L'importanza delle pulizie...e sette







7. Ermete Traversoni
I lampioncini del giardino illuminano di tutto il suo grigiore uniforme il cemento armato del villino bifamiliare di San Genesio e Uniti, alle porte di Pavia, dove Graziella Bovera vive con i suoi genitori dall'età di quattro anni.
Dal campanile della chiesa rintoccano le nove e mezza.
Il commissario indugia sul sedile della sua Regata verde pistacchio parcheggiata in cortile sotto il pergolato, dietro le due Mercedes 2000 crema dei genitori, identiche. Si accerta che il telefonino sia spento come al solito prima di infilarlo nella busta di plastica con due fascicoli che si è portata dall'ufficio. Per ritardare il momento dei saluti finge di soffermarsi sui progressi dei nuovi gerani piantati intorno al muretto del giardino.
Inspira profondamente due volte prima di abbandonare lo sguardo dalla desolazione di una fila di camion sulla Vigentina e trovare la forza di rincasare anche questa sera.
La madre le apre la porta con insinuazione raggiante: "Ecco la mia bambina!".
Il padre accorre giubilante porgendo alle sue donne il vassoio con tre calici e una bottiglia di bianco dell'Oltrepo: "Su, su dobbiamo brindare a Ermete!".
"Non mi avevate avvertito che si chiama Ermete!" protesta con la stessa foga, vana, di quando si lamentava dei posti in cui la portavano in villeggiatura da adolescente: sul Monte Penice d'inverno, dove non cadeva neanche per sbaglio un fiocco di neve, malgrado lo zio Italo le regalasse ogni Natale un nuovo paio di sci raccomandandole di non fare i fuori pista perché sono pericolosi; a Salice Terme d'estate, dove il mare se lo sognava sulle cartoline che riceveva in un albergo, sempre lo stesso, popolato di vecchi iperattivi che le riferivano con dovizia di particolari dei divertimenti balneari dei loro nipotini a Lavagna, Diana Marina, Belluria, Gabicce mare.
La madre è brusca nel cacciarle in mano il bicchiere, con tempismo impareggiabile il padre si premura di riempirlo di vino. "Bevi e vatti a cambiare che dovrebbe arrivare a minuti."
Appena entrata in camera non riesce a trattenere un breve pianto di singhiozzi che in pochi secondi la travolge con una tosse convulsa. Con grossi sospiri riassume a poco a poco il controllo della gola. Dal prurito che le intralcia il respiro è quasi certa dell'imminenza di una nuova tracheite, la quarta dall'inizio dell'anno. Ora non piange più, rimugina distesa sul letto fissando il soffitto bianco.
Quando mette su il broncio la Bovera assume le sembianze di un peluche lavato con la centrifuga e asciugato a violenti colpi di spazzola. La sua faccia oblunga, se possibile, si protende ulteriormente in una smorfia assorta nel vuoto. Dal collo cereo traversato dal rigonfiamento di una vena incolore fa capolino un ribobolo carnoso che se non fosse una donna saremmo autorizzati a chiamare pomo d'Adamo. I mazzi fibrosi di capelli si scompaginano in un patchwork architettonico da mettere i brividi a un nostalgico della pittura futurista. Se il broncio si eleva a una presa di coscienza sulle sue prospettive di felicità, una fitta stilla di goccioloni le squaglia la cipria in un pianto odoroso di phard.
Da alcuni secondi la madre sta bussando alla porta: "Tutto bene, Graziella?".
È già il panico da appuntamento, è ancora l'angoscia esistenziale o è la solita sindrome da genitori perfetti?
"Tutto bene?"
La Bovera raggiunge istintivamente con la mano il calcio della pistola. Agitando la testa riempie la stanza di una cascata di forfora. Nel puntare la pistola contro la voce della madre sibilante da dietro la porta si arrende all'evidenza dei fatti: "Sì, mamma. Solo un po' di tosse. Al commissariato c'è l'aria condizionata, te l'ho già detto. Se mi dai un quarto d'ora sono pronta".
Dopodiché comincia a mimare, e mimandoli li esegue, i preparativi che la madre origlia con fierezza materna. Si deve sbrigare se non vuole sentire il sussurro di fierezza paterna che tra poco si unirà in un incubo di cui non si sbarazzerà mai, se non si decide una buona volta a usare la pistola.
Ermete Traversoni ha trentott'anni e quattro mesi, è alto un metro e sessantasei ma senza il morbillo a dodici anni - peraltro l'unica malattia infettiva contratta - sarebbe potuto arrivare almeno a uno e settantuno, pesa ottantadue chilogrammi benché il suo peso forma si aggiri intorno ai sessantotto-sessantanove chili, non fuma, beve solo un bicchierin di Santa Maria La Versa frizzante per brindare a un buon affare, si è operato di tonsille e di adenoidi a tredici anni, di recente si è sottoposto agli annuali esami del sangue dai quali è risultata solo una leggera carenza di globuli rossi: "Ma sto facendo una cura ricostituente a base di ferro".
"Sano come un pesce del Naviglio!" si mangia l'apprezzamento la Bovera martoriandosi le unghie tra i denti famelici.
Tutte queste informazioni scorrono dalla bocca sgualcita di Ermete, che rivolge la tortuosità bruno-violacea delle gengive agli sguardi ammiratissimi di Gioia e Felice, mentre la Bovera è intenta a esaminare con l'indice sinistro la consistenza di un brufolo sottocutaneo all'attaccatura dell'orecchio.
"Hai sentito Graziella?" querula la madre per coinvolgerla nell'entusiasmo per la vendita di uno stock di sandali usati al Cottolengo di Milano.
"Considerato il numero dei malati in carrozzella proprio un affare d'oro!"
Il silenzio di imbarazzo è riempito dal passaggio di un'ambulanza.
"Speriamo che non sia niente di grave" ripete la sua formula di rito la signora Gioia.
"Allora, dove mi porti a mangiare?" prova a rimediare la Bovera.
"Ma cara" interviene la madre prendendosi tra le sue una mano accondiscendente del marito "è già tutto pronto di là in salotto. Siamo tuo padre e io che usciamo."
"Giusto a titolo d'informazione, ci lasciate anche la vostra camera da letto?"
Con prontezza inattesa Ermete si alza di scatto dalla sedia mostrando tutto il suo metro e sessantasei traballante di sconcerto. Si impappina a cercare lo sguardo più benevolo. Prima quello di Gioia piamente costernata. Poi quello di Felice un po' più fatalista. Mai quello sfrontato di Graziella, forse pentita di aver lasciato in camera la pistola, tra la sua collezione di Big Jim.
"Devo confessare di essere un po'..." Somiglia a Rondo quando arresta le parole sull'orlo di una definizione da estorcere al suo interlocutore.
"Imbarazzato?" lo imbecca la Bovera.
Senza degnarla di uno sguardo: "Più che altro scandalizzato!".
Gioia e Felice scuotono la testa. Non hanno avuto nemmeno il tempo di annunciare il menu della cena a base di pesce imbandita di là in salotto, da bagnare con un S. Maria La Versa frizzante del novantuno.
"Io non sono abituato a tanta impertinenza. Mi spiace sinceramente per voi, signora e signor Bovera, ma la signorina vostra figlia - anche se lavora nella polizia..."
"E questo cosa c'entra?" si indigna Graziella che al termine di una lotta a colpi di polpastrelli privi di unghie ha raschiato via una crosta dal mento.
"È tutto così..."
"Increscioso?"
"... sì, increscioso. So bene che i rapporti tra di voi, il mio compianto padre e la mia povera mamma, il bene che le fate, insomma..."
Gioia e Felice si scambiano un'occhiata d'intesa. Sanno come comportarsi in questi casi. Lo fanno a modo loro: la madre inizia, il padre porta a termine l'ordine.
"Qui non siamo in un distretto di polizia dove puoi trattare la gente come vuoi. E il povero Ermete non è un indiziato" chiarisce lei.
"Sì, le relazioni personali non sono come gli interrogatori. Forse è meglio che saluti il nostro ospite e vai a rifletterci su in camera tua" conclude lui.
"È tutto così increscioso" blatera almeno altre quattro volte Ermete.
Mentre la Bovera si avvia buona buona verso camera sua, senza però aver congedato il "loro" ospite, Felice completa la punizione: "Non ti spiace vero, caro Ermete, se al posto di nostra figlia cenassimo noi, Gioia e io, con te?".
"C'è un Santa Maria La Versa frizzante del novantuno" gli annuncia premurosa Gioia, che ha fretta di mettere a segno l'affondo prima che la figlia esca definitivamente dal salotto: "Così brindiamo al tuo affare con il Cottolengo."
La Bovera non fa a tempo a seguire la risposta di Ermete, comunque affermativa, a giudicare dal preambolo nasale di una risata interrotta da un singhiozzo involontario.
Sola, immelanconita nel suo fintochanel rosso con i pois crema senza abbastanza seta per coprirle le ginocchia ossute e le lunghe gambe magrissime, il commissario Bovera riprende a piangere in silenzio, attenta a fermarsi non appena gli occhi le si gonfiano di un rossore urticante, per evitare di presentarsi domani in ufficio con la sua celebre congiuntivite lacrimale.

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