Julio Monteiro Martins: La serie tragica

La serie tragica (2008)
In una fredda giornata assolata di fine febbraio, i raggi attraversavano gli orifizi dell’avvolgibile nuovo e dipingevano a macchia di leopardo le pareti del salotto della nostra villa toscana. Di fronte alla parete illuminata lo schermo gigante della tv sintonizzata su Classica presentava nel Théâtre du Chatelet il Corpo di Ballo del Kirov in un omaggio a Nijinsky. L’aria domenicale era satura delle melodie esaltanti di Rimsky-Korsakov e di Borodin. Io e mia moglie guardavamo a volte le pirouettes dei ballerini, a volte, dalla portafinestra, gli intensi colori della natura immersa nella luce crepuscolare, il prato, l’intonaco ocra della dépendance trasformata in studio, il verde cupo dei cipressi, e a volte guardavano Eine, il nostro gatto, che sfilava con misurata eleganza sul tappetto, la coda irta in verticale come l’albero di una nave.
Quella domenica di febbraio sarebbe potuta essere l’ultimo giorno di vita di uno di noi, o di tutti e due, perché no, e se così fosse stato la nostra vita si sarebbe spenta in modo sereno e grazioso, nel massimo che il mondo è in grado di offrire come bellezza e qualità. “Una bella giornata per morire” si sarebbe potuto dire, non fosse il fatto che necessariamente sono sempre e comunque terribili le giornate in cui si muore.
– Com’era la storia di quel Flavio de Carvalho che hai menzionato alla conferenza?
– Spiegavo com’è stato ironico, quasi beffardo, il destino artistico di Flavio de Carvalho, un artista brasiliano di avanguardia del primo Novecento. Sai, lui era un dadaista radicale, sempre coinvolto in qualche polemica iconoclastica. Per darti un’idea, creava dei vestiti scandalosi e usciva per le strade di San Paolo finché la polizia non lo arrestava, entrava nelle processioni del Corpus Christi con un cappellino in testa camminando in direzione contraria alla folla, per “palpare fisicamente l’emozione tempestosa dell’anima collettiva, la capacità aggressiva della massa religiosa”. Ha rischiato diverse volte il linciaggio. Era amico di André Breton e di Tristan Tzara, e in Brasile era diventato una sorta di anello perduto delle avanguardie storiche. Come architetto, progettava delle case senza tetto, o grandi cubi di cemento senza porte. Insomma, era l’eretico per eccellenza, considerato pericoloso e troppo trasgressivo anche dagli artisti “antropofagi” della Settimana di Arte Moderna. Era un pazzo imprevedibile, di immenso coraggio e con una fantasia selvaggia e esuberante. La cosa interessante è che Flavio de Carvalho ha sempre vissuto solo con la madre. Ebbene, quando questa all’età di ottant’anni è sul letto di morte, lui al suo capezzale prende dei fogli e comincia a disegnare a carboncino una sequenza di immagini struggenti del volto agonizzante, la bocca spalancata, i grandi occhi pieni di supplica e disperazione. La “Serie Tragica”, com’è conosciuta, è stata l’unica opera realistica che quel surrealista ad oltranza ha realizzato in tutta la sua vita. Dopo la morte della madre non ha mai più disegnato niente. Ma vedi, paradossalmente, è diventato famoso proprio a causa della sequenza dei disegni realistici della moribonda, tutto il resto è rimasto nell’ombra. La beffa è che lui credeva di dominare l’arte a suo piacimento, mentre si è sempre illuso. L’arte sì, quando ha voluto, si è imposta su di lui a modo suo, gliel’ha detto lei cosa doveva fare, al momento giusto. C’è qualcosa da imparare da questa singolare storia, non credi?
Erano iniziate le Polovtsian Dances e sullo sfondo dipinto da scudi alzati sulla steppa i cosacchi saltavano e giravano con le loro sciabole sguainate intorno alla bella odalisca. Nel frattempo il gatto aveva abbandonato il mio grembo ed era saltato sulle spalle di mia moglie, mentre, con l’ora che avanzava, le macchie di sole si avvicinavano alla loro poltrona.
– Si possono imparare molte cose da quasi tutto quello che accade, oppure niente. Bisogna avere la predisposizione di cercarne un senso, e sono in molti a pensare che un senso non c’è mai, che è tutto aleatorio e casuale. Forse la tua è stata l’ultima generazione a credere in un nesso causale e in una sorta di logica segreta dietro l’atto di creazione artistica, del tipo: delusione con l’Europa dopo la Grande Guerra, quindi apertura all’estero, quindi influenza della pittura classica giapponese e delle maschere africane, quindi Matisse e Picasso. Poi, sono venute tutte quelle sperimentazioni, decostruzioni e proposte nichiliste che hanno sconvolto tutto. A voi, cos’è rimasto? Da un lato, l’autodistruzione dell’arte. Dall’altro, come un macigno, la “società dello spettacolo”, la metafisica del marketing, la colonizzazione del desiderio. Come scappare da una tale morsa maledetta?
Per tutta risposta alla sua questione, i balletti russi erano scomparsi e al loro posto si presentava ora un film muto di Pabst. Pabst è un caso esemplare della contraddizione tra stile e contenuto, tra voglia di libertà artistica e bisogno di protezione che ha caratterizzato una buona parte degli artisti del Ventesimo secolo, sbranati nella morsa terribile di cui parlava mia moglie. Dopo essersi autoesiliato dalla sua Germania e aver fatto una serie di film sovversivi all’estero, Pabst è caduto nella tentazione di tornarci e di lavorare sotto la sponsorizzazione del regime nazista, vincendo così il Festival di Venezia sotto gli auspici di Mussolini, una vittoria che poi ha rinnegato, ma troppo tardi. È morto osteggiato dalla destra e dalla sinistra, nella miseria totale. Era questo, insomma, il gioco di illusioni e mascheramenti che ha dominato l’arte del nostro secolo, schiacciata tra i totalitarismi e l’imperativo della libertà assoluta.
Spensi la televisione, mi servii un altro bicchiere di vino e mi sedetti sul tappeto accanto a mia moglie.
– Sai che ti amo, caro?
– Anch’io. Mi canti quella canzone che mi piace tanto?
– “Quando sei qui con me, questa stanza non ha più pareti ma alberi, alberi infiniti quando sei qui vicino a me…”
– Hai ragione su quello che dicevi, sai? Ma come fa uno a creare arte dopo tutta quella decostruzione generale, quelli che mi viene da chiamare i “concetti di confine”? Dopo Marcel Duchamps? Dopo John Cage? Secondo me, non potrà più proiettare il concetto di arte su tutto, e dovrà quindi cercare di ritornare al bello, al significativo o al terribile, alla madre morente, alla rappresentazione mimetica, alle allegorie, al trascendente o addirittura a forme superiori di retorica.
– Riuscirà a farlo?
– Sicuramente lo potrà fare solo con una consapevolezza nuova, relativizzando la propria creazione. Non si tratta di un ripiego, ma di un’irrimediabile perdita dell’innocenza. Né l’artista di oggi né il suo pubblico credono più nei camuffamenti dell’arte, ma stanno comunque al gioco, sono complici in quella “sospensione dell’incredulità” di cui parlava Coleridge. Flavio era ancora innocente, io invece non lo sono mai stato. È questa la differenza fondamentale tra le nostre generazioni. Per questo lui è un “moderno” ed io sono un “postmoderno”, in mancanza di un altro termine più preciso. Comunque, non siamo stati liberi nessuno dei due. Siamo stati ciò che era possibile essere, ciascuno nel suo tempo. Abbiamo i nostri limiti e dobbiamo rassegnarci. Non si può andare oltre confini che non s’immagina nemmeno esistano.
– È vero.
– Sai cosa mi commuove di più della storia di Flavio? È la stessa cosa che mi commuove per esempio in Rilke o in Proust. È che loro sin dall’adolescenza, o anche prima, si sono consegnati interamente alla loro arte, senza moderazione, senza mezze misure. Non hanno mai avuto una vera e propria vita, all’infuori della loro arte. Hanno depositato lì tutte le loro prospettive future, tutte le loro speranze. Solo l’arte aveva un senso nell’universo, tutto il resto era irrilevante. Quando ci penso mi commuovo perché anch’io ho fatto la stessa cosa e proprio da giovanissimo. Siamo stati posseduti da questo delirio, da questa pazzia, che non ci ha più liberato.
– Tesoro, ma devi ammettere che alla fine sei stato più fortunato di molti di loro, no? Diciamo che l’arte non ti ha tradito, come è solita fare…
– Ho avuto solo la fortuna di campare più anni. Tutto qua. Ed è nella vecchiaia, come una beffa amarissima, che arriva il riconoscimento. Quando sembri già quasi un cadavere, quando sei “postumo” a tutti gli effetti. A cosa serve ormai? A ricordarmi tutti i giorni, paradossalmente, ciò che mi è stato ingiustamente negato e sottratto in tutta una vita di lavoro? Mi sembra uno scherzo di cattivo gusto.
– Capisco, amore. Ma penso che puoi considerarti fortunato lo stesso. Pensa per esempio a Frida Kahlo. Mi hai raccontato che tua madre l’ha conosciuta in Messico…
– No, a New York, nel 1933. Mia madre era una studentessa di canto alla Juilliard ma gironzolava nell’ambiente artistico e bohémien della città e l’ha vista qualche volta nei ristoranti e alle mostre, con Diego o con le amiche americane. Solo quando sono comparse le sue prime biografie ha saputo tutto quello che in quel periodo stava soffrendo, l’aborto, i tradimenti, la depressione, una storia terribile.
– In fondo quello che Flavio ha fatto con la madre malata, Frida lo ha fatto con sé stessa, ha dipinto la propria agonia, per anni e anni, fino alla fine. E come sai nessuno la riconosceva per l’importanza che ha acquisito in seguito. Le poche mostre che era riuscita ad allestire sono state dei veri flop.
– Sì, tranne una a Parigi, che ha avuto un sacco di recensioni sulla stampa locale e molto pubblico. Onore ai francesi… Ma vedi, anche lei è morta prima di arrivare alla vecchiaia. Spesso è così. Altri trenta o quarant’anni di vita e avrebbe conosciuto la “gloria” o insomma questa cosa qua per cui mi dici che sono fortunato… È stata fregata dalla biologia, come tutti. Forse un po’ più presto degli altri, però.
– E io e te siamo stati risparmiati finora.
– Sì, finora… ma diventiamo sempre più fragili, amore mio. E questo lo sai, vero?
– Sì, lo so.
– Sai perché invece parliamo tanto di arte ultimamente, io e te? Perché questo argomento è tornato in un modo così perentorio, a volte quasi ossessivo, nella nostra vita? Perché ci fa dimenticare che siamo due vecchi spaventati, in attesa di un accidente. Solo per questo, perché riesce a trasferirci in un mondo in cui le cose, al posto di corrompersi e marcire, risplendono sempre di più, accrescono la loro aura, infinitamente. Dove niente è “vecchio” e tutto è “antico”, e il fascino prende il posto dello schifo che è diventare senile e avvicinarsi alla fine come a un precipizio.
– Ti prego, cambiamo argomento! Perché non metti quel dvd con i brani di Debussy, di Ravel e di Satie? Mi piacerebbe riascoltarlo.
– Perché lo vuoi? Credi che sia un “Ventesimo secolo” che mi rassicura?
– “La valse” di Ravel ti rassicura, amore mio? A me invece inquieta tantissimo, mi dà un senso di smarrimento, di crollo totale di tutto, di fine del mondo… A te no?
– Sì, anche a me, anche a me… Va be’.
– Poi siediti qui vicino a noi.
– “Che io ti guardi, Delia, mentre svanisco”.
– Ci guardiamo l’un l’altra e così scompariamo insieme, va bene?
Il sole moriva dietro la collina. Le macchie arancioni si spostavano ora lentamente verso gli stucchi e gli affreschi del soffitto con i quattro angeli in volo. La luce era spinta dall’arpa e dal flauto di L’Après-midi d’un faune. Mia moglie riempì nuovamente il secchio d’argento con i cubetti di ghiaccio e aprì una bottiglia di champagne come solo lei sapeva fare, senza alcun rumore, con il tappo avvolto in un tessuto corposo. Riempì la mia coppa e anche la sua, che offrì al gatto prima di portarsela alle labbra.
Ne bevvi un lungo sorso con gli occhi chiusi e lasciai cadere la testa all’indietro. La sua voce era suadente e morbida:
– Non dimentichiamo ciò che ci ha insegnato Montaigne: “Se non sapete morire, non preoccupatevene; la natura vi istruirà sul momento, in modo completo e sufficiente; essa compirà a puntino questa operazione per voi, non datevene voi la briga.”
Ascoltandola, Eine saltò sul tappeto e fece una sfilata in grande stile tra i nostri piedi, come se dovesse incarnare al nostro cospetto la natura guida dei morenti di cui parlava Montaigne. Proprio quella che ha ben conosciuto Flavio de Carvalho nell’unica volta in cui l’arte ha deciso veramente di fargli da guida.
(Racconto scritto direttamente in Italiano. In alto: opera di Maria Tommaselli)