Marco Battista: Decomposizione

Mer, 06/11/2008 - 08:37

Marco Battista: Decomposizione

 

Cominciò tutto una mattina d'estate davanti allo specchio. Mi pettinai con la spazzola di ferro, la mia preferita perché dà un piacere assurdo, un solletico fresco e lieve sulla cute che accappona la pelle e scende elettrico giù alla schiena. Quel giorno tuttavia una piccola zolla di cuoio capelluto si strappò dal mio cranio come cuoio secco e marcio di una scarpa d'altri tempi. Ebbi subito terrore, sudore freddo e mal di stomaco, ma mi ripresi abbastanza bene la sera stessa dopo aver constatato come il mio benessere fisico non fosse mai venuto meno per tutta la giornata. Stavo bene, mi sentivo in piena forma, soltanto avevo scoperta una zona di cranio. Al tatto non mi dava nessun fastidio, l'osso era secco e la cute intorno non doleva neanche se ci grattavo sopra. Cominciai a farmene una ragione.

Indossavo berretti di ogni tipo, solo, in verità, per risparmiarmi il disco rotto di chiacchiere dei benpensanti. Frequentavo ragazzi punk ed ero l'idolo del gruppo. Avevo una ragazza tatuata dalla testa ai piedi con un piercing su un labbro della vagina. Impazziva per il mio cranio scoperto e la mia vita era straordinaria, normale insomma.

Ma un brutto giorno successe di nuovo. Passeggiavo da solo, al porto, mi incuneai sotto una recinzione per raggiungere un vecchio molo in disuso dove andavo a pensare ai miei guai quando ero adolescente. Facendomi strada fra macerie e vecchi rottami picchiai la spalla violentemente contro un'impalcatura arrugginita. Incredibile, il mio braccio destro si staccò di netto. Non sentii male. Stava in terra tra la polvere, secco, come una vecchia scopa, come un fastello di paglia. Che schifo. Mi sentii venir meno, nausea, mi sdraiai, era caldo, forse svenni, forse mi addormentai dentro un oblio di quiete, cullando la speranza di potermi svegliare al di fuori di quell'incubo.

Ma niente da fare. Ritrovai le forze che era notte. Avevo un braccio solo, il mio braccio non c'era più, al suo posto un moncone. Neanche riuscii a trovarlo, al buio, fra quelle schifezze, chissà che un cane non se lo sia portato via, pensai.

La mia ragazza andò in estasi quando mi vide. Volle che io imparassi a cantare trash, una roba di urla e ruggiti, e così dopo qualche tempo diventai il cantante di un gruppo musicale che subito diventò famoso nella zona. Facevamo concerti ovunque, mi chiamavano "Lo zombie". Stavo bene, benissimo. Ero di nuovo nel pieno delle forze, anzi avevo dentro di me una potenza nuova, grande, la potenza di chi si è temprato in grandi avversità.

Ma il terzo colpo mi stroncò. Ancora adesso lo racconto con dolore. Fu forse un anno dopo. Facevamo l'amore, io e la mia ragazza. Le stavo sopra, la baciavo in bocca mentre con la mano sinistra le artigliavo i capelli neri sulla nuca. L'amplesso cresceva, diveniva una battaglia d'amore. La feci venire con la lingua e poi la penetrai di nuovo, con ardore, con foga, fra le sue urla di passione. Quando a un tratto successe l'indicibile, l'impensabile, l'orrore e l'umiliazione, la vessazione di un perseguitato. Fu come lo spezzarsi di un fiammifero, il mio pene si troncò e rimase dentro di lei, come legno marcio. Non ricordo più niente o quasi da quel punto in poi, la mia ragazza urlava inorridita, io ridotto a un uomo di fango mosso da spasmi isterici in un vortice di allucinazione.

Mi ritrovai da solo, senza la possibilità di avere mai più una compagna. Provai a reagire, a dire il vero. Cominciai a scrivere, a frequentare suore preti e gruppi di preghiera, ma niente, la vena mistica non mi si addiceva. O forse mi si addiceva troppo. Il fatto è che senza il sesso non provavo più nessun interesse per la vita sociale. Mi davano fastidio le persone che ridevano e scherzavano in compagnia. Non provavo brividi. Non avevo interessi. Cominciai a fare il volontario in ospedale. Stavo bene solo quando stavo coi malati terminali. Li sentivo come me, fratelli nel dolore e nella pallida castità, carne della mia carne e sangue del mio sangue.

La decomposizione continuò, ma fu solo una questione di gradualità. Perdevo pezzi di me ma non ci facevo più caso. Andavo avanti giorno dopo giorno sul mio sentiero di disfacimento, quasi sereno, in completa solitudine.

Una sera di me rimasero solo gli occhi. Tutto era buio e i miei occhi stavano sul letto, bianchi, grandi. Pensavo a me stesso con grande pena. Ma ecco che vidi altri occhi bianchi nel buio, e poi pian piano altri occhi, e poi altri ancora. Si raccolsero intorno al mio letto, placidi. Mi parve di udire qualche sospiro, qualche risolino, forse una risatina infantile e sadica. "Questa è la morte?" - pensai - "Me la rido se questa è la morte!" Nel buio scoppiarono risatine e sghignazzi. Era davvero la morte. Era giunta la mia ora. Tanta paura, tanta angoscia, tante riflessioni per niente. Tonnellate di libri e di rovelli per arrivare a questo: un coro di sghignazzi intorno a due occhi.