Dark0: Uomini e pecore, sesta puntata

6.

Ora al centro di un gregge di pecore belanti, sebbene non ci fosse lo stesso livello di aspettativa e non stessi raccontando di gol fatti dalla bandierina del calcio d'angolo, non avevo il coraggio di dire alla pastorella quello che avevo detto alla ragazzetta stupida, almeno non con la stessa veemenza.
Opto quindi per qualcosa di meno diretto, ma è chiaro che la mia prontezza di riflessi non è all'altezza e basta un secondo di più che lei a testa bassa interrompe quello che non avevo ancora iniziato a dirle:

- Scusami Diego, davvero, mi dispiace.
- Ehm. Niente, figurati.
- Lo sapevo che sarebbe successo prima o poi. - e resta con lo sguardo sui suoi piedi.
- Guarda io...
- No, lascia stare, non dire niente. Lo so: è stata colpa mia e me ne pento.
- No, io... - e intanto mi levo il cappello con mestizia ottocentesca portandolo al petto come nei funerali.
- Però sparire così anche tu... Non c'era proprio bisogno di fare così. Mi potevi mandare un messaggio, un'e-mail...
- Un'e-mail? - e la vergogna aumenta vertiginosamente quando mi sfiora il pensiero che cellulari ed internet non sono roba per pastorelle sperdute nella valle Stura di Demonte.
- Sì una mail, un messaggio, qualsiasi cosa per dirmi... ma che hai fatto ai capelli? - E finalmente riesco a guardarla negli occhi e posso farle capire che non so chi diavolo sia.
- Perché? Che hanno i miei capelli?
- Sono lunghi, l'altra volta a Borgo ti ho visto che avevi i capelli...
- Guarda, deve esserci un equivoco, io forse non sono...
- Non sei Diego... è vero: sei diverso.
- No. Sono Diego.
- Però sei diverso. - e ora mi scruta come a volermi scavare dentro con quegli occhi grigi come le pareti rocciose alte dietro di lei.
- Sono diverso perché non sono quel Diego.
- Io... - e fa la stessa faccia della ragazzetta stupida della piazzetta, ma senza la gente che ride intorno. È il momento.
- Comunque piacere. Diego.
- Scusa è che ti ho scambiato... cioè conosco un Diego che ti assomiglia, cioè uguale a te: Diego Faggi.
- Eh no, abbiamo lo stesso nome, ma non sono lui...
- Sì, sì è che non lo vedevo...
- Tranquilla, tranquilla. Nessun problema. Può capitare.
- È impressionante: sei uguale.

E lì mi viene da ridere e forse lo faccio troppo sguaiatamente che lei abbassa nuovamente lo sguardo e dicendomi che avrebbe subito spostato il gregge dalla strada, mi da' le spalle e si allontana. Io sento di voler parlare ancora con questa fotocopia ingrandita di là sui monti con Annette e penso che debba fare o dire qualcosa subito. Anche solo per capire l'origine dell'equivoco.
O forse no. Non voglio fare niente. Ho paura che si sia offesa.
Non voglio perdere l'occasione di conoscere meglio la sconvolgente eccezione del mio immaginario fatta a persona.
Sto per urlarle qualcosa quando sento, da dentro la Twingo, Poker face di Lady Gaga: la suoneria del mio cellulare. Il volume è così alto che sovrasta il belare del gregge e cattura l'attenzione di Annette, che si gira verso di me. Io sto metà dentro la macchina a cercare il cellulare sul sedile e metà fuori a cercare di attirare la sua attenzione alzando un braccio e sorridendo storto. Lei finalmente sembra sorrida, ma potrebbe essere un miraggio da sforzo fisico fuori misura. Oppure è il sorriso da pena infinita nei confronti di quest'omino di città così fuori luogo e di quella suoneria così tamarra. Oppure è un modo carino per sdrammatizzare la situazione di prima.
In ogni modo, trovato il cellulare lo afferro, metto in silenzioso, e ho solo il tempo per guardare un attimo il display e leggere Desi. Tuffo esistenziale di un microsecondo nella mia vita in stand by lasciata a Pisa per poi rialzare lo sguardo e dire:

- E tu ti chiami? - ma la natura nei confronti di certe esternazioni di spontaneità espansa non è mai magnanima come nei film.
- Come?
- Come ti chiami tu? - ormai persa ogni inibizione costruisco le frasi come farebbe Yoda.
- Come mi chiamo?
- Eh. - ma lo dico tra i denti.
- Asia.
- Asia? Asia scusa un attimo... - lei grida qualcosa ad una pecora che si stava allontanando sul crinale della valle e quella obbedisce al suo richiamo, poi sbatte il bastone nodoso per terra e si fa strada verso di me.
- Mi dispiace. Ti ho scambiato per un altro...
- No. Non è per questo. E che volevo sapere... per Bersezio, vado di qui? - e indico la direzione della strada che ho davanti.
- Sì che vai bene. Sempre diritto. Vai a sciare?
- Eh no. C'è un matrimonio...
- Il Berlin?
- Esatto. Lo conosci?
- Chi non lo conosce?
- Giusto. Chi non lo conosce. Io per esempio...
- Senti io devo andare sennò con il gregge è un casino. - poi vedo che prende un cellulare dalla tasca e quella parte di me che non riesce ad accettare questo finto anacronismo stride con la mia parte disincantata. Lo guarda un po', poi dice:
- Dov'è che stai?
- Dove sto?
- Sì, dove dormi? Dal Berlin a Cuneo?
- No, no... avevo pensato ad un alberghetto da queste parti.
- Guarda che non ne trovi così...
- Come non ne trovo? Ne trovo... certo che...
- Segnati il mio numero... qualsiasi problema. Domani in mattinata sono qui vicino, a Pinardo...
- Ah sì... - e ormai sono un uomo totalmente vinto dall'evidente imbarazzo.
- Come te lo segni?

Infatti. Stando fermi davanti a lei come lo segno il suo numero? Un bambino delle scuole elementari sarebbe stato più sveglio.
Asia mi lascia il suo numero, io lo appunto sul cellulare, poi faccio partire uno squillo così anche lei ha il mio e io, non so perché, la memorizzo come Asiapastore. Lei mi saluta e andando via porta con sé tutto il gregge.
Io m'infilo nella Twingo, mi rimetto il cappello e mi lascio andare sullo schienale. Il suono del belare e dei campanacci sfuma all'orizzonte in mezzo alle montagne e il sole fa lo stesso, ma non riesco a vederlo. Tutto si fa più buio.
Solo quando il parabrezza inizia ad appannarsi, mi rendo conto che anche stavolta ho perso l'occasione per toccare una pecora vera.

 

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