Andrea Cirolla: da Un carteggio e altre

Sab, 11/15/2008 - 17:10

Andrea Cirolla: da Un carteggio e altre

Carissimo Domenico,
questo è per farLe capire che il dottore, ogni tanto, risponde.

Le parole sono tutto quello che ha,
le sprecherebbe
se le lasciasse tornare
al dove da cui sono venute
(il cielo che mangiamo).
Perché così farebbe
chi fa male,
chi si rende partecipe
della sua colpa.

Invece.
Dovrebbe farle germogliare,
essere la bocca da cui cadono
e la fontanella sopra il capo
di un bambino sotterraneo.
Strano nome per una fonte
però. Non si attinge,
ci si spinge solo,
come in terra il seme,
ma è meninge
anche se appena in superficie,
in linea con le piante.
Anche lì crescono bene,
come i gigli anche le parole
maturano.

Peccato per quel bambino già vecchio:
per rimanere in tema
di purezza e candore
i capelli gli si sono già confusi,
gli si sono calati
tra quei fiori canuti.

Carissimo Domenico,
questa volta La voglio rassicurare. C’è forse una speranza per Lei. Ma La prego, collabori, non vada in giro a dire di essere pazzo. E soprattutto: non lo dica di me! Ho la mia professione da proteggere, e tutta una famiglia da  sfamare. Pensi ai miei figli, li pensi come piccoli uccelletti dal becco ad angolo piatto, smaniosi di fame. Ecco, pensi a loro. Intanto Le trascrivo le mie impressioni riguardo la Sua ultima lettera.

È salvo.
Così mi viene da pensare
quando mi viene a dire
che per Lei non ha senso,
ma proprio nessun senso,
il cerchio storto degli uccelli.
Ci girano sopra le teste,
forse ci fanno il censo
(se non un’aureola collettiva),
alcuni sostengono che c’entri qualcosa
la migrazione…
mi dice.

Da parte mia
non mi faccio certo complice,
non cerco una soluzione.
E anche Lei mi direbbe
che sarebbe come sparargli,
avvicinarli alla gravità.
Meglio guardarli da quaggiù
aggiunge
(intende dalla lavanderia
che sta sotto questa via),
meglio fermarsi
meglio raccogliersi in un'ansa di terra,
giocare a fare il seme,
vedere come viene fuori il fiore.

* * *

Sogna te ne prego
una casa molto alta
tutta bianca.
Fa’ che non ci sia neanche un’ombra,
che la luce non abbia angolazioni.
Che se la notte deve venire
non sia questione di luce,
ma solo questione di ore.
Quindi butta via le ore
perché nel sogno sono biglie
scolorite,
e tanto non siamo più bambini.
E mentre la sogni fammi scappare una lacrima,
dille di chiamare anche le altre,
anche i singhiozzi,
per diventare tutto rosso.
Ma non sogni.
Così devo sognare io,
così mi devo svegliare.

* * *

E se pensi a una talpa
cieca no
come una talpa,
pensala bene,
ma dentro una tana.
Con tanta luce
lei sotto cuce
una benda, una bandana.
Si copre gli occhi,
è un’α
privativa.

Perché le talpe sono così,
se una nasce e vede
non si sente a posto
con le altre,
vuole troppo bene,
si finge cieca.

Quando le talpe salutano
si strofinano col muso.
Proprio quella offre all’uso
uno strano attrito.
Le più furbe
e le più attente
scoprono un filo
che pende:
la bandana frastagliata.

Si commuovono.

E la pioggia
da pianto in roggia
fa luce e confonde,
è vera vista.

 

(In alto: "Piazza Dante", disegno di Stefano Acconci)

  1. Anonimo (non verificato) on Sab, 11/15/2008 - 18:13

    Queste poesie sono comparse sul numero 72/73/74 (690/692/694) Agosto-Dicembre 2007 di Paragone Letteratura.