L'importanza delle pulizie...e undici

 

11. Il cuore di un vitello
Sullo schermo giganteggia il muso di un vitello spaurito.
Nella semioscurità dell'aula Oreste si fa strada tra due ragazzi seduti a gambe incrociate sul pavimento. Sfiora la spalla di Scomazzon, si scusa: "Oh, è lei professore! Tanti saluti anche alla sua signora".
Un grugnito stizzito per risposta.
Il vitello emette un urlo straziante. Un impietoso totale segue gli ultimi scatti dell'agonia.
"Finalmente è uscito" bisbiglia Vanzegoni. "Allora vado?"
"Non ti preoccupare, te l'ho detto."
Dopo aver stretto la mano a Scomazzon, Vanzegoni sguscia fuori socchiudendo la porta con tutta la cautela del disertore.
Il vitello già squartato sul tavolo freddo di un laboratorio.
Scomazzon si guarda attorno. Come al Planetario. Al posto delle stelle, il cuore di vitello sezionato con un bisturi da due mani pelose.
Le gradinate in pendenza dell'aula di scienze pullulano di esclamazioni di disgusto e provocazioni dei meno schifiltosi. Sembra il tifo allo stadio prima di un calcio di rigore. Qui l'arbitro indossa un camice bianco.
I due ragazzi seduti sul pavimento vengono invitati dalla Goglio a prendere posto anche loro sulle seggioline. Riluttanti, obbediscono.
Scomazzon è solo davanti alla porta. Il divisorio delle gradinate lo nasconde alla vista degli studenti. Constatata la nitidezza delle immagini del nuovo videoproiettore, la Goglio sta salendo la scala delle gradinate: i suoi passi raggiungono le lamentele di una studentessa orripilata dall'abuso sugli animali. Si è accomodata vicino a lei e cerca di convincerla della liceità e dell'importanza della ricerca scientifica partendo dal concetto di progresso.
Come Oreste e Vanzegoni poco fa, Scomazzon sgattaiola fuori dall'aula. Il cervello infestato di calcoli, intrappolato nell'incognita della Verdelli con i fratelli Colorni in infermeria. Il corpo già in azione oltre gli imprevisti.
L'ascensore occupato. Il sole polveroso del pianerottolo vuoto. Giù dalle scale con passo regolare senza affaticare il fiato. Il silenzio che sale dal basso.
Il pianerottolo del primo piano: al di là della porta a vetri nessun movimento.
Una breve corsa e i primi sospiri per raggiungere la porta dell'Aula Magna. La chiave tremante che non gira, non gira. Gira di colpo: è già ingombrante per le mani che non sanno dove metterla, alla fine la cacciano nel taschino interno della giacca.
Il punteruolo lo aspetta al piano di sopra: rallenta volutamente l'andatura con cui salire le scalette di legno, come irrigidito dallo scricchiolio sbucato dal vuoto di un'apnea dei sensi. È lì, avvoltolato in piedi in un canovaccio con le paperelle, dove l'ha messo stamattina durante l'intervallo, appoggiato allo stipite della porticina del passaggio segreto.
Il professor Scomazzon si ferma, conta dieci secondi: sa che fino alla fine non potrà fermarsi più.
Il corridoio è un incunabolo di rifiuti accatastati a casaccio. Per due volte si abbassa di colpo per evitare un'asse stesa di traverso tra due costruzioni traballanti di banchi e per schivare all'ultimo l'asta di una bandiera pendente giù da un busto di Mussolini crepato sul muro. Quando saltando urta di striscio la macchina da cucire Singer ripensa alla strafottenza con cui Alfredo consegna i compiti in classe.
Non ha tempo di perlustrare alla sua destra: una nicchia dove ripiega una diramazione del corridoio. Il compensato di una vecchia urna elettorale gli nega la visuale. Si limita a una guardata in corsa.  E procede.
Procede fino a che una porta gli sbarra il passo. Al di là, la sala d'arte: i passi dell'uomo in frac formicolano sordi sulle assi pencolanti del parquet.
Il punteruolo scivola sotto il canovaccio stretto nella mano destra. Senza riflettere Scomazzon appallottola il canovaccio nella tasca interna della giacca. Il gonfiore della tasca lo costringe a slacciarsi i bottoni. La presa della sbarra adesso è salda.
L'uomo in frac canticchia: tanti la-la-la forzati fuori come affanni d'impazienza. Dal suono dei passi si è allontanato dalla porta.
Adesso: Scomazzon lo vede per primo entrando nella sala d'arte alle sue spalle.
"Chi è lei? Cosa vuole?" si allarma subito l'uomo in frac, incapace di trasmettere la paura ai centri motori del cervello.
Rimane immobile e ripete le stesse domande mentre Scomazzon gli si avvicina misurando passi brevissimi: "Chi è lei? Cosa vuole?".
Non chiede aiuto, lo guarda avvicinarsi: "Chi è lei? Cosa vuole?", ripetitivo anche nella paura.
Scomazzon vorrebbe rispondergli, rallenta anche i passi, è tentato dal concedergli la possibilità di fuga: intanto ha già alzato il punteruolo.
L'uomo in frac rimane incredulo fino all'ultimo, solo quando la lama gli passa trasversalmente dall'alto verso il basso il fegato ha uno scatto. Uno scatto in avanti, che favorisce la pressione della lama esercitata con sorprendente sforzo da Scomazzon. Che ansima all'unisono con la vittima.
Ci vuole un minuto prima che il colpo affondi completamente. E il latrato comune si separi: da una parte l'asfissia sofferente dell'uomo in frac che abbassa lo sguardo verso l'esplosione di odore che prende a gocciare un liquido scuro; dall'altra il singulto di fatica con cui Scomazzon estrae il punteruolo.
"Aiuto" chiede finalmente l'uomo in frac. Senza il sostegno del punteruolo neanche barcolla: scivola accasciandosi all'indietro sulle assi incurvate del parquet. Solo un tonfo, seguito da un sommesso rantolare senza più parole.
Scomazzon pulisce con il canovaccio il punteruolo scuro di visceri. Ogni tanto controlla il progredire della macchia quasi bluastra che si addensa in una pozza liquescente sul parquet. I mocassini neri ancora intatti dalla lenta avanzata del sangue, la tentazione di schiacciarci sotto le mani grassocce, farneticanti in aria fino a pochi minuti fa e ora ridotte a tremiti senza via di scampo.
È meticoloso nel passare in rassegna la sala d'arte. Cerca di inculcare nella memoria la visione più precisa possibile della scena del delitto. Nota incuriosito il prototipo in miniatura di una ghigliottina posta sopra una credenza a vetri con dei modellini di animali preistorici assiepati sugli scaffali oltre le vetrine impolverate. Si sofferma su una vecchia fotografia di piazza della Scala trafficata di carrozze. È quasi stupito alla vista delle due Germanie con colori diversi sulla carta geografica appesa al muro un metro sopra il frac sgualcito del moribondo.
Poi lo sguardo si fa frenetico. Una lavagna, degli scatoloni di cartone semiaperti, un orologio da muro con la calotta di vetro scheggiata sopra un banco con due gambe appoggiato alla parete, strane costruzioni, tanti modellini, altri oggetti, oggetti dappertutto, oggetti rotti. E la finestra sprangata dalle assi di legno dove si interrompe lo sguardo.
Ha solo un brivido: persino nella sua agonia l'uomo in frac se ne accorge, rianimato da una speranza istantanea, già scomparsa quando Scomazzon sospira alla vista dei guanti da cucina gialli che non ricorda - e non ricorderà più - a che punto del percorso si è infilato.
Il sollievo dura poco, il tempo di assistere allo sforzo disperato di pronunciare una parola da parte dell'uomo in frac, quasi implorante nello spasimo catarroso seguito dall'impercettibile assestamento laterale della bocca, che non si è chiusa, da cui cola una bava di spuma.
Scomazzon indietreggia assistendo agli ultimi respiri: fischi asfittici, catarrosi. Indietreggia cercando con le palme delle mani l'appoggio della porticina da cui è entrato. La foga lo sta disorientando, incapace di distogliere gli occhi dal moribondo: i capelli grassi di gelatina appiccicati sulla fronte bianchissima.
Indietreggia a tentoni e quando sta per girarsi è troppo tardi per evitare di franare su una gigantesca Torre Eiffel. Fa appena in tempo a riconoscerla prima che un frastuono di metallo la mandi in aria in uno scombussolio di tubi.
Anche adesso che il frastuono è un silenzio scosso da tintinnii di assestamento se li sente addosso, decine e decine di tubi: il primo che sfila è schiacciato sotto la nuca, come anestetizzata dall'impatto col pavimento.
Con un movimento faticoso, facendo leva sulle braccia si rialza. Altri tubi che gli rotolano attorno. Guarda ciò che resta della Torre Eiffel: tutti tubi, uno uguale all'altro, indistinguibili.
Raccoglie tutta la sua lucidità prima di individuare il punteruolo in mezzo ai cumuli di tubi. Si gualcisce frettolosamente il vestito. Avverte una fitta improvvisa alla fronte come se il cervello premesse all'infuori con tutta la spinta di un movimento centrifugo. Non può più restare.
Il percorso del corridoio è uguale a prima, le mosse mentali sono diverse: la fretta di uscire dall'Aula Magna, percorrere il più velocemente possibile il corridoio del primo piano fino alla porta a vetri che dà sul pianerottolo delle scale, salirle fino al quinto piano, rientrare di soppiatto nel buio dell'aula di scienze, approfittare della mezz'ora rimasta di proiezione per recuperare il battito cardiaco, ritrovare il respiro regolare, asciugarsi dal sudore che gli sta gelando le tempie, appiattire per benino sotto i libri nella borsa il canovaccio intriso di sangue e chissà cos'altro: il tutto sperando che la Verdelli sia riuscita suo malgrado a trattenere i Colorni in infermeria e la dottoressa abbia creduto alla sceneggiata di Bianca sottoponendola a una visita più accurata. Troppe variabili estranee al suo controllo per un delitto perfetto, pensa complimentandosi con la propria capacità di corsa: solo cinque minuti più tardi e sarebbe incappato nella doppia entrata, distanziata da poco più di un minuto, di Vanzegoni e Oreste, e dal successivo arrivo della Verdelli che affacciando la testa riccioluta nell'aula di scienze gli cerca nello sguardo un segno di scusa.
"Tutto bene?"
"Sì, perché?" accentua lo stupore Scomazzon, senza smettere di fissare sullo schermo il ventricolo destro del vitello pizzicato dal bisturi con una delicatezza che gli sembra tanto efferata.

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