Nicola Del Chiaro: Tre storie lungo il fiume

L’uomo sul fiume

Procedo lento in sella alla mia vecchia bici grigia sul lungofiume. Mi va ogni tanto di venire in questo posto. Soprattutto quando voglio stare un po’ solo con me o con il mio passato. Un campo, un albero, una curva del fiume o una spiaggetta sono stazioni di memoria.
Il movimento ciclico dei pedali accompagna la ricerca di un respiro di tranquillità, mentre ricordi, fantasie e domani si mischiano con aironi, colline, nuvole, gallinelle, pioppi, cavedani …
Subito dopo il rasaio, prima delle Cateratte, mi sorprende un uomo seduto sul tronco mozzo di un albero tagliato, ai margini della strada sterrata che segue l’argine.
La sua canottiera bianca evidenzia, sotto il capo grigio, spalle e braccia bruciate dal sole di orto. Scalzo, ha riposto in ordine le ciabatte vicino a sé.
Alle sue spalle un boschetto di pioppi e platani, a uno dei quali ha appoggiato la bicicletta, lo protegge dal sole.
Rivolto verso il fiume che scorre, non riesco però a vederlo in viso. Il corpo seduto, curvo in avanti, china il capo verso le mani poggiate sulle ginocchia, conserte.
Gabbiani silenziosi scivolano nell’aria seguendo pigri il letto del fiume.
Mi sembra di riconoscerlo: mi sembra Martino, un anziano del paese. Ma non ne sono sicuro: non lo vedo in viso.
Mi aspetto che, sentendo il rumore monotono della catena della mia bicicletta che struscia nel carter, alzi lo sguardo. Lo saluterei.
Invece, sembra che niente possa distrarlo da un abisso di pensieri. Le mani nodose stringono in una morsa la sua tormenta silenziosa mentre le rughe della fronte si incurvano nel doloroso sforzo di interrogarla.
Passo di fronte a lui come aria nella mia lenta pedalata verso le Cateratte.
Intanto l’acqua del fiume, giù in basso, scorre...

 

Il capanno sul fiume

Una mattina d’estate, di fine luglio, sto pedalando lungo il fiume. È una bella mattina in cui mi va di stare tranquillo, respirare e, in silenzio, osservare intorno.
Arrivato nel solito punto, presso la scogliera, vedo da lontano ancora lui, l’uomo sul fiume, Martino, che viene incontro in bicicletta. Anche lui mi vede.
Quando siamo ormai prossimi, alzo il capo per salutarlo e lui, pedalando via, a voce piena: “Buongiornoo!” prolungando la vocale finale come se potesse comprendere un discorso del tipo: “… ci incontriamo di nuovo … ti piace questo posto … o … stamani si sta bene …”
Sorpreso dal tono vigoroso di quel saluto, ripeto più forte il mio: “ Salve!” temendo che non l’abbia sentito, sommerso dalla propria voce.
Continuo verso il vecchio sbocco dell’Ozzeretto. Là mi fermo ad osservare i pesci. Nell’acqua ferma e trasparente si vedono dei cavedani che vagano lungo la riva. Qui una volta venni a pescare le carpe con G. anche se, mi sembra, non ne prendemmo nessuna. Alle spalle, nell’alveo interrato dell’Ozzeretto, tra le canne, G. un tempo aveva un capanno. Una mattina lo trovò bruciato. Disse che, probabilmente, erano stati quelli del paese vicino che andavano lì a caccia di beccacce. Ricordo che a dodici anni, sempre lì, G. ed io intuimmo che non sarei diventato cacciatore quando raccolsi un merlo colpito al volo, con un entusiasmo che svanì in stupore e poi in sofferenza mentre gli occhi dell’uccello si spengevano e il collo reclinava ciondolando.
Fino a circa quindici anni fa erano molti i cacciatori: soprattutto al capanno con i richiami ma anche a beccacce e fagiani con i segugi. Nei tavoli fumosi dei bar della zona, soprattutto il sabato pomeriggio, il vino e le carte erano sommersi dalle discussioni sulla caccia e dai commenti sugli attesi sfondoni di Cecco. Poi il tempo e le tasse hanno ridotto il numero dei cacciatori al chiamo e al volo e, mentre insieme ai ragazzi della mia generazione sudavamo e ci accanivamo sui campi di pallone, i tavoli fumosi sono rimasti pochi, e quasi messi in disparte, da una nuova generazione che preferisce trastullarsi con videogiochi e messaggini.
Solo le squadre di cinghialai sono ancora numerose, tanto che si fanno la guerra tra loro incendiandosi a vicenda fette di bosco per spingere la selvaggina verso la propria zona. Li incontro spesso tra novembre e gennaio quando vado in mountain bike sul Serra. Vestiti in mimetica intorno a fuochi improvvisati, o appostati lungo i sentieri con i walkie talkie, a me sembrano delle squadre di milizie bosniache e invece io a loro, mentre sfreccio nel bosco con la tuta colorata e quella strana bici, probabilmente faccio venire in mente un marziano rompiscatole.
Ragionando tra me e me su passato e presente, torno indietro. Penso di scambiare due parole con Martino. Lo vedo da lontano seduto nel solito punto, sulla ceppa di platano, al fresco. Quando arrivo vicino, però, mi accorgo che sta dormendo, con le spalle appoggiate ad un tronco e la testa leggermente chinata su un lato.
Passo oltre e, voltandomi, vedo che per un attimo ha aperto gli occhi e alzato il capo ma poi è tornato a sonnecchiare.

 

Parabole sul fiume

Verso fine agosto il tempo sembra fermo. L’estate ha detto ormai quello che aveva da dire ma ancora non si vedono segni di settembre.
Il fiume, come sempre, scorre giù in basso in una gara indifferente con il pedalare lento della mia bicicletta. A tratti gorgoglia, riluce tra la ghiaia biancastra dei rasai per poi tuffarsi in bozzi profondi. Le erbe alte ricoprono il primo argine di un odore penetrante e fresco.
È la terza volta che incontro Martino nel solito punto. Seduto all’ombra di un platano mi vede e mi saluta. Mi fermo: “Come va?”
Quasi sentisse la mia curiosità racconta: “Questa è la mia tappa …” e si sofferma sull’ultima parola, come se questa fosse la porta di un lungo percorso.
Provo a interpretarlo: “Eh sì, qui l’aria è buona …” Ma lui riprende : “… faccio il mio giro, prendo la via Pisana, … delle volte arrivo fino in Corea  … e poi mi fermo qui …”
Mi guardo intorno: il fiume sotto, le alte macchie di pioppi, il monte Prana e il Piglione in lontananza ma nitidi al di là del fiume. Continua a scorrere: “… ho più di ottanta anni …” e mi guarda aggrottando le rughe della fronte tra l’orgoglio e l’affanno.
Lo appoggio: “Un po’ di movimento fa bene: poco ma costante.” Annuisce con un accenno di compiacimento. “Buon proseguimento.” E riprendo fino alle Cateratte.
In prossimità delle Cateratte il fiume è profondo. Lì c’è un boschetto di acacie e di solito mi fermo alla loro ombra. Poi raccolgo uno o due sassi. Li scelgo bene: non troppo grossi, non troppo piccoli: la loro forma preferibilmente allungata, ovoidale deve stare comodamente tra medio, indice e pollice. Sento la sabbia fina di fiume che li ricopre tra le dita e il palmo della mano. Li pulisco: la polvere mi da un po’ fastidio ma non come quella dei gessi da lavagna. Respiro bene, con calma, miro e poi li scaglio a tutta forza in alto attraversando i rami più alti delle acacie, là dove tra le fronde si intravede uno sprazzo di cielo, facendogli compiere parabole molto strette. Ora mi fermo, con le braccia lungo i fianchi, ed aspetto che il sasso scenda, come se non fossi stato io a lanciarlo, fino a sentirlo fendere l’acqua con il tonfo del piombo lanciato da una lenza.
A volte ci sono pescatori sulla riva opposta e gioco a pensare cosa possano immaginare che sia, visto che  quel sasso non fa il solito rumore volgare del sasso gettato.
Il pensiero sale in alto con il sasso verso una parabola sempre più stretta, forse infinita … poi intuisce le forze, l’accelerazione, le tangenti, le equazioni, e mentre il sasso scende, il pensiero torna indietro al tempo della scuola quando detestavo la matematica, perché sul banchino vedevo solo fogli e numeri e le interrogazioni erano tese come interrogatori della Gestapo … e non mi invitavano ad osservare un sasso scagliato nel cielo.
Lascio i pesci e le acacie. Torno indietro, lentamente e rilassato per il pensiero guizzato via dove gli pareva. È quasi ora di mangiare e Martino ha lasciato la sua tappa e si sta allontanando a piedi spingendo la bici di lato. Lo vedo laggiù, sulla strada del lungofiume con le gambe un po’ arcuate che danno al passo un dondolare leggero, fino a scomparire dietro la curva dove una deviazione attraversa una fitta pioppeta e porta verso la strada di casa.

 

(Il fiume in questione è il Serchio, che bagna Lucca; tuttavia la foto in alto è stata scattata a Lido Po - Guastalla)

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