Andrea Cirolla: Febbraio

Mer, 08/06/2008 - 20:38

Andrea Cirolla: Febbraio

 
 
Nella seconda metà del febbraio del suo primo anno in città si mette a raccontare strani ricordi e speranze a quel tale che siede al bancone del bar giù all'angolo. Quello sorseggia un amaro e boccheggia. Ha la pancia piena e niente stile, fa ondeggiare il bicchiere con un moto perplesso e patetico.
– Sarei capace di innamorarmi di una vecchia professoressa il cui nome mi ha attirato a tal punto da accendere il computer, digitare il suo nome in un motore di ricerca e vedere cosa sarebbe apparso. Il suo viso è particolare, ha una sua purezza, insegna ad Hannover. Il suo libro invece proprio non mi piace, sì, è ingenua senza desiderarlo, eppure lo fa in modo patetico, disincantato, sì, ma come se non si potesse fare altro che riderne. Lo so che passerei tutta la vita a riderne, fintantoché non mi si irrigidisce tutta la faccia, dai muscoli delle guance fin su sulla fronte. Ma poi saprei guardarla con amore, come quello che mi sono abituato a vedere nei film.
L'altra sera, dopo essere tornato a casa, ho tolto i miei sandali per indossare delle vecchie pantofole. Appartengono a un certo segno zodiacale, sono un segno, anche il ricordo di un compleanno. Erano le pantofole di mio nonno, e a dire il vero mio nonno non le usò mai molto, era di un'altra pasta, con le sue vecchie ciabatte d'uno speciale marroncino come non se ne vedono più - ma ci giurerei che sono io a non volerne più vedere -, entrambe un poco sbragate all'altezza della cinta che trattiene il dorso del piede. Lo so perché gliele portavo spesso d'inverno, quando sul divano toglieva i calzini appiccicati dal freddo e curava i duroni perché mia madre glielo chiedeva. A mio nonno non importava avere i duroni o quel gran mal di schiena. Non parliamo della pleurite. Mio nonno sembrava poter andare avanti anche col corpo martoriato all'interno. Poi tutto è caduto quando è caduto anche lui, evidentemente il corpo gli era necessario, gli serviva, e la sua volontà non bastava. È così che è successo. Così credo di aver visto la mortalità. Ora mi capita di parlare di morte come si parla di un licenziamento, una bella grana, ma che vuoi che sia. Non so come mi è venuta questa del licenziamento, altro non veniva, e non potevo starci a pensare ancora molto. Mi ascolti? Mi ascolti anche se hai finito di bere?
Il tale seduto al bancone se ne frega e pensa a cosa accadrebbe se si mettesse a scrivere in quel preciso istante. È un meccanismo doloso, come se gli venisse il pensiero mentre torna a casa in macchina ascoltando un nuovo disco di jazz. Poco prima si immaginava nella sua cerchia di amici a suonare solo per loro quel brano intenso con la tromba. Non serve neppure la base ritmica o un tappeto sonoro in sottofondo perché il suo suono basta a tutto e incanta gli amici e pure i passanti. Poi gli viene in mente il pensiero di scrivere, ne nasce un attacco sicuro, accattivante, Nella seconda metà del febbraio del... Poi abbandona l'idea, sarebbe troppo bella e se ci pensa ancora un po' gli sale un'ansia che la metà basta a congestionarsi il viso come a ridere troppo di una bella ragazza, che ti piace, e di più: lei si offende del riso e tu ti oscuri.
Poi abbandona tutto. Arrivato a casa scrive realmente, ma mai quello che avrebbe voluto.
Mi stupisco del fatto che mi ritrovo a scrivere a zonzo per la pagina quando poco prima di iniziare niente mi frulla per la testa. Attacco con una stupidata qualsiasi e poi trovo un binario, ma è sempre un binario morto. Perché si dovrebbe scrivere per sempre. Allora si capirebbe la morte, perché la vita puff sarebbe esiliata, confinata. Parlo della morte come fosse la vita, qualcosa che càpita, e allora la vita? La vita non è come la morte, la morte non si sa, la vita è come... la vita che fa?... tien su i pantaloni. Quando non c'è vita ti cascano pure quelli, e ti ritrovi in mutande. E ora? E ora non so più che raccontarmi.

(In alto: foto Trasciatti)