Julio Monteiro Martins: Lo sparo

Mer, 07/16/2008 - 20:43

Julio Monteiro Martins: Lo sparo

Lo sparo (1988)

 

     Ser, y no saber nada, y ser sin rumbo cierto,
     Y el temor de haber sido y un futuro terror...
       
     Y el espanto seguro de estar mañana muerto,
     y sufrir por la vida y por la sombra y por

     lo que no conocemos y apenas sospechamos,
                      y la carne que tienta con sus frescos racimos
                      y la tumba que aguarda con sus  fúnebres ramos,
                      y no saber adónde vamos,
                      ni de dónde venimos... !
        
                                                                (Rubén Dario, Lo Fatal, in
                                                                Cantos de vida y esperanza)

 

L'odore. Quell'odore mi passa di nuovo vicino, circola intorno a me e se ne va. Da molti giorni vuoti quest'odore popola i miei spazi. A volte ricorda  il cuoio bruciato, a volte la muffa che esalano le scatole vecchie.
L'odore è l'ente invisibile che mi fa compagnia, mentre come me vaga patetico per i corridoi di quest' enorme appartamento. Quanti siamo qui dentro?
L'appartamento deserto era tutto ciò che mi restava dopo tante perdite materiali e umane. Ogni essere che si era allontanato dalla città o dall'esistenza, partendo per il proprio esilio magico e lasciandomi qui tutto solo, aveva portato con sé i propri oggetti personali. Dopo la somma dei cataclismi, erano rimasti più o meno il mio corpo, gli immobili, i mobili vivi, le manie e le malinconie.
La televisione sempre accesa in fondo alla sala era solo miraggio, colori, forme in movimento, nessun suono: paralume cangiante e cinestetico, neon domestico. Il telefono che lamentava chiamate sbagliate e difetti, il frigorifero colto da tremori febbrili, e i miei bisnonni, prigionieri delle cornici sulla parete, che si vendicavano dell'impotenza della morte scrutando con sguardo severo l'intimità dei discendenti attraverso una finestra aperta sul tempo.
C'era un grande armadio, e c'era una rivoltella carica dentro l'armadio, dietro le ante maestose. Misi la rivoltella nella cintola dei miei jeans e avanzai coraggiosamente per il sentiero dei corridoi. Mi addentrai  nella selva della cucina e del tinello. Guardai con diffidenza le bombole del gas ed estrassi la mia arma puntandola verso la pila in agguato nella stanza della lavatrice.
Aprii le ante di tutti gli armadi e la cesta dei panni sporchi, con l'arma che seguiva la direzione del mio sguardo. Niente da dichiarare. Decisi di lavarmi i denti di nuovo, senza sapere che il nemico si era nascosto in bagno. Mi spaventai quando lo vidi così vicino, mentre mi guardava con timore sopra il lavandino, mostruoso, schiumando tra i peli arruffati. Cercai di afferrare la rivoltella, ma lui fu più veloce e scomparve dalla mia vista.
Sapevo che se ne stava nascosto da qualche parte a preparare un' imboscata. Forse era complice dell'odore. Volevo soltanto informarlo che ero pronto per il duello finale. Posso aspettarlo. Mi siedo sul bidet e scrivo mentalmente un biglietto per la donna magnetica che mi aspetta impaziente in un punto del futuro:

 

Amore mio
Vorrei solo svegliarmi accanto a te e asfissiarmi tra le tue cosce. Coprire il viso con la maschera di peli pubici, il naso inumidito nelle tue mucose. E rimanere lì, ansimando, calmo, assorbendo le energie intime e ricaricando l'anima per svolgere con diligenza la stesura, la buffonata e le percentuali.
Vorrei svegliarmi prima e rimanere desto, per raccogliere altri dati, altre immagini sovrapposte, altri rumori e le quattro pareti che saranno utili come ingredienti per la vita più consistente del sonno. Voglio collezionare frammenti della città e minuti digitali e a quel punto, ormai intero e padrone di me, posso ricollocarli nei vari ordini del reale, dopo essermi addormentato. Sono tutti arcobaleni: visti da lontano così definiti, così decisamente curvi nelle loro fasce di colore, visti da vicino non c' è niente, non c' è mai stato, e qualunque cosa sembrasse esserci è già svanita nella sensazione di afa. Addormentato e sveglio, ma sempre assalito da fantasmi e allegorie.
Voglio aprire di nuovo le tue cosce e cercare vita con  la testa, cercare una maschera d' ossigeno tra i cuscini pelosi e appiccicaticci delle tue carni. Bacio il tuo volto e la tua bocca. Guardo il tuo viso che mi guarda. Momento sotto la campana di vetro. Siamo un verbo impersonale impiegato sempre al gerundio.
Le tue dita penetrano tra i capelli della mia nuca e tu avvicini il mio viso al tuo alito tiepido e carnoso. Sento un brivido strutturale che mi rilassa tutto in una volta. Sono completamente sfinito. Che ne sarà di me senza l'umido biberon? Benestare non è stare bene.
Ho dato un' occhiata al giornale di oggi. Ho preso una piccola cannuccia e ho sniffato i titoli a caratteri cubitali. Ho sfregato contro il viso le foto di guerra e ho leccato la cronaca mondana. Ero pronto per il massacro del giorno. Allora è piovuto sperma e non sono andato a lavoro.
La mia giornata è trascorsa così:

 

 

...  

 

 

fino al momento in cui hai morso la mia bocca, hai respirato tra i miei denti facendo rabbrividire di desiderio le mie pre-occupazioni tenendo i miei testicoli con dita leggere liberando l'odore sudato dell'inguine, mentre l'altra mano sfiorava le mie natiche. Sono rimasto lì sfinito sfinito sfinito molle stordito venendo fino a diventare ameba.
Ma da qui a poco, amore mio, sarò partorito dopo questa gravidanza di poche ore, e comincerò a sentire i ronzii di moscone, i clacson, il dolore non ben localizzato, l'intorpidito che palpita e formicola, riflessi inopportuni e caos neurovegetativo.
Passerò alcune ore scoordinate tese zoppe fra traumi di caselle da barrare, un cane rabbioso in un ascensore affollato e il cuore grattato dalle costole. Proverò a telefonarti e sentirò il  tu-tu-tu-tu-tu dei miei nervi occupati. Come se non fosse questa la logica del nostro carma. Del nostro pendolo astrologico.
Fino al momento in cui tu appari di nuovo e mi vieni a salvare, con la tua bocca umida di saliva fresca che soffia anima dentro il mio sistema. E io forse supplico:  - "Non mi risuscitare, per l'amor di Dio. Muoio di paura della vita..."

 

Mentre il biglietto scorreva nella mia immaginazione, l'odore mi venne vicino per qualche secondo, si fece più intenso e sparì. Aprii le finestre, volevo che se ne andasse. In fondo sapevo che da me voleva qualcosa di speciale, e che non mi avrebbe lasciato in pace se non l'avesse ottenuto.
Erano momenti difficili. La lucidità lasciava cicatrici. Mi sentivo un pezzo di carne pulsante, anonima. Un animale morente. Pensai di guardare qualche vecchia videocassetta con me che raccontavo storie divertenti, che facevo smorfie alla telecamera e che mi prendevo gioco del futuro. Chissà se guardando e riguardando le immagini, i gesti più definiti, le luci dello sguardo, sarei riuscito a ricomporre un' auto-immagine decente e a riprendermi antiche identità. Ma ciò che sarebbe apparso su quella tela sarebbero state le mummie di me stesso. Le marionette comandate da fili di emozioni imbalsamate. Non esisteva più nessun io. Solo registrazioni.
L'aria era sterile. C'era un deserto salato tra quelle pareti. Un cortisone invisibile spegneva a poco a poco i miei interruttori organici. Presi la rivoltella.
Dove sei? Fatti vedere! - gridai - Vieni! Fatti vedere ! - puntai l'arma da ogni parte, cercando qualcosa di assassinabile. Sentivo discussioni infiammate dentro la mia testa. Era come se tutte le persone che ero stato, e che ancora se ne stavano rintanate dentro di me, fossero entrate in scena  tutte allo stesso tempo. Il palco era piccolo e il caos aumentava. La moltitudine di identità sconnesse si fece prendere dal panico: si schiacciavano le une contro le altre, si calpestavano nel mio spirito, in cerca dell'uscita, dell'unica uscita. Premetti il grilletto.
Non sparai a niente e centrai tutto. Sentii l'odore della polvere da sparo, e le mie orecchie ronzavano. Misto alla polvere arrivò l'altro odore, quello che abitava lì, che mi avvolse, mi donò il respiro e mi calmò, e alla fine mi condusse verso la sala.
Illuminata dai getti colorati del cinescopio, una montagna di morti giaceva sopra il tappeto al centro della sala. Tutti lì: vittime del mio sparo.
Il monte doveva essere alto quasi due metri e come minimo conteneva circa cinquanta corpi. Fui preso da un sentimento di sublime che solo le sintesi perfette sono capaci di produrre. Davanti a me, concreto e voluminoso, il lato magico della morte.
Camminai intorno al monte di cadaveri. Li conoscevo tutti. C' erano, l'uno sull'altro, tutti coloro che in passato mi avevano obbligato ad amputazioni intime. Coloro che avevo ucciso dentro di me, dopo che se ne erano andati senza il biglietto di ritorno. Guardavo quelle facce con stupore. La mia casa custodiva tutti i miei morti. Mi sedetti in poltrona, davanti al mucchio di corpi, e mi abbandonai a quella vista, mentre mi passavano accanto altri odori, nuovi odori che, per il ritmo con cui si avvicendavano intorno a me, sembravano ballare un lento girotondo.
A quel punto arrivarono i rumori. Dal cuore di quella collina, soffocati dai corpi inerti, uscivano pianti, lamenti convulsi, singhiozzanti. Mi alzai e cercai di ascoltare attentamente. Non provenivano dai morti, ma dal monte stesso. C'erano altri esseri nascosti, prigionieri di quelle fredde carni. Bisognava liberarli.
Afferrandoli per le caviglie, cominciai a tirare via i corpi dalla sommità del mucchio e a sparpagliarli per tutta la sala, ad uno ad uno. Alcuni erano pesanti e li lasciavo lì vicino. Altri erano più leggeri, in generale donne e bambini, e li portavo in camera o li adagiavo l'uno sull'altro sul pavimento del bagno. I rumori diventavano sempre più intensi e definiti. Era il pianto di neonati prigionieri.
Il primo corpicino vivo apparve dopo che tirai via uno zio e una tata. Mi guardò un po' spaventato e cercò di alzarsi da terra appoggiandosi alla gamba della mia bisnonna, ma ricadde subito a sedere.
Continuai a tirare via i morti da sopra quei singhiozzi disperati e cominciarono ad apparire tanti e tanti neonati, alcuni che gattonavano per la sala, altri che provavano i primi passi. Alcuni piangevano ancora, altri sorridevano e uno di loro si succhiava il ditone del piede.
Erano tutti nudi e bene in carne e si sparpagliavano dal centro del monte come una nidiata di pulcini che ha rotto i gusci. Era divertente vederli lì, con quegli occhi curiosi e spalancati, mentre scrutavano tutto.
C'era un neonato che mi colpì particolarmente. Sembrava più spaventato degli altri e piangeva quasi fino a soffocare. Allungava le sue piccole braccia verso di me ed era chiaro che stesse facendo un grande sforzo per richiamare la mia attenzione. Andai da lui, facendo attenzione mentre camminavo tra gli altri corpicini, e lo presi tra le mie braccia. Smise subito di piangere. Lo cullai un po', sussurrandogli parole tenere, e mi sedetti in poltrona tenendolo in grembo. Il bebè allora si calmò del tutto. Cominciò a balbettare il suo linguaggio cifrato e a passare la sua manina sul mio viso, sui miei occhi. Fu allora che vidi i suoi occhi. Quegli occhi. Era là, in quello sguardo comunicativo, innegabile, lo specchio di una certa logica. Conoscevo quell'espressione. Conoscevo l'emozione dietro quell'espressione. Quel neonato ero io.
Mi ricordai di vecchie foto. Sentii la pelle. I gesti. Ero io il bebè che tornava tra le mie braccia. E ognuno di quei neonati era uno dei morti del monte, e tutti noi eravamo un solo monte e una sola moltitudine.
In quell'istante arrivarono tutti gli odori e mi circondarono. E io mi rilassai, con me stesso al sicuro tra le mie mani, e lasciai che tutte le forze interne ed esterne si fondessero dentro di me e si sistemassero in modo naturale, nella cripta e nella culla di me stesso.

(Traduzione di Elena Campani; in alto: un dipinto di Maria Tommaselli)