Dark0: Uomini e pecore, terza puntata

Sab, 03/20/2010 - 23:15

Dark0: Uomini e pecore, terza puntata

 

3.

Non so se vedere una bestia morta o una viva al fine dell'esperienza dello sguardo sia la stessa cosa.
Senza scadere in facili buonismi dell'ultim'ora: quando dicevo che io a trentatré anni non avevo mai visto una pecora prima d'ora, includevo nel computo totale le pecore morte o l'agnello al forno natalizio o il carré di agnello pasquale cucinato con gli aromi e le spezie?
Certo che no.
E infatti a pensarci bene questi non valgono. Vedere un pezzo di carne in un piatto che gronda sughetto sul contorno di patatine rosolate al rosmarino e tutto il parentado che sta compiendo l'ultimo – ma mai ultimo – brindisi per festeggiare la venuta del Santissimo, non è certo come vedere un agnello dal vivo. Tutto ciò è ancor più vero se l'agnello in questione non è direttamente riconoscibile.
Si perdoni l'arguto ossimoro, ma un agnello morto in un piatto non è certo come un agnello vivo in un pascolo.
Senza scomodare i massimi sistemi: qui si sta parlando di agnellini cotti e cucinati e pronti per essere serviti su tavole ben imbandite. Un agnello al forno può anche ricordare lontanamente un agnellino vivo e belante, ma in quella circostanza è pur sempre una portata. Sì, insomma, qualcosa da mangiare, non certo qualcosa da guardare.
Se poi penso a una pecora e non a un agnello le cose cambiano aspetto: come se ruotassero intorno ad un asse per presentarsi con la faccia che mai prima d'ora avrei preso in considerazione. L'agnello o – per i più sensibili di cuore – l'agnellino, è il cucciolo della pecora e quindi il fatto che stia, con la sua dolcezza e la sua carne tenera, aperto in due su un tavolaccio pronto a dare l'apporto nutritivo proteico a noi bestie senza cuore amici della buona tavola, è una visione accettabile nella misura in cui quel riconoscimento non sia immediato.
Mi spiego meglio.
Vedere un bel prosciutto fatto a fette non fa certo pensare a un maiale appeso per i piedi che gronda sangue dal collo, così come una colazione uova e bacon non fa venire certo in mente due feti gialli e dei pezzi di cadavere sparsi nel proprio piatto.
Certo che no.
Messo dentro una pentola e servito come si deve – cioè in maniera irriconoscibile – l'agnellino non è più già tanto -ino -ino, ma inizia a diventare un bell'agnello al forno. In questa metamorfosi semantica che va a braccetto con la dissezione minuziosa del capo ovino in vari pezzi, la questione “homaimangiatoiounapecora?” assume connotazioni nuove che lasciano pensare.
Se ammettessi per assurdo che io non ho mai mangiato una pecora, poiché è noto che “le pecore non si mangiano”, commetterei un grave errore di valutazione.
Per un astuto artificio linguistico, l'agnello, nient'altro non è che una bella pecorella non cresciuta ancora abbastanza (e dubito che crescerà in tali condizioni) per cui, la domanda corretta è: quante pecore avrò mangiato nella mia vita?
Tutto questo ragionamento per dire che tra le mie buone pecore mangiate e digerite e quelle contate prima di andare a dormire ora, quelle che vedo con la loro andatura dinoccolata passarmi davanti e dietro la Twingo, sono le prime vere. E mentre la natura srotola davanti a me il suo spettacolo faunistico sotto forma di un gregge lanoso giallino sul versante nord della Valle Stura, intuisco che la mia sosta forzata, sommata a ritardi accumulati nel tragitto, mi farà arrivare in catastrofico ritardo rispetto al mio programma di viaggio, nel luogo dove il Berlin ha deciso di convolare a nozze con Stella Manfredi. Realizzo, tuttavia, che mi trovo davanti a una visione primitiva nell'accezione più nobile e genetica che possa avere questa parola e mi viene un'irrefrenabile voglia di essere parte integrante di questa natura così esuberante.

Di ritornare a Lei come all'origine.
Di accogliere quest'abbraccio e farlo mio.

In poche parole mi viene voglia di toccare il dorso lanoso di una bella pecorella.
Lana che mai mi ricapiterà di toccare nella mia vita se non aprendo un armadio e riconoscendo al tocco che quel maglione a righe grigie e blu non sia un interessante mix chimico 50 e 50, ma solo, semplice, bianchissima e morbida, lana di pecora.
Così apro la portiera e scendo con passo da primo uomo sulla luna.
Il belare è il suono che la fa da padrone. È il suono della natura. Sto arrivando.
Allungo la mano verso una pecorella che è uguale alle altre cento, quando alle mie spalle sento una voce – non è una pecora – urlare qualcosa. Mi ritraggo e mi giro di scatto.
È un essere umano. Una donna.
Ed è viva, a scanso di equivoci.