Nicola Dal Falco: Renato Bozzoni Mistral, un ritratto

Renato Bozzoni Mistral

Il poeta sale sul diretto per Tirano, sorretto e spinto da un ventenne. Nipote? Impiegato preso in prestito per lo scopo? Figlio del portiere? Studente incontrato nel metrò? Chissà? Hanno l’aria di conoscersi da un quarto d’ora o da dieci anni.

Posa le borse del vecchio sul sedile accanto, manca poco alla partenza e quando sta per salutare, il poeta gli chiede di comprargli due birre in lattina e due panini al prosciutto. Ha i soldi? Sì, bene, può farseli rimborsare da sua moglie.
«Mi raccomando, fallo».
«Per diecimila lire, non mi rovino».
«Cosa vuoi… tocca anche a me di mangiare, una volta al giorno».
Il poeta, magro, di statura media e leggermente incurvato, ha al collo un pesante ciondolo di bronzo: una figura, forse femminile, con il turbante. I capelli bianchi gli coprono il collo. Porta degli occhiali da sole con le lenti gialle, un panciotto di velluto fantasia, blu, rosso e viola, una camicia e una cravatta bizzarre di stoffa spessa. Sopra, indossa una giacca di pelle chiara, rossiccia, col collo di visone. Unghie e baffi sono curatissimi.
Entrando, aveva detto: «Ecco, mi siedo davanti a questa bella ragazza».
«Lei è del sud» le chiede sicuro il poeta.
«Sì - risponde - per metà».
«Dove vive»?
«A Monza, con mia madre. Papà è di Taranto».
«Con i genitori».
«Sono separati, lui vive giù».
«Mi faccia dire… è un tipo esoterico… giocava alle carte? Sì?…. sì».
Mentre parla il poeta ha il tic di asciugarsi con il palmo della mano la bocca come dopo frequenti e lunghe bevute. Gesticola in direzione della bruna dagli occhi tristi, abbondantemente truccati. Un viso bianco e affilato tra due masse di capelli scuri. Il suo corpo slanciato lo provoca, la gonna corta, le calze nere, le labbra serrate… una bella ragazza.
«Come sono gli occhi di sua mamma?… Io sono poeta. Ha di fronte, non per vantare, una persona straordinaria, poeta internazionale, cantante mondiale. A Las Vegas, nei locali di Frank Sinatra… negli alberghi della catena MGM. Mi diceva ti mando in camera una slot machine… ma va! … mandami su una svedese.
«No, nella vita non ho giocato. Solo a sedici anni, a Saint Vincent. Mio padre mi dava centomila lire. Se si vinceva, andavamo al night a bere champagne, c’erano certe donne… Nessun problema, tornavi a casa con il pullman garantito, a piazza Castello. I vincenti e i perdenti insieme.
«Che begli occhi… Mi descriva un po’ sua mamma»-
«Non sono capace».
«Ragazza, dimmi qualcosa, appena… Gli occhi, che colore sono? Ti faccio una poesia per tua mamma».
«Scuri, come i miei».
«Te la spedisco. Scrivi nome della via, numero, Monza. Non così, su un foglio per bene. Stampatello grande. Non vedo benissimo.
«Come si chiamano le donne di Taranto… tarantine? Tu, invece, il tuo nome? Maria Grazia Cucinotta? Ci somigli. Eh… la Cucinotta. Gli ho scritto. Bella ma questo cognome che vuol dire? Allora, ragazza, il tuo nome»?
«Mariella».
«Mariella Cucinotta! Mi presento, Renato Bozzani Mistral. Sono nato a Milano e vivo a Teglio. Il poeta di Teglio, l’unico. Gli altri… sai. Devi dire a tua mamma che ha generato una bella figlia. Hai una foto così mi ispiro, scrivo un poema…».
«Ma non posso lasciargliela».
«Fai una fotocopia, me la spedisci. Renato Bozzani Mistral, poeta, Teglio. Basta. Un mio amico marocchino mi ha scritto una cartolina: Renato Bozzani Mistral, poeta, Teglio. Arrivata».
Il poeta osserva la fotografia cortesemente e rinnova le lodi alle due donne, unite, secondo lui, da un patto d’amore nei confronti dell’umanità e dei poeti in particolare.
«A Milano ho un grande negozio di ferramenta - la conversazione proseguiva senza un attimo di tregua su binari imprevedibili - non posso comprare i trapani Bosh in Germania. Vorrei ma il Canzi di Lecco me li dà a meno. Lui li acquista direttamente… vagonate di trapani. È una ditta a Lecco di cento dipendenti».
Poi, in perfetto controtempo: «Tieni, ti do il mio libro. È un regalo, non voglio niente. Magari, un bacio. Mi darai un bacio? Sei proprio bella, tua mamma ha generato una bellezza. È grande, scritto grosso, perché? Perché le mie donne hanno cinquant’anni e non vogliono faticare a leggere.
«Guarda, ero bello da giovane… la foto, qui, dietro il libro. Guarda, dimmi la verità. Anche lei signore - e rivolto alla ragazza - lui è un uomo. Non le sembra? Proprio un bel ragazzo ».
Il libro di Mistral è grande come un catalogo, come un depliant di articoli di corsetteria. Stampato, probabilmente, negli anni del boom. Nella foto a tutta pagina, il poeta da giovane mostra uno sguardo vivace, sicuro, curioso di sé. Alle sue spalle c’è una spiaggia. È vestito in maniera sportiva: giubbotto con la zip, pantaloni comodi, alti, stretti all’ultimo buco della cintura, forniti di una riga chilometrica  Non tiene le mani in tasca. La pettinatura ricorda i Longo, gli Amendola, i Pertini. Sembra un artigiano, un sindacalista o un maestro di scuola. Le note biografiche sono scritte quasi a caratteri cubitali.
Mentre la ragazza sfoglia lentamente, tenendo il libro sulla gamba accavallata, si intravede in una pagina un quadro di Klee, intitolato “Interregno”. Ha il fondo azzurro, un azzurro celestiale e sul rettangolo di colore si affollano diafani ingranaggi, filamenti di dna, fiocchi di neve, vivide strutture di una complessità primaria.
«Sono un poeta internazionale - incalza il vecchio - le mie poesie le ha lette Giulietta Masina al Piccolo Teatro. C’era anche Fellini, seduto a un tavolo con le sue fan. Non ci credi, ragazza, ho l’autografo. Non sono un fasullo… ». Si alza, tira fuori il portafoglio e glielo mostra.
«Vedi. Ero arrivato in ritardo come al solito. Giulietta mi ha presentato. Ha detto a Federico : «Lui ha scritto per me dei bei testi …».
Intanto, ha aperto una lattina, succhiando la birra dalla cannuccia. Ogni sorsata lo rianima, sorride con un’espressione da donnola. La compostezza della ragazza sollecita delle carezze tra il tenero e il burlone. Mira più volte alla spalla coperta da un soprabito leggero, sempre nero. Le gambe, incrociate come spade, sono irraggiungibili.
«A Teglio…. Conosci? In Valtellina. Mi hanno nominato assessore alla cultura. Un incarico così… figurarsi… a Teglio, ma seicentomila lire al mese fanno comodo. No? Lì ho dato un programma culturale. Invito io dei poeti francesi, algerini… Quanto avete? Quattro milioni? Quattro? E che ci fai».
Qualcuno, seduto vicino, sbircia la scena dietro il libro. Improvvisamente, il poeta interroga un passeggero che guardava la ragazza. Lo tempesta, chiedendogli cosa fa. È un dottore, un ragioniere?
«No, studente? Io ho fatto ragioneria a Milano. Alla fine dell’anno avevo un buon voto in italiano e sufficiente in ragioneria. Il destino… segnato».
Una serie di scossoni fa sobbalzare il vagone, spinto lentamente tra gli scambi, fuori dalla stazione Centrale. Scorrono altre stazioni cittadine, muri di fabbriche, caselli ferroviari, minuscoli orti, parcheggi.
«Scusa ragazza - si alza per andare in bagno -  ho bisogno un attimo».
Attraverso il vetro della porta che separa il vagone dalla piattaforma, si vede il poeta camminare con attenzione, entrare nel vagone successivo, osservare e parlare a certe persone come per annusarle. Prosegue, incespica, si scusa, riparte a piccoli passi. Rifacendo la strada al contrario, nell’altro vagone, ha un breve alterco con un tizio che, dopo, commenta sfarfallando la mano davanti al naso, perché il poeta gli ha alitato in faccia. Mentre il treno sta rallentando per entrare alla stazione di Monza, cerca ancora il suo posto, sedendosi nel vagone sbagliato. La gente si alza per scendere, anche la ragazza e di fronte al suo piccolo pubblico lascia cadere una frase malinconica: «Non potrà avere il bacio».
Sul marciapiedi non si volta, va con lo sguardo dritto e i capelli immobili. Il diretto si è mosso di nuovo. Arriva il poeta, sussurrando di non ricordare dove è seduto. Passa avanti ma poi si gira e vede le sue borse. Seduto, sospira un po’ e cerca il panino. Quando lo trova, chiuso in una forma di plastica, aerodinamica, fatica ad aprirlo. Non ci riesce. Allora, mi offro di rompere il bozzolo trasparente con un coltello. Ringrazia per quel panino di stazione.
«L’altro lo do al mio cane. Che cane! Incredibile, bravo, bravo. Lei cosa fa? Architetto, politico?

***

Abbiamo parlato un po’. Ha voluto ripresentarsi ma gli ho detto che sapevo chi avessi di fronte. Nei suoi discorsi allegri ha citato Campana e Cardarelli ma è stato anche zitto, mandando su e giù un respiro ruvido, quasi tosse che non cresce. Il treno, come suo dovere, si è fermato un po’ più a lungo a Lecco. Un fischio penoso ha segnalato la chiusura immediata, automatica delle porte. Prima che il convoglio seguisse la locomotiva, il poeta ha detto con voce chiara: «Andiamo, andiamo, via da Lecco. In Valtellina! Ci sono delle brutte montagne, qui»-
Il giorno dopo, verso le 9.20, quando il treno per Milano ripartiva da Monza, un signore alto, distinto, con il giaccone a quadri anni settanta, seduto qualche posto più in là, si è rivolto a una signorina bionda esordendo così: «Lei si ricorda cos’era il brodo di cotechino»?

 

(In alto: Stefano Acconci, Ritratto con fiocco)