Massimo Lencioni: Le scritte costano

 
Agosto era agli sgoccioli. Con esso la stagione, e i miei guadagni: fra un mese o anche meno sarei tornato su nelle colline a cacciare fagiani e a venderli la domenica, dopo il bracconaggio. Presto avrei dimenticato questo caldo d'inferno. Ma non per ora. Gli ombrelloni erano ancora tanti, aperti, poggiati come trottole, di sghembo, sulla spiaggia: uomini e sabbia invece sembravano sparire fusi nell'allucinazione. L'abbaglio liquido della terra alle undici si faceva insopportabile, più di uno dei miei colleghi aveva lasciato questo lavoro già ai primi di giugno, dopo pochi giorni: l'ultimo, lo scorso lunedì, Mario, rientrando alla fine del turno del pomeriggio, gli occhi arrossati dal sole e dalla febbre della rabbia, era inciampato sulla soglia dell'ufficio sacrando e strappandosi di dosso la tuta di servizio. Minacciò di far saltare la compagnia se non gli avessero accordato la causa di servizio. Mario era stato assunto in fretta, negli ultimi tempi, dopo le troppe defezioni: ma era un miope di quelli irrecuperabili, con due fondi di bottiglia sugli occhietti da topo. E soprattutto un disgraziato dell'ultima ora: la sera, al circolo della darsena, lo vedevi specchiarsi nel bicchiere, vetro contro vetro, a far chiacchiera tra sé e sé, tra i suoi occhiali e la boccia del bianchetto "della casa", un'acquaragia bagnata nel vino. La decimazione, tra di noi, era pesante: rimanevano in ballo i più giovani e i più ciechi, meno sensibili alla tentazione di guardare e alle ferite dell'abbaglio. Mario, ad esempio, era segnato per natura, con quelle lenti fatte per vederci, giù, tra la gente e le macchine, per aria il sole diventava un tuono uno scampanio muto che, ficcandosi su per le congiuntive, s'installava alle tempie e cominciava a martellare. Ma anche accorgimenti diversi, applicati a una buona vista, non davano migliori risultati. Ci fu Raffaele, che un giorno se ne venne agli spogliatoi tutto convinto, la camicia spampanata sul petto, il cristo d'oro infrascato tra i peli, ma, questa volta, schierati sulla fronte come un automobilista delle corse, un paio di Lozza neri fiammanti. Lui era quello capace di spendere mezzo stipendio per due mocassini di vitello, morbidi come le guance d'un bimbo; si tirava dietro gli sbeffeggi, un po' invidiosi, della compagnia. Ma quella volta ci lasciò allibiti, muti ma anche ammirati: sembrava di vedere un pilota, o un cantante di rock'n'roll. Però anche lui, la sua corsa la perse: fu licenziato dopo che, per tre giorni, aveva continuato a sbagliare percorso, tornando indietro prima del tempo. E' che con gli occhiali da sole, troppo tinti, si perdeva la sfumatura dei colori degli stabilimenti, tutto s'ingrigiva in una specie di pomeriggio notturno. Più d'uno era rimasto fregato da quella manovra a volo di farfalla che dovevamo ripetere, giro dopo giro, per ogni bagno del lido: una lenta piroetta e ci si gira indietro, come una canina che sculetti e, preso l'osso, lo riporti lesta al padrone. Così, ad ogni nuovo giro, si andava fino al bagno dopo, si sculettava un po', la coda con la scritta danzava ruffiana sul naso della gente, e si tornava indietro. E poi daccapo. Sedici bagni. Era difficile rinvenirsi e non saltarne mai uno. Io però, col tempo, trovai un mio trucco, e stavo bene attento la sera, al circolo, a non lasciarmelo scappare tra le bevute, quando c'erano i compagni. Come si dice, nel lavoro, tutti per uno e ognuno per nessuno. In tutta la darsena, lo sapeva solo Annalia, la lavapiatti di quel ristorante dal nome di bestemmia, Il dioscuro, così chiamato dal padrone che, da quando aveva un figlio al liceo, sparava ogni tanto un che di latinorum. Annalia ci lavava i piatti dove avevano mangiato soprattutto milanesi, gente che arrivava sempre con qualche bagascia conosciuta sul lungomare e sballottata un po' troppo in coperta: si capiva da quel riso grasso, con la bocca piena e le gambe scomposte, che circolava tra i tavoli, dai rossetti scivolati e frettolosi, lo sbuffo approssimato dei capelli. Annalia, lì, splendeva in cucina, come le stelle, fuori, sopra i cofani delle berline di quelli dentro, con la sua pelle bianca come non fosse una viareggina, i capelli tirati su per non cadere nell'acqua che liberavano quella nuca da mordere: diobono, come fanno i gatti, quando si rivoltolano d'amore, non si sa se s'ammazzino o si vogliano bene. Insomma, lei la vedevo al circolo, sul tardi, e, non so, aveva un debole per me. Mi ammirava come un aviatore della prima guerra, quelli sui biplani con la sciarpetta e gli occhialoni (seppi che il padre le era morto durante un trasbordo con gli aviotrasportati); e poi mi vedeva come un privilegiato del progresso, del sapere merceologico, un angelo pubblicitario a cui le case davano il compito di annunciare al mondo i nuovi prodotti, il cosmetico per fare più morbidi i capelli, la polvere per rendere il pavimento uno specchio bello terso... Allora, a lei il trucco, eccitato dalla sua ingenua ammirazione e da qualche piccolo umido bacio che sapeva di limone, lo svelai con orgoglio una notte di giugno: ci trovammo soli, seduti sulla rena fresca, dopo la festa del Bagno Belmare, fui incoraggiato dal suo viso da bimba. Il mio trucco era: i pennarelli Carioca, quelli da sedici colori: tanti quanti quelli dei bagni dal molo al Dossetto, dove sbucava il canale nel mare e finiva il mio viaggio. Santocielo, quei pennarelli glieli vedevo sempre a Rina, la figliola del gestore del circolo, che ci scarabocchiava sul tavolo, messo lì apposta, da un lato della sala, perché le passasse il tempo che suo padre serviva al banco. Belli, lì, sedici come i maledetti bagni della darsena, e colorati come le brendane degli sdrai e degli ombrelloni. Così, ispirato dalla trovata, organizzai il mio segreto. Bastava seguire, di quando in quando, la serie dei bagni, staccando lo sguardo dal cielo davanti e dalla macchina, ed appuntare su un foglietto una lettera ciascuno, col pennarello dello stesso colore degli sdrai e dei parasole: in più, entusiasta del trucco, ne tirai fuori una degna degli inventori delle scritte che portavo per aria. Con sedici lettere scrivevo, alla fine, "anche oggi è finita". Una lettera per volta, una ogni giro, sedici in tutto a terminare il turno. Cercare là sotto nella nebbia di sole e sabbia del mezzogiorno il colore degli ombrelloni rinfrescava la vista e il cervello abbacinati dalla luce muta e monotona dell'estate e piegati dal rumore del motore. E la giornata passava prima, con quel grido di sfogo: anche oggi è finita. Annalia era felice. Da quando sapeva il mio trucco era ancora più orgogliosa di me. Diceva che sarei diventato uno scrittore di scritte anch'io, famoso, e che avrei sposato una milanese. Diceva così. Non diceva che ci saremmo sposati: era una di quelle donne modeste che, desiderando il meglio per te, ti amano così e non si mettono nel tuo futuro e nei tuoi sogni, perché sanno che non si avvererebbero che senza di loro.
Che segreto geniale il mio, che trucco. Mi faceva male il cuore. Il segreto ero io, con quella persona che mi portavo su, stretta nella carlinga. Quella, nemmeno Annalia mostrava di conoscerla, ignorando che la mia felicità sarebbe dipesa da lei. D'altra parte, come poteva sapere: lassù, quel mio corpo viveva in funzione della macchina, fuso con gli strumenti di bordo, un trabiccolo necessario a far correre l'aereo sulle nuvole. E una volta sceso a terra, le energie che avevo speso, violentemente, lassù, per resistere alla luce e al soffocamento, mi lasciavano addosso una specie di tremante spossatezza, come se le membra fossero ancora, esse stesse, tese al volo. Così, passava il tempo e formulavo piani circa il miglior tragitto, il minore sforzo, ma avevo dimenticato tutto di me, e soprattutto se avessi sogni. Annalia sognava per me, ma con fantasie che non erano mie. La carriera o la famiglia non erano, per me, che manifestazioni di una vita superflua, meno palpabile delle nubi che si sfilacciavano attorno alle Apuane mentre facevo il giro, una vita che cominciava, quasi per ischerzo, nelle culle in vimini dei padroni delle ditte come la nostra, e continuava sui fiocchi del mare aperto, sui cabinati che facevano la spola tra Portofino e le città di Francia, con l'indolenza con cui, a bordo, il ghiaccio, a ritmo dell'onda, batteva nel bicchiere di whisky. Io, tutt'al più, nel lavoro badavo a tenere la mia quota, così come il mio aereo; e non pensavo tanto a una famiglia, quanto a qualcosa di più semplice, a un amore di ragazzi, magari aperto pure a qualche figlio, che so, e anche alla vecchiaia, ma una cosa così, spontanea, senza complicazioni. La famiglia, il caos, regnava a terra, l'umanità appariva fusa e indistinta e ugualmente lontana da me, che le correvo parallelo, dritto davanti a me, come su un filo di ignoranza. L'unico tramite che ci legava, seppure in maniera fuggevole e provvisoria, era l'invenzione, la scritta, quel mondo di pubblicità grazie al quale io avevo un senso per loro ed essi per me. Anzi, lo stesso mare diveniva comprensibile, gonfio di movimento e di ciambelle in plastica, e quella gente biancastra, che tendeva a sparire nella sabbia, come delle intemperanze della spiaggia stessa, viste dall'alto, mi si rivelava come una frammentazione curiosa di esseri animati, simili a me, solo grazie a dei minuscoli pezzetti di colore che aderivano alle loro pelli, quali più quali meno: i costumi da bagno. Eppure, qualche cosa di insanabile, di profondo ma indifferente, indolore, ci separava. Le loro teste guardavano in su, ma non era me che guardavano. I nonni o le mamme indicavano ai bambini con il puntino di un dito la lunga coda che mi portavo dietro, la scritta del giorno. La grande banda colorata che ricordava un gelato o una bibita, per attimi copriva il sole e stampava la mia ombra ondulata sul lido, e allora anch'io vedevo, nei contorni, l'oggetto della loro sorpresa. Lassù, l'invenzione aveva fatto il suo miracolo, che segnava il mio destino: quelle ali fatte di latta, quel motore che ruminava con un fragore assordante carburante, aveva reso senza peso la carcassa di quella macchina e la mia stessa esistenza. Per Annalia, per la gente giù, e per me prima di loro, quella era una cosa che vagava per aria, insieme alla sua scritta, più volte, fino a diventare un ronzio cullante, una sordità ebete e accogliente, che annunciava la sera, la cena, il nulla. Il mio segreto mi aveva permesso di mantenere il lavoro, e mi aveva procurato anche una certa benevolenza dei proprietari, che si risolveva in un saluto paterno, al rientro, con una sigaretta porta sorridendo, come se fossero stati sicuri di mostrarmi una novità. E invece no, ah no, quell'invenzione ne aveva di anni: e tanti anni prima, fumavo persino, poi avevo smesso per i fastidi tipici dei fumatori, che si acuiscono con l'età e con l'altitudine. Non fumavo più. E poi quel gesto, ipocrita, mieloso, da puttaniere, mi dava ai nervi. Me lo portavo dietro per decine di minuti, per centinaia di metri, uscito dalla rimessa, come se avessi ricevuto una bastonata. Un pomeriggio, mentre me lo torcevo in petto, incontrai un marocchino che mi piantò uno di quei sorrisi deficienti e dissestati per farmi capire che gli dovevo comprare e che io, in tutto il lido, ero il prescelto dalla sua simpatia primitiva e libertaria: mi tirò fuori gli accendini. Non ce la feci più, gli gridai "brutta faccia di merda di cavallo", lui reagì urlando delle variazioni di "stronzo, ...razzista" e allora gli lasciai andare un paio di botte col casco d'ordinanza e me la filai che ancora sanguinava sul ciglio del viale a mare. Nemmeno allora la gente ci degnò d'uno sguardo: eppure c'era un gruppetto di persone alla fermata della circolare, proprio lì vicino, e poi il traffico delle macchine che andavano e venivano dai bagni era ancora sostenuto e abbastanza lento per seguire la scena. Ero esasperato, esaurito: qualunque cosa facessi era indifferente, senza variazioni sulla mia come sull'altrui vita. Finii per non frequentare che molto di rado il dopolavoro della darsena, e quelle poche volte che ci trovavo Annalia non riuscivo a scostarmi da un'immobilità scontrosa, che, nel suo silenzio ferito ma rassegnato e nella mia impotente ottusità, mi faceva ancora più male. Tutto ciò mi caricava di una disperazione cieca, violenta, fatta come di un amore andato a male, che mi capitò, qualche volta, di andare a sfogare sulla povera carne di qualche puttana della Costanza, che mi si faceva montare, nel silenzio caloroso della pineta, con la stessa impartecipe docilità della macchina che, arroventata, manovravo per aria. La macchina, l'invenzione, con la sua coda di messaggi per il mondo, era il mio destino: ero io stesso. Per lei, o per me, continuavo ad applicare, con metodica precisione, il mio trucco. Guardavo giù, la schiera ordinata del Giorgia, dagli sdrai gialli, e appuntavo la lettera del colore giusto. Poi guardavo dritto, attimi di biancume allucinante. La manovra della cagnetta, indietro tutta e daccapo. Poi giù, era la volta dell'Ippocampo, violaceo come le biciclette moderne, un po' snob: e segnavo, lettera e colore. Dritto, faccia al cielo, nulla e caldo, il sonno. La virata con la mossa, indietro lesto, daccapo. Poi giù di nuovo, spunta la bandierina assopita dalla bonaccia e, guardando più in basso, le fila in libertà, rosse, dell'Ester, bagno di prezzi modici e di lisci serali. E fino alla fine, sedici interminabili viaggi, la stessa sfilata di gabine e connessi. Segnavo la frase magica che mi chiudeva la giornata, permettendomi di passare indenne dal nulla stratiforme dell'aria al nulla compatto e buio della sera. Anche oggi è finita. Scendevo così dal cielo e tornavo, a terra, ciò che, già in cielo e grazie ad esso ero diventato, l'indistinto, il fratello dei passeggiatori tutti uguali, invisibile ad essi.
Se non altro, agosto stava finendo. Sarei tornato a sparare ai fagiani, in Lunigiana, e a venderli, il sabato e la domenica, ai turisti di passaggio con le auto, seminascosto dietro a un tornante frondoso del Bracco, come una di quelle che batte Migliarino. Lì, se non altro, aveva un senso quel mio affannarmi su per i pianori, tra le felci e i pini, puntare il cielo muto e buttargli addosso una scarica di pallini, per atterrare il fagiano che si è alzato. Lì i turisti compravano, e pagavano caro, e mi guardavano negli occhi, dopo aver tastato e valutato la massa rossastra e floscia del fagiano, pregandomi di abbassare il prezzo. Ma poi mi stancavo di fare quella faccia da padrone, mi bastava l'orgoglio del cacciatore, che si specchia nell'ammirazione interessata del compratore, nel cenno alla bestia, ammiccante l'oggetto di uno scambio, del forestale che mi sorprendeva. Erano gli ultimi viaggi per aria, quelli che facevo, gli ultimi nella mutua cecità tra il cielo, me, e la massa dei bagnanti a un centinaio di metri sotto. Ma un giorno, quasi al termine del giro, capitò il peggio. Uno dei pennarelli Carioca che usavo per appuntare il passaggio sopra un bagno si era asciugato per la calura dei giorni passati lì, nel forno della cabina, e mi accanivo a spiaccicare la punta sul foglio senza che facesse il minimo baffo di colore: gli attimi che passai a forzarlo per scrivere dovettero essere piuttosto lunghi, tanto che, abbassando lo sguardo a terra, vidi che avevo saltato già un paio di bagni. La disperazione, il pensiero del lavoro rovinato, l'errore dell'invenzione, mi colpirono alle tempie, con tutta la forza del sole del mezzogiorno, e calai giù, perdendo quota con un rombo cupo e montante. I miei ricordi sono confusi, perchè prima della botta ho perso conoscenza. Però ne ho uno, chiaro, brillante, inconfessabile come il sogno di un folle o di un convalescente, che non dimenticherò mai. Man mano che andavo giù, e mi avvicinavo al suolo, prima dell'impatto, ho visto, sempre più vicine, distinte, nelle loro pieghe, nei loro angoli, le facce inorridite, impotenti, dei bagnanti, con i loro occhi grandi, celesti, o scuri come nocciole, o verdi. E quelli, aperti, spalancati, guardavano proprio me, dritto nei miei, fino al botto. Agosto è finito. Ho avuto la causa di servizio, che il padrone mi ha dato senza difficoltà, con un sorriso paterno, tirando fino alla fine una delle sue sigarette, quando mi è venuto a trovare in ospedale. E poi è venuta Annalia, mi ha guardato con un altro sorriso, come si guarda uno che rimarrà per sempre disgraziato. Col tempo ha deciso che starà con me, e che ci sposeremo. Me l'ha detto all'orecchio, ridendo, improvvisando una frase come di cerimonia, accostando al suo, così bello, il mio nome per prova. Il mio nome. Diobono, anche il mio nome, a sentirlo così da una bocca di ragazza, non era poi poi male. Ho pensato che mia madre o mio padre, quel giorno, quando se la videro mettere sul brogliaccio dall'ufficiale comunale, la loro scritta, si fossero dimenticati di farsi pagare.

Rispondi

Il contenuto di questo campo è privato e non verrà mostrato pubblicamente.
  • Indirizzi web o e-mail vengono trasformati in link automaticamente
  • Tag HTML permessi: <a> <em> <strong> <cite> <code> <ul> <ol> <li> <dl> <dt> <dd>
  • Linee e paragrafi vanno a capo automaticamente.

Maggiori informazioni sulle opzioni di formattazione.