Julio Monteiro Martins: Coraggio

Mer, 08/06/2008 - 08:40

Julio Monteiro Martins: Coraggio

 


Coraggio (1998)
Il ragazzo cercava di seguire il ritmo dei miei passi e, allo stesso tempo, di bisbigliare le sue giustificazioni, mentre io mi allontanavo rapidamente dall’edificio dell’università per una delle strade laterali che portavano alla stazione della metro. Si era offerto di aiutarmi con i libri e le cartelle mentre mi accompagnava, ma non avevo accettato per non dargli modo di seguirmi per tutto il tragitto. Anche se aveva lasciato intendere che trai suoi colleghi era il leader, in quel momento pareva modesto, quasi in soggezione, e  esponeva le sue argomentazioni con voce soffiata, strozzata dalla postura a testa bassa che le circostanze gli imponevano.
– Immagino che sia rimasto deluso dal nostro silenzio. E non che non abbia ragione. E’ che noi abbiamo ancora molta paura di quella donna...
– Per prima cosa, sai benissimo che non mi piace che mi diano del “lei”– risposi a voce bassa, cercando di contenere la mia irritazione– Seconda cosa, tu torni immediatamente in Facoltà e dici ai tuoi colleghi che ci vuole una manifestazione esplicita di appoggio. Esplicita, chiara, a voce alta, anzi molto alta, capisci? Altrimenti me ne tiro fuori, tutto questo sta assorbendo le mie energie e mettendo a rischio il mio posto di lavoro. Hai capito bene o vuoi che te lo ripeta?
– Io ho capito. Ma il problema è che gli altri hanno paura. Soprattutto i più giovani...
– Bene, ora lo sai, se continuerete a fare i codardi io non potrò fare più nulla. E voi non troverete mai più una persona influente disposta ad affrontarla apertamente. Quindi non sprecate quest’opportunità. Potrebbe essere l’ultima. Ora, se non ti dispiace, preferirei proseguire da solo. Ho altre cose a cui pensare.
– Va bene... vado... a domani, professore...
– A domani, alle dieci e mezzo in punto. O tutto o niente. Posso davvero contare su di voi?
– Vedremo professore... Speriamo bene...
Alle otto e mezzo del mattino mi svegliò una telefonata di Magda, una mia collega, la decana del Dipartimento. Ci misi un po’ per capire quello che mi diceva, con la sua voce rauca per l’età avanzata, interrotta dal respiro ansimante che la tensione e l’ansia provocavano. Come mai Magda era così nervosa? E cosa voleva da me? Saltai giù dal letto con il cuore in gola dopo aver decifrato il motivo della sua chiamata: Magda, informata nel dettaglio di quello che stava succedendo in Facoltà e presa da un’indignazione e da un coraggio che mancavano ai suoi colleghi più giovani,  si offriva di venire a protestare al mio fianco in quel giorno decisivo. Con la presenza rispettabile della professoressa Magda le cose avrebbero potuto prendere un’altra piega. Per lo meno i suoi allievi, che la ammiravano tanto, si sarebbero sentiti più incoraggiati. Ovviamente accettai prontamente il suo appoggio e mi offrii di passarla a prendere a casa. Lei preferì incontrarmi un’ora dopo alla stazione della metro vicina all’università. Riattaccai ed entrai in bagno con spirito rinnovato, fiducioso, quasi euforico.
Poco dopo le nove e mezza avvistai la figura smilza di Magda, adornata dalla sua chioma bianca come un’aureola, che le conferiva un aspetto di saggia santità. Ma, nell’avvicinarmi, notai subito lo stato di tensione acuta in cui si trovava quella mattina e che già traspariva dalla sua telefonata. Balbettava ogni volta che cercava di iniziare un discorso e le sue mani tremavano così violentemente che era inutile cercare di mascherarlo sfregandole l’una contro l’altra o nascondendole nelle tasche della giacca del suo tailleur di lino bianco.
Come accade di solito in questi casi, il fatto che Magda balbettasse dal nervosismo la rendeva ancora più nervosa e, per interrompere questo meccanismo, iniziai a raccontare nei dettagli la conversazione che avevo avuto con lo studente il pomeriggio prima. Così Magda smise di parlare per ascoltarmi e pareva che stesse ritrovando il suo centro quando, attraversando il viale che separa il parco dal campus universitario, un enorme camion giallo passò con il rosso ad alta velocità e si diresse senza controllo verso di noi. Magda vedendolo tentò di correre in preda al panico, ma io la tirai con forza e la spinsi sul marciapiede. Il camion passò a meno di un metro dai nostri corpi a terra e Magda sarebbe certamente morta, se non fosse stato per la prontezza dei miei riflessi.
Restammo entrambi scioccati, trattenendo il respiro, seduti sul marciapiede, circondati da alcuni curiosi che ci guardavano sorpresi, tra loro alcuni studenti che ci avevano riconosciuto. Il tailleur bianco di Magda era tutto macchiato con grandi strisciate scure di asfalto e acqua sporca, strappato all’altezza del gomito. Ero spaventato dalla possibilità che le sue fragili ossa si fossero rotte e cercai di metterla in piedi, cosa che fu impossibile a causa del suo stato di choc, e non perché ci fossero fratture. Ma prima che io potessi dire una qualunque cosa, o chiedere aiuto, la donna già mi tirava la testa verso di lei, con le dita magre e forti conficcate nella nuca e, guardando dentro i miei occhi con i suoi iniettati di sangue e affogati nel panico e nella visione dell’inferno, mi parlò con una voce irriconoscibile, acuta e gutturale allo stesso tempo:
– Io non ci vado! Io non ci vado! Vai tu, figliolo. Lasciami qui. Io ho molta paura di lei... Io sono già vecchia... Mi farà fuori una volta per tutte...
Il suo volto livido e ridotto ad una grigia matassa di rughe era la più pura incarnazione di orrore che avessi mai visto fino ad allora. Dai suoi occhi scorrevano lacrime a fiumi e nella sua bocca appassita e serrata danzavano i pezzi della dentiera che si era rotta nell’incidente, il che rendeva le sue parole ancora più incomprensibili. Passai le dita su quella capigliatura bianca, trasformata ora in un batuffolo scompigliato e sporco, cercando di calmarla e confortarla dalla sua disperazione. Ma i miei sforzi erano inutili. La vecchietta sembrava aver incorporato il più sofferente e maltrattato degli spiriti e cercava di proteggersi nell’unico modo che le era possibile: rattrappendosi in posizione fetale sul marciapiede.
A quel punto controllai le mie condizioni. Eccetto qualche graffio, non ero ferito. Restai nel dubbio se dovevo soccorrere la mia vecchia collega o se dovevo adempiere la sua richiesta e affrontare la situazione critica che mi aspettava dall’altro lato della strada, nell’edificio dell’università.
Scelsi di affrontare la situazione, anche perchè non potevo fare altro per Magda, che i laureandi di Medicina stavano già accudendo. Così raccolsi i miei fogli sparpagliati per la strada, mi sistemai i vestiti come potevo, pur senza riuscire a liberarmi da un aspetto deteriorato e attraversai il viale, ormai meno sicuro delle mie possibilità e incerto sulla mia forza interiore. Ma avrei fatto quello che dovevo fare.
C’è paura e non essere dappertutto. Come non percepirli anche dentro di noi? La paura grida nel nostro intimo, ci fa accapponare la pelle, cambia la nostra temperatura corporea. A volte ci congela, a volte ci infuoca. Come negarlo se le nostre gambe non obbediscono più ai nostri ordini? Se i nostri ordini sono gli ordini di qualcun altro, che solo qualche minuto fa riconoscevamo come noi stessi?
Il silenzio unanime degli studenti la prima volta che l’ho sfidati, un silenzio liquido e pesante, mi ha riempito di paura. Sentii che mi davano in pasto alla belva, come certe tribù che sacrificano vergini buttandole nel cratere di un vulcano per placare l’ira dei loro dei. E per un attimo li odiai perchè idolatravano il dio sbagliato. Ma no. Loro non mi avevano abbandonato o usato come capro-espiatorio. Erano solo spaventati, immobilizzati alla sua vista.
Ogni volta che entravo nel bagno non volevo più lasciare il conforto e la sicurezza offerta dal suo isolamento. Quella era paura. E quando acceleravo il passo, allontanandomi dall’università, o mi tiravo la coperta sopra la testa, o mi tagliavo facendomi la barba la mattina, anche quella era paura. E ciò che provai nel vedere il muso del camion giallo, gli occhi rossi di Magda e la sua bocca orrida piena di cocci e detriti fu un incubo che non potrò mai dimenticare e che tornerà nel sonno, nei campanelli, nei denti e nel giallo. Tornerà sempre.
Ma in nessun momento lasciai intuire la mia paura e io stesso evitai di esserne troppo cosciente. Riuscii a custodirla come un sentimento confidenziale, come un segreto di guerra e così trasmisi fiducia a tutti quelli che mi circondavano, che credevano nella mia forza e ammiravano il mio coraggio. Fu così, nascondendo il mio nocciolo di paura e lasciando trasparire calma e sicurezza da ogni gesto, che attraversai quella strada, varcai l’ingresso e salii la scalinata, alle dieci e mezzo di quella mattina, in direzione della sala colma di studenti nella quale lei stava esercitando il suo imperio incontrastato.
Ma in mezzo alla prima rampa, una ragazza che stava scendendo velocemente mi venne addosso e, facendo cadere libri e quaderni, mi deconcentrò per un attimo. Mi chinai ad aiutarla e mi accorsi che la ragazza imbranata era Vania, la mia figlia adolescente. Rimasi ancora più confuso: Vania viveva solo con la madre da quando me ne ero andato di casa lasciandola che aveva solo tre anni, ci vedevamo raramente. L’ultima volta fu circa sei mesi fa. E poi, Vania non studiava in questa università, né in nessun’altra. Aveva solo quindici anni e aveva appena iniziato le superiori. Che cosa ci faceva lì, proprio in quel momento?
– Papà. Ho fatto un casino, vero?
– E tu che ci fai qui?
– Il mio ragazzo studia qui. È anche un tuo alunno. Sono venuta a dargli sostegno morale.
– Sostegno?
– Eh sì. E avrei bisogno di parlare con te proprio di questo. Vieni. Andiamo in mensa che mi offri una coca-cola...
– Vania!...
Lei mi agguantò per il braccio con la mano libera e mi trascinò giù per le scale verso la mensa dall’altra parte del cortile. L’energia del suo sguardo, così deciso e simile al mio mi avvolse e mi tolse le forze. Io la seguivo indebolito e stordito come uno zombi che, tornato dall’aldilà, non  trova nessuna traccia degli esseri viventi. Uno zombi due volte ingannato: dalla morte e dalla resurrezione.
Quale potere aveva quella ragazzina, mia figlia Vania? Un potere che mi lasciava inerte, rimbambito, nel momento cruciale. Era forse il potere del legame di sangue? O il potere comune a tutti coloro che sono stati abbandonati? Nonostante l’intenso sentimento d’urgenza e i minuti che correvano via, i miei muscoli erano rilassati. Chiedemmo due coche alla signora del bar e Vania mi passò le dita tra i capelli, in un inedito slancio d’affetto, mentre mi fissava con il suo sguardo adulto e anestetico.
– Papà, sono venuta qui perché non voglio che tu litighi con lei. Il mio ragazzo è Valter, uno alto, con i baffi biondi.
– So chi è.
– Valter sta lavorando per lei. Se ti immischi in questa storia, comprometterai la sua carriera e, di conseguenza, la mia vita. Dai papi, resta qui con me e lascia perdere questa faccenda...
– Non posso, Vania.
– Certo che puoi.
– No ormai è troppo tardi.
– Ma che tardi e tardi, Papà!
– Chi ti ha mandata qui?
– Cosa? Non mi ha mandato nessuno... Sono venuta per dare sostegno morale a Valter...
– Scusami...– mi allontanai dalle sue mani di piuma e mi diressi a grandi passi verso le scale.
– Papà! Fermati, papà! – e le piume diventarono forti artigli che mi tiravano indietro. Mi concentrai e mi buttai in avanti, liberandomi da quelle manette di muscoli e sangue e corsi, corsi senza guardare indietro, sentendo le grida di Vania che mi accusava nuovamente di abbandono, corsi sudando, con i movimenti trattenuti, arrugginiti dalle mie colpe, bloccati dalla paura e più correvo e salivo, più sentivo il coraggio tornare e salirmi per il corpo come un brivido caldo, un bruciore dolce e frizzante.
La possibilità (il desiderio) di morire da eroe, di essere ucciso dal più forte e di succhiargli così la forza, di essere coperto dal nero manto di una notte infinita, di una curva perfetta, tutto questo è straordinariamente eccitante. La Bella Morte è l’ultima fonte di senso in un mondo in cui quello che non vuole più essere solido non trova un’aria decente in cui sciogliersi.
Ed io andavo ad affrontarla. Ora con gioia. Nonostante il silenzio dei miei alleati, le maschere dei traditori, il camion giallo, i denti di Magda e il vendersi di Vania. Nonostante. O a causa di. Aprii la porta della sala con le spalle dritte e la testa alta. Uccidere o morire era lo stesso, entrambe le cose mi avrebbero reso più forte.
Ma lei non era più là. Avrei dovuto immaginarlo. Era fuggita, scomparsa, si era volatilizzata, dopo aver fatto di tutto per fermarmi. E, presagendo l’avvicinamento del mio ululante coraggio, evitò vigliaccamente il confronto. Non c’era più alcun segno di lei nell’università e gli studenti mi applaudivano in piedi nell’auditorium senza che avessi dovuto dire una sola parola. Sorridevano tutti, sollevati, allegri, fiduciosi e pronti per festeggiare. Erano tutti intorno a me, ognuno un figliol prodigo. Io avevo vinto in vita proprio perchè non avevo avuto paura della sottile linea divisoria che mi risparmiò di vincere nella morte. Perchè avrei vinto in ogni modo, vinsi. Perchè non c’è un altro modo di vincere. Perchè non si vince con una possibilità, anche se remota, di sconfitta. Perchè la sconfitta può passare anche da un sol spiraglio. Siccome la sconfitta non ebbe da dove passare, io vinsi.
Il camion giallo si portò via ciò che c’era di bello in Magda. Sospetto che i baffi biondi di Valter si siano portati via ciò che c’era di puro in Vania. Tutto a causa di un potere diffuso e maligno che potei  evitare, ma che seppi come combattere, rinnovando in me l’audacia e preservando nei miei alunni la fede.
(Traduzione dal portoghese dall’autore insieme ai suoi allievi dell’Università di Pisa Debora, Romina, Letizia, Elena Borgogni e Elena Moncini. In alto: dipinto di Maria Tommaselli)