Un inedito di Paolo Morelli

Dom, 02/17/2008 - 21:37

Un inedito di Paolo Morelli

 


L'enigma dei topi e degli artisti che si allargano e restringono.
Tempo fa, qui al rione, i topi erano di meno ma più grossi, almeno del doppio o del triplo. Si mantenevano con il mattatoio comunale, che poi è stato smantellato. Però, visto che da anni vivevano alla grande, non avevano intenzione di andare all'avventura in qualche parte sconosciuta della città. I sorci, si sa, sono grigi e abitudinari.
Mi ricordo un concerto tenuto nell'area del mattatoio, subito dopo lo smantellamento. Forse per protesta, uscivano a centinaia dalle buche, fino sul palco, dando molto da fare al servizio d'ordine. Col tempo erano diventati sempre più voraci e indisponenti, in pieno giorno si muovevano in bande per il rione rodendo di tutto, perfino i circuiti elettrici delle automobili, tanto che decidevano di sterminarli.
Dopo vari tentativi senza esito, visto che ogni schiera rattosa ha la sua figura di assaggiatore, vittima sacrificale però anziana, la quale, come nelle cucine dei tiranni ha il compito di provare i pasti e morire se necessario, dopo vari tentativi dicevo, veniva presa la decisione di rivolgersi agli esperti americani.
Ed eccoli gli sterminatori arrivare una mattina presto, vestiti di nero e con gli occhiali scuri come fossero cantanti. Dalle valigette cacciano fuori i computer e in quarantott'ore hanno bella e pronta la soluzione: uno speciale gas potentissimo e un sistema di turata dei cunicoli estremamente sofisticato. Da americani non aspettano neanche il risultato: otturano tutto per bene, rilasciano il veleno definitivo raccomandandosi di lasciarlo agire almeno una settimana. Così viene fatto ed è a loro, agli sterminatori americani, che dobbiamo questa nuova razza di topi che ci affligge e fastidia attualmente: più piccoli certo, anche di un terzo o un quarto, ma dieci volte più numerosi.
Così va il mondo, si potrebbe dire, solo che un po' di tempo dopo New York s'era ritrovata infestata dai sorci, numerosissimi e di razza piccola, e il sindaco, di origini italiane, ha pensato bene di chiamare gli specialisti derattizzatori italiani per liberarsene. Quelli ci sono andati, una cinquantina si dice, con bagagli a non finire, pare che alcuni si siano portati dietro pure le chitarre. Sono stati lì oltre due mesi, elaborando dopo infinite discussioni un metodo coi formaggi avvelenati, così ora al di là dell'oceano si ritrovano molti topi di meno, ma più grossi del doppio, o del triplo, si dice, pantegane grosse come valigie, si ritrovano a New York.
Non si sa che morale trarre da fatti così. Però non si può fare a meno di notare che adesso qui al rione abitano molti artisti. Ce n'erano anche prima, ma erano pochi, affamati e grossi, e quelli sono morti. Le autorità cittadine venivano ad apporre le lapidi, che spesso erano rimosse per cancellare per sempre il ricordo della loro presenza al rione. Si veda per esempio quella dedicata alla scrittrice Maria Stronsi Viterbo, appesa, scoperta e tolta il giorno dopo dal panettiere che ha avuto la sfortuna di starle di sotto, e proprietario anche dell'appartamento per il quale l'enorme pigionante non pagava l'affitto da oltre due anni. Il panettiere sosteneva che era così pesante che aveva incrinato l'impiantito, che è poi il soffitto del forno, oltre al fatto che, forse per rabbia, per lo stomaco tappato o perché allergica al colore giallo, odiava perfino l'odore della pizza senza pomodoro.
Perché una volta si trattava di pochi artisti ma grassi così, spesso proprio giganteschi, magari difficili da digerire ma sazievoli, almeno erano pochi e resi grossi di stazza, io credo, dalla fame che si vede che sugli artisti fa un effetto diverso. Gonfi ma pochi come nuvole d'agosto.
Poi, quando la fame è cessata del tutto, si sono venuti a stabilire al rione tutti artisti. Sono arrivati perfino dall'estero, attirati si dice dal clima di spensieratezza, tanto che le persone normali si contano ormai sulle dita. Solo che sono quasi tutti di bassa statura e magri da non credere, un terzo o un quarto più piccoli rispetto a quelli di prima, nonostante le vettovaglie a bizzeffe.
Ora non voglio dare l'impressione di essere un conoscitore del mondo dell'arte, però mi sembra indubitabile che qualcosa di strano dev'essere successo, dopo l'arrivo delle vettovaglie. Dico addirittura che è un piacere vederli, all'ora dell'aperitivo cioè prima di cena, quando calano in piazza accompagnati dalle rispettive agenti, e comincia un cicaleggio che persino gli storni zittiscono impreparati. Perché prima si bevono tre o quattro aperitivi, poi, profittando che a quell'ora i ragazzini sono a casa a mangiare si gettano imperiti nel parco giochi, si danno pedate, litigano per la precedenza sullo scivolo e poi atterrano sulla pozzanghera infradiciandosi i pantaloni, zompano sui cavalli a dondolo, quelli con la molla, lamentandosi per le cervicali, calzano maglie numerate coi nomi dei calciatori litigando fin da prima della partita perché, sarà un caso, sia i numeri che i nomi sono gli stessi su tutte le maglie, e le agenti sono costrette a dipanare il groviglio con gran difficoltà. Sette risse, sette palle e sette partite contemporanee si intersecavano sulla piazza, le ho contate da un punto di osservazione sicuro. E poi i tornei di mosca cieca con un giovane talento che si perde e viene ritrovato in lacrime, tra i vicoli, dopo due ore; il gioco tremendo dello schiaffo dell'artista, con gli indiziati tutti dietro con facce da roditori e le biro alzate; le danzatrici che saltano a campana disturbate da torme di scrittori allupati per alzarci le gonne; un'attrice che ferma una macchina per un'informazione e la troupe s'attacca al parafango posteriore su pattini di nuova generazione; il girotondo dei pittori dopo aver deturpato i muri; i concerti per clacson a pompa, trombette e colli di bottiglie di prosecco; le scorribande in bici dei registi con premio le coppe-gelato; due soprano alte un metro a squarciagola sull'altalena; le fionde dei poeti che spaccano le vetrine...
Giuro che mi piacerebbe il tripudio, se non c'è niente da fare conviene prenderla con filosofia, e poi ormai mi sono rassegnato all'enigma insolubile di sorci e artisti che si allargano e restringono continuamente. La cagnara di questi ultimi metterebbe addirittura allegria, soprattutto perché a un certo punto le agenti li richiamano, non senza rincorse perché gli artisti, come i topi del resto, sono una razza ben cocciuta. Al pari dei sorci a me non creano problemi, a differenza degli abitanti del rione che spesso li vedo rischiare delle crisi di nervi. Resta il fatto che almeno gli uni quando avevano tanto da mangiare erano grandi, molto meno spiegabili sono i secondi che facevano la fame quando erano grossi, mentre ora che sono ben nutriti sono piccoli e magri. Questo almeno vedo traverso le pupille a fessura, ma sono sicuro di non sbagliare.
Forse fra breve tutte e due le razze torneranno a essere poco numerose e di grosse dimensioni, magari con l'arrivo di qualche sterminatore estero. Forse da un giorno all'altro si trasferiranno tutti insieme a New York, e gli abitanti del rione vivranno in pace.
Ma dove volevo arrivare è il caso di uno di questi artisti, tale Victor, un caso che almeno si può capire, per questo lo voglio raccontare.
Si tratta di quel milanese Victor che pretendeva che vigili e abitanti del rione considerassero come opera d'arte il fatto che lui ha fermato la sua macchina in mezzo alla strada, per quattro giorni. 'Aspettando il parcheggio' si chiamava l'opera secondo lui, quattro giorni in piedi accanto alla portiera aperta, riccioli al vento e piede puntato per terra, in mobile attesa, fin quando non è stato portato via con l'autogrù al deposito comunale.
Dopo quella vicenda che aveva vissuto come un clamoroso insuccesso, Victor s'era chiuso in casa a creare altri comportamenti, e creava creava senza interruzione, giorno e notte metteva in piega gesti e azioni che poi era obbligato a scomporre, dato che doveva farne altri. Questo senza pause per mangiare e così, già filiforme, era diventato talmente debole che faceva fatica a rispondere quando qualche esattore lo reclamava dal cortile. 
Ora, nel cortile dove dava l'unica finestra della casa di Victor era venuto ad abitare un altro artista, anche lui milanese, pure lui comportamentale, Max, un tipo borioso e antipatico, ma di gran successo. Le undici finestre dell'abitazione-studio di Max stavano proprio di fronte a quella del povero Victor, solo un paio di piani più su, e comunque quest'ultimo vi vedeva passare di continuo critici importanti, personaggi politici e belle ragazze. Victor, nonostante i decenni di difficoltà continue vissute come insuccessi, non era per niente invidioso. Non perché avesse un carattere gioviale, ma non era mai riuscito a pensare all'arte come competizione, difatti nessuna delle sue azioni artistiche mimava lotte o risse, più che altro lui metteva in scena gesti di attesa come quello del parcheggio. E sebbene Max non lo degnasse di attenzione nemmeno come compaesano, e anzi i suoi visitatori spesso gettassero rifiuti e sigarette accese, certe volte anche qualche bottiglia vuota direttamente dentro casa sua, lui non pensava a un affronto e anzi utilizzava quei materiali per inserirli nei comportamenti delle sue creazioni.
Una mattina però, non troppo tempo dopo l'arrivo di Max, Victor aveva sentito il cortile riempirsi delle note di un pianoforte. Distratto com'era dal lavoro vi aveva riconosciuto appena, ma senza errori, la registrazione titolata 'Concerto di Colonia', intesa come città tedesca, di un pianista nero americano molto famoso.
Conosceva quel pianista e quel disco, non li amava particolarmente, ma non ci fece caso più di tanto. Solo che dopo la prima volta, nello stesso giorno afoso con le finestre spalancate sul cortile, erano venute altre ripetizioni, per almeno dodici o quattordici volte, del concerto che durava una mezz'ora. Appena finito qual-cuno lo rimetteva, e questo era successo il giorno dopo e quello dopo, la settimana seguente e il mese che ormai entrava nell'autunno, poi per tutto l'inverno, nonostante le finestre chiuse si spargeva per il cortile e nelle sue orecchie lo spampanarsi delle note sempre uguale, con coda di applausi visto che si tratta di un concerto dal vivo. E di seguito l'anno seguente per sette, otto, dieci o dodici volte al giorno gli toccava il ripetersi ossessionante di note sbrodolate, ormai così arrivano a Victor, che alla fine aveva dovuto accorgersene, identificarle a ogni nuovo accenno. Come un pungiglione sottopelle era arrivato a non sopportarle e a chiedersi, finalmente, da dove caspio potevano provenire.
Si affacciava continuamente alla sua finestrella, allungava le orecchie cercando di capire da dove partisse il suono, chi poteva essere tanto appassionato di quel disco, o si ritrovasse in ristrettezze economiche e di gusto tali da doverlo ascoltare in media dieci volte al giorno, più di trecento volte al mese, quasi quattromila volte l'anno, con poche pause che duravano da qualche ora fino a un paio di settimane, ma non più di tanto. In breve, ma con continue indagini che l'avevano distratto dal lavoro, gli era sembrato sicuro che il suono veniva dalle finestre dell'artista Max. Però aveva continuato a indagare per esserne certo, e aveva notato che durante i periodi in cui quest'ultimo si assentava per mostre o viaggi, la musica insopportabile spariva.
Era la stata la prova ripetuta che l'aveva convinto. Non si trattava di un musicofilo indigente con carenza di dischi a disposizione, ma di un artista ossessionato per qualche ragione che non gli importava, a ossessionare anche lui, distoglierlo del tutto dalle sue azioni e rendergli invivibili sia la notte che il giorno, che ormai dedicava all'osservazione delle finestre di fronte ma più su, di chi ci passava e con che espressioni, all'ascolto delle parole che si dicevano e parevano riferite a quel disco. Perfino i movimenti li vedeva come passi di danza sulle cadenze lagnose del pianoforte.
Pure da sotto in su, scrutava anche Max durante le apparizioni al davanzale, e gli sembrava senza ombra di incertezze che chiudesse gli occhi e seguisse le note, fino agli ironici applausi finali, forse per ispirarsi. Alla fine non c'erano più dubbi, odiava la musica insieme a chi l'ascoltava.
Ora ne era certo, forse per la prima volta in vita sua provava la vertigine furiosa che dà la certezza. No, nelle azioni e nei comportamenti di Max non c'era un briciolo d'arte, ma tutto diceva che aveva rimesso il disco. Prima, alla sua finestra, anche se al primo piano, in certi periodi del giorno e dell'anno arrivava un ripido raggio di sole, ora una nuvola scura era ferma in prospettiva e oscurava il cuore di Victor. Avrebbe potuto pensare a dei tappi per le orecchie o a cambiare casa, ma dove?, e poi, perché? Ormai sicuro del fatto suo, sentiva di non dover subire oltre, dimenticava i principi della sua arte e apostrofava il responsabile dirimpettaio, prima maliziosamente tacciandolo di avarizia, o con violenza quando gli prendeva brutto. Ora, quando gli arrivavano gli oggetti buttati da lì, Victor ce li rispediva con seguito di male parole, senza alcuna replica. Se non che poco dopo altri oggetti, bottiglie e specchi per lo più gli erano restituiti quando meno se li aspettava, conditi da risatine che finivano coi maledetti applausi, alle quali lui rispondeva a sua volta svellendo piastrelle e smontando rubinetti e tirandoli nel vano delle finestre, e in certi giorni si continuava così per ore.
Alla fine il livore gli aveva avvelenato l'anima, per reazione gli era preso a mangiare, a mangiare, a ingozzarsi e ingrassare, raggiungendo il quintale lui che era di gracile complessione.
La situazione peggiorava, specie quella di Victor, che non dormiva più, non creava più, mangiava e si gonfiava soltanto, si lasciava andare senza nemmanco protestare, perché gli era complicato muoversi e faticoso gridare, e poi aveva dis-trutto la maggior parte degli arredi della sua casa già povera.
Ma per accorciare, dopo più di un anno di questo tormento una mattina a Victor, uscito di casa per le provvigioni, era successo di ascoltare dal panettiere il discorso di una signorina di una certa età, di nome Margherita, pure lei sua coinquilina con finestre sul cortile, la quale stava raccontando a un'amica le pene di un amore finito due anni prima, più o meno, e l'idea fissa che le era presa una volta lasciata dall'amante attempato, quella di ascoltare continuamente il disco del loro incontro, quello che le ricordava le atmosfere struggenti della passione.
Non ci sarebbe neanche bisogno di dire qual'era il disco, quell'assolo per pianoforte di un nero americano molto famoso, denominato 'Concerto di Colonia' intesa come città tedesca. Sarà più utile sapere che da quel momento, agli occhi di Victor, niente più niente nelle azioni e nei comportamenti di casa Max faceva supporre che da lì provenisse il suono. Ora le sue orecchie ne identificavano l'origine nelle finestre di destra, dove la zitella era appena rientrata con la spesa.
Il contraccolpo era stato tremendo. Aveva mollato le provviste in un angolo e non aveva più mangiato, chissà se per vergogna o perché all'improvviso gli era apparso il tranello in cui era caduto, non si sa, fatto sta che pian piano, ci è voluto altro tempo e altra sofferenza è dimagrito tanto da morirne. Anche solo a nominare a mente il concerto e il pianista gli venivano i conati di vomito. Per la delusione si è lasciato morire di fame, e nel momento in cui stava per spegnersi nel cortile riattaccavano le note del maledetto 'Concerto di Colonia intesa come città tedesca', terminante con gli applausi che sfumavano imperturbabili, e a un certo punto nelle orecchie non c'entravano più.
 
(In alto: Paolo Morelli, disegno di Nicoletta Calvagna)

  1. Anonymous (non verificato) on Lun, 02/18/2008 - 08:26

    interessante metafora.....una favola latina?

  2. trasciatti on Lun, 02/18/2008 - 09:21

    Non so se sia una favola, di solito le favole hanno una morale e qui non so bene quale morale ci sia. Però, in un certo senso, la potremmo considerare come una "novella sulle apparenze" e sugli abbagli dei cervelli ostinati.

    Direttor Tra