarda e impara. Perché lui c'ha sempre il gorgonzola nel frigo. A lui sì che il gorgonzola dura... »

  1. letizia (non verificato) on Mar, 05/13/2008 - 14:12

    alla fine l'ho letto il racconto del grande maestro ale. è proprio carino, ruffiano ma carino. mi sono messa a ridere da sola davanti al computer. con una lacrimuccia in fondo alla risata. quindi ha colpito nel segno. bravo.

     

  2. trasciatti on Mer, 05/14/2008 - 02:06

    Thank You for the comment, but the Direction of this site remeber You to signe your comment, beacause, if everybody doesn't signe, nobody understand an accident. Thank You for your collaboration.

     The Secretary of Foreign Office