Valentino Chinnì: Il polipo e lo scoglio

 

Giuseppe uscì dall’acqua di corsa, una corsa felice, mentre sventolava il suo trofeo alla luce dell’alba e agli sguardi degli amici.
- Guarda che grosso questo polipo!- mi disse - qui ci viene fuori una scorpacciata.-
Io mi complimentai con lui e mi chiesi come facesse a pescare in quel modo assurdo: legava una forchetta ad un bastone di scopa e con questo arpione rudimentale, più la resistenza in apnea, otteneva risultati eccellenti. Il pranzo si doveva interamente alla sua abilità.
Mi sedetti sulla sabbia che a quell’ora iniziava a riscaldarsi un po’ e Giuseppe, dopo aver sbattuto la testa del polipo contro uno scoglio, si mise accanto a me.
Iniziammo a chiacchierare e lui mi disse che voleva trovare un ragazza e sposarsi presto (aveva già ventiquattro anni) e poi cominciò a prendermi in giro con una tale naturalezza che era impossibile offendersi. Era il mio migliore amico e lo conoscevo da sempre.
Giuseppe aveva avuto un’infanzia difficile: il padre era morto quando aveva tre anni e la madre era marcita su una poltrona per tanto tempo fino a quando la sua casa, più sola e più triste di lei, aveva deciso di invecchiare più rapidamente e una mattina d’autunno le crollò addosso. Allora Giuseppe aveva undici anni e da quella mattina visse un po’ da me e un po’ da Antonio, altro caro amico. Pagava alle nostre madri il disturbo di lavargli i vestiti andando nei campi con i nostri padri e raccogliendo funghi ad Ottobre. Quando guadagnava qualcosa faceva un regalo alla madre di Antonio e uno alla mia. Mia madre adorava questo ragazzo da quando era nato e, al tempo in cui  casa sua crollò, seppellendo sua madre, lo prese per mano mentre lui piangeva, e coi suoi occhi buoni ma risoluti gli comandò:- Da oggi sei mio figlio-.
Anche mio padre gli voleva molto bene e gli diceva sempre che era un grande lavoratore, benché non fosse vero, e che lo avrebbe aiutato a costruirsi una casa per potersi sposare, e questo invece era vero.

Al paese la nostra vita era semplice: l’unico svago era il bar. Una volta stavamo lì a giocare a carte quando entrò Salvatore P. e, col suo incedere spavaldo, si avvicinò a noi.
Giuseppe, mentre ora con la mente torno a quel giorno in cui sulla spiaggia mi dicesti che volevi sposarti e avere una vita serena, sento un’atroce disperazione pensando agli avvenimenti che ti hanno travolto e al futuro che non meritavi.
Dalla sera in cui Salvatore P. gli parlò, Giuseppe cambiò. Non era più puntuale agli appuntamenti, spariva per ore e tornava con occhi diversi.
Avevo iniziato a guardare con sospetto i suoi atteggiamenti verso Salvatore P. e una sera gli chiesi all’improvviso:- Lavori per lui?-
Giuseppe mi guardò come se gli avessi dato uno schiaffo e, fumando per dissimulare il suo imbarazzo, rispose - No…no.-
Non mi convinceva, e insistetti - Sicuro?-
- Va bene, - disse - diciamo che ogni tanto gli faccio qualche favore - e aggiunse subito - ma, tranquillo, lui mi dà qualche soldo… mica sono fesso!- e cercò di farmi ridere. Ma io ero serio.
- Sai chi è, perché ti metti nelle sue mani? Il lavoro con me e papà va bene, per mia madre sei un altro figlio e la madre di Antonio apparecchia tutti i giorni per te, anche quando non gli hai detto se andrai a mangiare da lei. Lascia il tuo piatto lì, e quando è freddo e non è più buono lo porta ai maiali. E il giorno dopo c’è un piatto per te, di nuovo.-
Probabilmente iniziò a sentirsi in colpa ma per non cedere mi disse annoiato - Dai, non fare il sentimentale…-
Io mi infuriai - E tu non fare il coglione!- Mi alzai di scatto e mentre andavo a prendere da bere lo ammonii - Quello è un assassino. Ti promette l’oro e poi ti butta alle ortiche quando non gli servi più.- Presi due birre al bancone e quando tornai al tavolo fuori Giuseppe era andato via.
Il giorno dopo cinque dei nostri conigli erano scomparsi, così mi disse mio padre in lacrime a colazione. Io sorrisi e gli dissi:- Papà, e che sarà mai? Ci avranno rubato qualche coniglio, e allora?-Ma lui continuava a ripetere - Siamo rovinati…rovinati.-
Gli dissi -Papà calmati. Si tratta solo di conigli-
Rispose - Ma il problema non sono i conigli. Li ho anche ritrovati subito…-
- E allora che problema c’è?- chiesi sempre più confuso.
- C’è che erano tutti decapitati e appesi a testa in giù sull’albero di limoni.-
Nessun ladro di bestiame uccide il suo bottino e lo lascia in quella posa macabra: era un avvertimento.
- Che hai fatto?- mi diceva mio padre - Hai insultato uno di quelli ?-
Lo tranquillizzai dicendogli che non avevo fatto niente e poco dopo mi avviai verso il bar con Antonio. Lì incontrammo Giuseppe che ridacchiava con Salvatore P. e i suoi scagnozzi. Mi avvicinai e dissi- Giuseppe vieni con me. Devo parlarti-
Salvatore P. si alzò e disse- E che modi sono questi? Non si saluta più?-
Senza guardarlo, ma fissando ancora Giuseppe risposi - Buongiorno a tutti. Adesso ho  salutato. Giuseppe vieni.-
Si alzò seccato e mi seguì. Fuori ci aspettava Antonio che salutò Giuseppe chiedendogli - Lo sai che sei stronzo?-
- E perché? Che ho fatto?-
Antonio, con un tono fra il deluso e l’offeso, rispose - Peppe, mi prendi per il culo? Pensi che non lo sappiamo che li hai rubati tu i conigli stanotte?-
-Io?- si strinse nelle spalle, indicandosi.- Io non ho fatto niente.-
- Ah si? E dove sei stato stanotte? Il tuo letto era ancora fatto stamattina.-
- Ma che cazzo volete?- ci ringhiò - Ma devo venire a dirvi se vado con qualche ragazza? Siete i miei genitori?-
- Hai dormito con una?- disse Antonio- Faccio finta di crederti, ma prima rispondi: questo accendino è tuo, che ci faceva sotto la gabbia dei conigli?-  
Giuseppe capì che ormai era stato scoperto e Antonio cercò di rincarare la dose e ferirlo - Non lo sai fare lo ’ndranghetista - bisbigliò - Allora non farlo.-
Giuseppe era atterrito e allungando la mano per riprendere il suo accendino cercò di metterla sullo scherzo dicendo - Gran brutto vizio il fumo!-
Impassibile Antonio rispose- Già! Fa male a te e a chi ti sta intorno. Proprio come la 'Ndrangheta.-

Dopo quel giorno per un certo periodo provai fastidio nel vedere Giuseppe. Cercavo di evitarlo ma era impossibile dato che viveva a casa mia. Antonio invece gli stava addosso, lo rimproverava, si dimostrava deluso. Una sera scoprì un’altra “bravata” e lo minacciò - Peppe, se continui così ti denuncio.- La sera successiva Antonio la trascorse in un letto di ospedale.

Andai a trovarlo la mattina dopo ed entrando nella sua stanza lo vidi invecchiato di colpo. Qualche ruga comparve sulla sua fronte spaziosa e i suoi occhi neri, pieni di energia, mi accolsero come per dirmi “guarda che cose assurde capitano nel mondo”.
Io mi sedetti su una sedia accanto al letto e gli chiesi a bassa voce- Come stai?-
Sorrise e rispose- Come uno che ha un braccio rotto-. Poi si voltò verso la finestra per nascondere gli occhi umidi e aggiunse -Mi ha aggredito alle spalle, di notte…come un traditore. E c’era qualcuno con lui ma non so chi fosse-.
Parlava con rabbia e rancore, e io non seppi rispondere.
Mi alzai e mi affacciai alla finestra. Il sole non era mai stato così caldo, il cielo mai così libero da nuvole. Guardai il mare coi suoi riflessi di luce, milioni di diamanti che brillano un istante e lasciano il posto a quelli dell’onda successiva. Guardai i passanti, i contadini con la pelle scura e dura, come cuoio, i pescatori con le braccia di ferro e le donne vestite di nero. Quante di loro erano vestite a lutto per colpa di una malattia o di un incidente? Quante per colpa di una pistola?
“Povera terra!” pensai “così bella e così maledetta dalla sorte”.
Dopo quella pausa dissi, come se parlassi a me stesso- A questo punto è evidente che ci è dentro fino al collo.-
E Antonio mi rispose - Dobbiamo tirarlo fuori-.
Eravamo solo dei ragazzi di vent’anni, cosa avremmo potuto fare?
Antonio e io decidemmo di stare vicino a Giuseppe e tenendo questa condotta speravamo di riportarlo all’onestà. Ma non ci fu bisogno di nulla, perché quella notte, quando l’unico rumore nel paese era il grido del fiume, Giuseppe venne a svegliarmi.
Tremava come una foglia e si guardava intorno nella penombra. Mi disse, lasciando trasparire una preoccupazione da condannato a morte- Aiutami, devi aiutarmi.- Gli feci segno di abbassare la voce per non svegliare i miei genitori, poi mi infilai un paio di pantaloni e gli dissi di seguirmi. Entrammo in cucina e io chiusi la porta, accesi una lampada e preparai un caffè. -Allora?- chiesi – Che è successo?-
-Devo ammazzare il dottor Z...-
Sentii un bruciore allo stomaco e in un attimo stavo già sudando. Rimasi immobile e in silenzio.
Giuseppe aggiunse - Lui me l’ha ordinato. Il motivo non me l’ha detto ma credo che si tratti di soldi.- Fece un sospiro e poi guardandomi mi disse - Non voglio uccidere.-
Vedendo a che punto era arrivato pensai che quello era il momento migliore della mia vita per dire a qualcuno “Te l’avevo detto”, ma gli volevo troppo bene per angosciarlo ancora di più. E poi non avrei risolto nulla. Provai allora a dirgli di rifiutare con decisione quell’incarico. - La fai facile- mi rispose- ma sai benissimo che da queste situazioni si esce coi piedi in avanti, in una cassa da morto. Poi  so troppe cose, lasciarmi in giro col rischio che dica tutto è un pericolo per loro. Ho parlato col commissario ma…-
- Cosa?!- dissi alzando la voce- Sei andato dai carabinieri?-
- Sì ma loro non lo sanno. Sono stato attento, mi guardavo indietro. Non mi ha seguito nessuno.-
Compresi allora che stavo parlando ad un cadavere.
Mi raccontò il suo colloquio col commissario: Giuseppe si era presentato per confessare e chiedere di essere arrestato, per essere protetto ma il commissario gli disse che non poteva fare molto.
- I tuoi reati sono minimi- gli aveva detto, poiché Giuseppe aveva solo fatto il corriere: portava qualche pacco di cui non conosceva il contenuto e aveva consegnato una lettera con scritto “PAGA O PAGHERAI”.- Reati per cui- disse il commissario - posso tenerti qui per qualche mese al massimo.-
Per la storia dei miei conigli e l’aggressione ad Antonio non l’avevamo neanche denunciato. Il commissario gli disse poi che non poteva proteggerlo fuori dal carcere. Non poteva dargli una scorta, come si fa coi magistrati, anche perché questo avrebbe attirato l’attenzione e lo avrebbe  messo in maggiore pericolo.
Giuseppe si era disperato e aveva urlato al commissario - Dovete proteggermi, è il vostro lavoro-
Il commissario avrebbe voluto defilarsi da questa storia ma forse intravide qualche occasione di arresto importante e allora trovò uno stratagemma per guadagnare tempo. Pronunciò in quel momento le due parole che cambiarono la vita di Giuseppe - Fingiti pazzo- gli disse. Giuseppe rimase incredulo e poi rise, isterico, ma il commissario gli spiegò il suo piano. Avrebbe mandato a casa di Giuseppe (cioè a casa mia) un carabiniere che si sarebbe spacciato per medico psichiatra e avrebbe condotto gli interrogatori. Dopo un paio di visite, per dare credibilità alla storia , avrebbero portato Giuseppe in qualche città lontano e sparso la voce che era impazzito e andava internato.
- E se scoprono che è un carabiniere?- aveva chiesto il mio amico.
- Lo farò venire da un commissariato lontano…magari da Catanzaro.-
Giuseppe non era convinto e disse al commissario che entro ventiquattro ore gli avrebbe comunicato la sua decisione, poi era corso a casa e mi aveva svegliato.
- Cosa ne pensi?- mi chiese mentre il sole si affacciava dietro i monti. Esitai, e in quel momento entrò mia madre che senza preamboli disse piangendo - Giuseppe, salvati la vita.- Mi chiesi da quanto tempo stesse origliando, ma non era il momento di questioni etiche così spicciole.
Il falso medico venne a casa dopo qualche giorno. Per tenerci fuori da questa cosa Giuseppe ci aveva proibito di essere presenti alle “visite”, così  i miei genitori ed io, quando vedevamo l’auto bianca arrivare, uscivamo per andare a lavorare. Una mattina, mentre eravamo nell’orto, arrivò Salvatore P. e ci chiese dove fosse Giuseppe perché non lo vedeva più in giro.
- Sta male- rispose mio padre continuando a zappare.
- E che cos’ha? La febbre?-
- Non lo so, lo sta visitando un dottore che viene da Reggio…dal manicomio.-
Salvatore P. rise e disse -Don Carmelo, mi prendete in giro? Sappiamo tutti che Peppe è un po’… sempliciotto… ma non è pazzo.-
Posai la zappa e alzando la voce ringhiai - E tu che ne sai? Sei medico?-
Salvatore P. aggrottò le sopracciglia e senza rispondermi disse a mio padre - Don Carmelo, vi conviene fare visitare anche vostro figlio.

Forse ha la rabbia.- e se ne andò senza salutare.
In quei giorni Giuseppe iniziava a dormire poco a causa degli incubi continui. Sognava di morire nei modi più strani: squartato da una vipera, annegato nel lavandino, schiacciato da una mucca con corna di caprone o avvelenato da sua madre che veniva fuori dalle macerie di casa sua e gli offriva un bicchiere di veleno per topi.  Iniziammo a preoccuparci, ma chiamare un medico vero significava smascherare quello falso. Però le cose peggioravano rapidamente e Giuseppe iniziò a dirmi che alcune volte parlava con le ombre. Un giorno urlò spaventato perché diceva che i gerani di mia madre si scioglievano sul balcone e gocciolavano a terra. Quel giorno andai a Reggio a parlare con un medico che mi potesse spiegare quella visioni. Entrai nello studio e quando il dottore mi disse di sedermi sul lettino, sorrisi imbarazzato e dissi che mi serviva una consulenza per un mio amico.
Il medico, ascoltata tutta la storia della vita di Giuseppe e la descrizione dei suoi sogni, mi disse:  -Dovrei vedere il tuo amico- ma io risposi che in quel momento non era possibile. Il dottore allora mi disse - Beh, da quello che mi hai detto mi sembra che questa persona tema qualche evento violento. Si sente minacciato e ha paura di essere tradito dalle persone che gli stanno più vicine.-

Mentre tornavo al paese pensavo a quanto tempo ci avrebbe messo Giuseppe ad impazzire totalmente.
Quando arrivai sulla via di casa, mia madre mi venne incontro e mi disse -  Peppe è scappato.-
Lo trovai dopo qualche ora quando mi venne in mente che poteva essere tornato alla casa di suo nonno, dall’altra parte del fiume. Da bambini ci andavamo spesso a giocare e lui era sempre rimasto legato a quel luogo.

Arrivando mi colpì lo stato di quei muri: sembravano delle rovine e all’interno della stanze crescevano i fichi d’india e le ginestre.
Giuseppe era seduto in un angolo e mi disse che non sarebbe più tornato a casa nostra, che il mondo doveva dimenticarsi di lui e che il suo falso medico voleva portarlo da qualche parte ma lui non  si sarebbe mosso da quella casa. E così fece.
Ancora oggi vive lì in totale solitudine, e anche se non ci parla e non si ricorda di noi, Antonio ed io andiamo a trovarlo per portargli cibo, medicine o qualche coperta.
Molte volte ci hanno svegliato le sue urla disperate che, come un tuono, ordinano al fiume di risalire verso il monte. - Vai su!- grida, e con una mano tesa indica all’acqua la direzione che dovrebbe seguire. È uno spettacolo agghiacciante.
 
Giuseppe non rivide mai più Salvatore P. perché nei giorni in cui questi lo cercava per fargli uccidere il dottor Z..., qualcuno gli si avvicinò e gli mise un colpo di lupara nella nuca e due nella schiena. Salvatore P. si era sempre vantato di conoscere tutti gli avvenimenti del paese, di avere “mille occhi”, ma gli sarebbero bastati soltanto i suoi due per vedere il suo assassino. Fallirono in questo compito e così se ne andò con le palpebre sigillate senza sapere chi gliele aveva chiuse per sempre.
Con la sua morte le precauzioni dei carabinieri svanirono. Ormai Giuseppe non correva nessun rischio secondo loro e così fu lasciato alla sua vita.
Quando andai alle vecchia casa al di là del fiume per dire a Peppe che Salvatore P. era morto, mi guardò in silenzio e con le mani piene di bava applaudì per qualche secondo. Ormai era pazzo, pazzo davvero e non sarebbe più tornato quel ragazzo pieno di vita che pescava i polipi con una forchetta. Ora era lui il polipo, sbattuto contro lo scoglio al quale si era disperatamente aggrappato. 
  

 

 

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  1. Dark0 (non verificato) on Dom, 11/08/2009 - 14:02

    Mi è dispiaciuto molto leggere questo racconto e vedere che ha delle potenzialità, ma che spesso si perde dentro luoghi comuni e immagini consumate. Secondo me andrebbe riscritto tutto da un punto di vista neutro (una voce narrante in terza persona) e ridotto notevolmente di lunghezza concentrando l'attenzione sulla figura di Giuseppe e snellendo i pensieri personali dell'autore.
    D'

  2. trasciatti on Lun, 11/09/2009 - 16:43

    Be', bisognerebbe sentire cosa dice l'autore. Delle potenzialità direi che ci siano.

    direttotto

  3. Valentino (non verificato) on Mer, 11/11/2009 - 16:06

    Mi piacerebbe capire con maggiore precisione quali sono i luoghi comuni e le immagini consumate.
    Il consiglio di riscrivere tutto con un narratore neutro è legittimo, certo, ma così, credo, si perderebbe quella empatia che dovrebbe legare il lettore e il protagonista. Vorrei che il lettore guardasse Giuseppe come un proprio amico.
    Grazie
    Valentino

  4. irma (non verificato) on Dom, 01/03/2010 - 18:29

    E' un racconto scritto soprattutto con il cuore
    Fermo restando che la struttura non manca ,esso
    suscita sentimenti, evoca immagini .I personaggi sono "veri"
    Insomma SA DI VITA
    Non è questa la bellezza di un racconto?