Il Trasciatti » Libroteca http://trasciatti.it Lunario inattuale di letteratura e desueta umanità Tue, 22 May 2012 09:37:52 +0000 http://wordpress.org/?v=2.9.2 en hourly 1 Riletture: Le cucine celesti di Roberto Amato http://trasciatti.it/2012/05/22/riletture-le-cucine-celesti-di-roberto-amato/ http://trasciatti.it/2012/05/22/riletture-le-cucine-celesti-di-roberto-amato/#comments Tue, 22 May 2012 08:53:47 +0000 Trasciatti http://trasciatti.it/?p=2137

Di cucine e di altri universi

di Giuseppe Grattacaso

In luoghi confinati, insieme familiari e misteriosi, si muove la poesia di Roberto Amato. La geografia di Le cucine celesti si sviluppa a partire da interni segnati dal trascorrere del tempo, da stanze ingombre, da cucine dove le donne si muovono con armoniosa e circospetta solerzia, da giardini immediatamente a ridosso delle case. Sono le terre conosciute e quotidiane, ma allo stesso tempo mitiche e dunque leggendarie, sulle quali agiscono personaggi dai nomi e dai volti familiari, non si sa se veramente presenti o se vivi solo nella memoria.

Le cose, attestate in luoghi prossimi e consueti, e ancora di più i corpi degli uomini e degli animali, e le loro appendici, non sembrano però soddisfatti della loro posizione, o forse non sono del tutto consapevoli della condizione che loro attiene. Ci restituiscono infatti, come in un evocativo e incantato gioco di specchi, l’immagine di altre forme, di spazi lontani e sconosciuti, di sconfinate praterie siderali e di costellazioni. Il figlio Lapo, uno dei tanti personaggi di quel lessico familiare che si propone costantemente al lettore, si accorge “fin dal primo vagito” che il padre ha le mani fatte d’aria e che “nel vestito / non c’era quasi niente”, tranne la voce che è chiusa “nella bambagia della barba finta / e lunga / e sfusa / come i pappi dell’Orsa / e le lattigini / delle folte comete”.

Sembra insomma che uomini e oggetti non riescano a stare al loro posto, e che, situati davanti agli occhi del poeta, facciano di tutto per confondere la visione, per scivolare in territori a cui non appartengono, per evaporare verso l’alto, in cerca di un luogo diverso, del punto d’approdo a cui credono di essere destinati. Succede perciò che ancora la barba “è un cavolfiore così morbido / si svolge per tutto il firmamento // (per il dolce e fatale / Principio della Levitazione Universale)”.

Il Principio della Levitazione Universale è, a ben guardare, il contrario della legge di gravità: per esso insomma le cose tenderebbero ad andare verso l’alto, a ritrovare una loro identità e un loro posto accanto alle nuvole, a contatto con uccelli e astri celesti. Il mondo terreno aspira a una leggerezza che si intravede nella difficoltà di uomini, animali e cose ad accettare la loro condizione e il loro posto. Tutto questo permette anche un fitto dialogo tra gli elementi, non importa di quale regno fisico essi facciano parte.

Nella poesia di Amato le presenze della natura lontana e quelle del mondo familiare, le figure varie, animate e non, che compongono la realtà di ogni giorno, si scompongono e si sovrappongono. Così in una drogheria la vegetazione nelle sue varie forme, ma anche gli animali e soprattutto gli uccelli, possono fare capolino tra alici sfilettate, prosciutti e capocolli. L’incanto non è solo nella mente di chi vede e poi restituisce gli elementi e la narrazione della visione, ma ingrediente stesso del mondo, che si presenta a noi confuso e disordinato, imperfetto o forse fornito di una perfezione che non abbiamo gli strumenti per intendere ed afferrare. Accade così che il droghiere che dovrebbe “dividere il creato negli scaffali”, finisce per fare confusione, per mescolare prodotti e cose provenienti da settori e da mondi diversi.

In effetti, quelle che a prima vista possono apparire immagini metaforiche, termini di paragone utili a comporre una figura retorica, nella lingua poetica di Amato entrano a far parte della realtà a pieno diritto, si sistemano con forza e convinzione accanto agli oggetti che per più antica consuetudine appaiono collocati nel posto che gli spetta. E’ così che drogheria e cucine (che sono appunto, non dimentichiamolo, celesti, mettendo insieme l’alchimia quotidiana e tanto concreta della lavorazione del cibo con la spirituale evanescenza delle presenze immateriali e incorporee) diventano gli spazi dove si manifesta una speciale mitologia poetica, i luoghi protetti dove si mescolano ingredienti diversi e inusuali, per dare luogo a qualcosa di inaspettato, a volte di meraviglioso. Gli oggetti non sono nemmeno i correlativi di una nostra condizione esistenziale o i segnali di un sentimento comune universale, sono ancora se stessi, provocatoriamente e assurdamente se stessi, ma scivolati o appunto levitati verso un mondo altro, sorprendente e vago, o forse finalmente restituiti ad esso.  

C’è qualcosa di limitato nella nostra condizione di uomini, se ci sforziamo con tanta determinazione perché la realtà non ci confonda con la sua insensatezza, se cerchiamo in ogni modo di essere concilianti con la visione parziale e circoscritta di quanto ci accade intorno, se della vita evitiamo con cura le vertigini, gli spostamenti di senso, i deragliamenti, gli sbandamenti, così provvidi e normali dice la poesia di Amato, dall’una all’altra condizione naturale: “… ma questo tempo incomprensibile / per noi che non abbiamo le ali / e che stupidamente / non dormiamo sugli alberi…”.

Naturalmente tra gli uomini c’è chi si mostra inadatto a comprendere, e sono i più, coloro che vanno sicuri delle loro certezze, della stabile e ordinata composizione della realtà:  “Ho contemplato una balena / e mi pareva l’orsa / con un cesto di pesci e di comete // ho chiesto a un vecchio prete cosa fosse / quel carico di stelle // lui rimbambito / (si contava i bottoni della veste) / disse che non aveva visto niente”.

L’età dorata dove  è possibile che la confusione dei ruoli e dei mondi diventi sistema ed anzi si manifesti, come se fosse norma, nella sua ovvietà e nella pienezza della significazione, è naturalmente l’infanzia. E’ quello il periodo in cui possiamo crederci uccelli, fare prove di volo dimenando le braccia, correre e saltare fingendo di essere animali. Ed è l’età verso la quale la poesia di Le cucine celesti sempre fa ritorno, non per farne pascolianamente l’eden irricostruibile degli affetti, o anche lo strumento privilegiato della conoscenza: per Amato l’infanzia è la sola età in cui veramente si vive, in cui i mondi si rappresentano in  un disequilibrio che non può essere messo in discussione, in cui il tempo non è un susseguirsi ordinato e irreversibile, ma compresenza di passato e presente. “… e cammina cammina / io in qualche posto andavo / e seminavo da per tutto / i fazzoletti / i piccoli bottoni / dal fischio dei calzoni / corti // (ora / saremo certamente tutti morti / ecco perché si sogna / tutto il giorno) // ma qualche volta torno / seguo la scia dei moccichini”.

Se è vero che anche il tempo mescola le carte e il poeta vive in un presente in cui continuamente avanzano figure provenienti da altre età, allora la famiglia diventa inevitabilmente un organismo allargato. Nonne e nonni, zie e zii, cugini, genitori e figli si cercano, si incontrano e si parlano, non importa se siano vivi o morti, abitano stanze e cucine che non si sa se appartengono alle case di oggi o sono solo luoghi della memoria. Roberto Amato racconta la sua famiglia come un cantastorie le vicende di paladini, con intrecci complicati e scompigliati, improvvise interruzioni e salti nello spazio e nel tempo, interventi magici che intralciano i progetti o lasciano intravedere uno scioglimento. La poesia si anima di personaggi che sembrano appartenere appunto a vicende eroiche e leggendarie: il nonno  Efisio, Giardiniere di Boboli, la Zita, la lunghissima Ofelia, la Titina, la sorella Alina (“quella bambina sordomuta / che andavo coltivando insieme ai fiori delle zucche”, che ha gli occhi che volano “sopra le foglie nere / delle cicorie altissime”); e poi Lapo, l’Orca, la Clara, l’Alfira, Ezechiele, le Fate, ed Efisio il facchino che “non mi ricordo che abbia / proferito verbo, tranne quel suo cantare / da mezzosobrio / o alticcio / soltanto per lodare stoccafissi / o totani cuciti con un ripieno di frattaglie/ d’oche”.

Al disordine del mondo, al guazzabuglio ostinato dell’esistenza, la poesia di Amato non cerca di fornire un assetto più stabile e ordinato. Il compito del poeta è anzi quello di accettare lo stupore che la visione implica, di restituire al lettore il senso della meraviglia. Questo non significa che la poesia si conceda all’improvvisazione e alla spontaneità. Al contrario il verso è sempre misurato e controllato, e dimostra una lunga e ragionata consuetudine con i grandi autori del secolo scorso.

Non conosco personalmente Roberto Amato, ma so da uno scritto di Manlio Cancogni, tra i primi a leggere i suoi versi, che “pare uscito da un racconto nordico di maghi e stregonerie”. Io me lo figuro che “alto, magro allampanato” cammini spesso senza avere una meta precisa, anzi, se mai l’avesse, dimenticandola, ritrovandosi poi chissà dove, ma lontano, senz’altro lontano dal luogo dove sarebbe dovuto arrivare. Immagino che , se fosse a camminare per qualche sentiero di montagna, non andrebbe in cerca di funghi ma di fossili di conchiglie, delle tracce del passaggio di qualche pesce, sicuramente avvenuto in un’epoca remota, che lui crede ancora attuale; o alzerebbe gli occhi al cielo, avendo percepito il verso di un uccello marino in crisi di orientamento.  Su una spiaggia invece non sarebbe attratto da stelle marine e ossi di seppia, ma da rami levigati e contorti, residui di un luogo lontano, testimonianza di una dimenticata foresta.

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Morte (dolce) a Venezia http://trasciatti.it/2012/04/18/morte-dolce-a-venezia/ http://trasciatti.it/2012/04/18/morte-dolce-a-venezia/#comments Wed, 18 Apr 2012 07:17:09 +0000 Trasciatti http://trasciatti.it/?p=2074

Con questo, L’acqua alta (Elliot 2011), Roberto Amato è giunto al quarto libro, il quinto se si considera anche la plaquette Gli sposi (Diabasis 2005). Chi lo ha seguito in questo suo cammino forse si sarà un poco assuefatto alle sue invenzioni poetiche, magari proverà meno stupore di fronte agli amabili salti della sua logica e quasi gli sembrerà di conoscere già gli attori di questa nuova commedia buffa. Ma in quarta di copertina si legge che L’acqua alta è stato scritto “molti anni prima de Il disegnatore di alberi” (uscito nel 2009). Allora viene da chiedersi: molto prima quanto? E perché è uscito dopo? E lo stupore ricomincia per questa vena creativa costante, già matura ieri come ora, per questo poeta che può permettersi di buttare fuori un libro o un altro a scelta (a capriccio?). Qual è la linea di sviluppo della sua poesia? Sempre che ci sia una linea e non un lago magmatico da cui il poeta attinge con rara possibilità di sbagliare. 
In esergo è posta una lunga (e un po’ enigmatica) citazione dal filosofo Kierkegaard che argomenta sul Don Giovanni di Mozart e che termina così: “se si è infantili alla pari si gioca meglio”. E’ un invito al lettore ma anche un avvertimento. Un invito a disporsi al gioco: gioco poetico, gioco con le parole. Se non si è capaci di questa regressione è meglio lasciare perdere, questo libro non fa per noi (e forse la poesia in genere non fa per noi). Ma veniamo al dunque. Cosa c’è in questo libro? Dire che c’è un io che scrive a un tu non spiega molto, anche perché Amato ci ha abituato agli pseudo-epistolari. Non è una novità nemmeno che il destinatario sia una lei, probabilmente un’amante, vera o immaginaria che sia . C’è di nuovo che questo monologo – figurarsi se c’è traccia di risposta! Il tu di Amato è sempre uno specchio – ha luogo a Venezia e Venezia è Gerusalemme, le due città si sovrappongono. Perché Venezia è una città doppia, dal momento che si specchia nell’acqua della laguna, e anche Gerusalemme è una città doppia perché immagine della Città Celeste.
Ora, in questa che è la città romantica per antonomasia, città di lune di miele e innamoramenti, una coppia di sposi si aggira eternamente senza più trovare l’uscita. Manlio Cancogni, nella nota finale contenuta nel volume, scrive: “Ma provate a leggerlo (Amato, n.d.r), e poi ditemi se non vi è parso di essere investiti da un’onda d’aria fresca, frizzante, profumata, che muove e alleggerisce il passo (immagino sempre che lo si legga camminando, su un marciapiede di città, o lungo un canale, o su una spiaggia davanti al mare aperto ‘tutto fresco di colore’) pronti a spiccare il volo”. E certamente è vero, la leggerezza di Amato è innegabile e pervasiva. Ma se si scava appena sotto viene fuori altro, emerge un’inquietudine sommessa e disperata di fronte al nostro destino di uomini. La Venezia visibile ne nasconde un’altra, sotterranea, anzi subacquea, che si ramifica verso profondità indefinite, abissali, confinanti con i terreni vaghi dell’aldilà. Scrive Amato a pagina 21: “I piccioni di questo oscuro campiello sono del tutto neri / … forse sono piccioni mortuari”; e due pagine più il là si leggono versi che paiono uno struggente e definitivo congedo:
 
Non voglio che nessuno mi accompagni oltre il ponte
(dove l’ultima scala scende l’acqua
e i gondolieri si perdono)
 
non voglio che nessuno veda quello che vedo io
e che mi è destinato
forse per uno sbaglio degli uccelli
 
i piccioni mi guardano con una certa dolcezza
(che non ti aspetteresti da loro)
oltretutto non era me che aspettavano:
io non sono nemmeno di qui
qui non ho amici
conoscenti
e non sono mai entrato in un panificio
in una polleria o in questi piccoli negozi per turisti
eppure
gli uccelli
mi fanno cenno di seguirli
rallentano perfino il loro passo saltellante
 
perché io non mi perda[1]
 
I piccioni assurgono quasi al rango di animali mitici che accompagnano l’anima verso il luogo del riposo definitivo. Certo, restano piccioni, animali privi di quell’alone magico-poetico che attribuiamo agli animali del bosco, ma questo fa parte dell’opera buffa di Amato, del suo mischiare i piani dell’alto e del basso, dell’addolcire le ambasce cosmiche con qualche domestica dolcezza o ironia. Venezia, però, sembra rappresentare una specie di viaggio ultimo:
 
Evelina
noi non ci siamo più
questo è evidente
 
perfino i gondolieri non ci vedono
o ci scartano
come piccoli ostacoli
come cose senza valore[2]
 
Un viaggio tutto in profondità, verso inferi acquatici:
 
… e dunque?
 
… io non lo so
cosa dovremmo cercare
in tutta questa acqua…
 
… scendere
con la nostra zavorra
scandagliare i canali
che (secondo gli antichi
topografi subacquei)
sono di una profondità
infinita… [3]
 
E ancora:
 
io però batto i tacchi
valuto il vuoto sotto di me
dove ci sono secoli di scoli
di fognature che raggiungono il mare
per vie traverse[4]
 
E pochi versi dopo:
 
… ma qui
(secondo i dépliant)
un metro sotto la stazione
ci sono le catacombe…
 
la morte è del tutto subacquea
un proscioglimento[5]
 
Questo movimento verso il basso, questa attrazione ipogea, è confermata anche dal geometra Nicodemo, figura che appare più o meno a metà libro e che sembra avere una funzione di raccordo/spostamento fra il subacqueo e il sotterraneo, fra l’acquatico e il terreno, ma anche verso il domestico perché qui comincia una discesa che è anche regressione temporale verso l’infanzia:
 
le fondamenta
scendono credo per moltissimi chilometri
secondo Nicodemo
finiscono
dall’altra parte della terra
e
nelle giornate chiare se non c’è troppo vento
raggiungono la luna[6]
 
E poi:
 
Se tutto affonda è come se la casa salisse
questo è un concetto semplicissimo
(e un poco tolemaico)
 

 
certo siamo sotto il livello del mare
(e di molto)
 
e un volo di murene lo conferma[7]
 
A questo punto può aprirsi la sezione intitolata “Nella profondità della casa” dove continua lo scavo e la discesa del protagonista (chiamiamolo così) di questo libro e dove il lettore ritroverà molto della vena visionaria dei precedenti lavori di Amato, quella mitologia domestica che abbagliava già ai tempi delle Cucine celesti.
Gli scavi, dicevamo:
 
Secondo me
siamo in un abisso
archeologico
 
la casa è sprofondata
per molte miglia marine[8]
 
E dopo:
 
Io continuo a scavare sotto la casa
anche senza l’aiuto del mio domestico Tanino[9]
 
E ancora:
 
Scavo tranquillamente
la terra è morbida e ha un profumo dolcissimo
di nuvole[10]
 
E infine:
 
Questa voragine
(pensavo) è proprio
della misura giusta:
fa scivolare la casa lentamente
(e non si sa
dove potrebbe fermarsi)[11]
 
Al piano di sotto della casa c’è – curiosa invenzione – un monastero da dove provengono ticchettii di bastoni e strofinii di pantofole. Un monastero che somiglia molto ad una casa di riposo. E infatti, al piano di sotto della casa paterna
 
c’erano grandi camere
e dietro i paraventi
si sentiva il russare senza fine
dei bisavoli e dei trisavoli
dei parenti più antichi
e più complessi
(dormivano per sempre
anche gli zii dei nonni
le nuore dei bisnonni
le cognate e i cognati
dei trisavoli)[12]
 
Nelle ultime pagine del libro, intitolate “Il piccione di Händel”, Gerusalemme torna a sovrapporsi a Venezia, suggerendo una prospettiva escatologica; compare Minosse il vinaio,  la cui cantina è un antro che fa pensare al mitico labirinto; compare soprattutto Mozart, che trascorse giovanissimo alcuni mesi nella città lagunare e che, dopo avere aperto il libro nelle parole di Kierkegaard, viene a richiuderlo quasi con l’aspetto del Convitato di pietra, bianco come il sale, pallido come un morto, a suggerire ancora una volta, e definitivamente, che oltre Venezia-Gerusalemme non si va, che quello che ci è stato raccontato è il viaggio conclusivo. Ma Amato ce lo ha raccontato con tutta la leggerezza possibile, con tutta la dolcezza che è racchiusa nella speranza ingenua e insopprimibile di ricongiungersi agli affetti dell’infanzia, di ritrovare, un domani, le nostre origini.

Alessandro Trasciatti

Note
 
[1] Roberto Amato, L’acqua alta, Elliot, Roma, 2011, pag. 23.
[2] Ibid. pag. 26
[3] Ibid. pag. 27
[4] Ibid. pag. 35
[5] Ibid. pag. 36
[6] Ibid. pag. 44
[7] Ibid. pag. 50
[8] Ibid. pag. 57
[9] Ibid. pag. 61
[10] Ibid. pag. 62
[11] Ibid. pag. 82
[12] Ibid. pag. 68

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L’impalcatura che non c’è http://trasciatti.it/2012/04/07/limpalcatura-che-non-ce/ http://trasciatti.it/2012/04/07/limpalcatura-che-non-ce/#comments Sat, 07 Apr 2012 17:03:41 +0000 Trasciatti http://trasciatti.it/?p=2068

Brevi dal Nord di Gianfranco Mammi è un libro che mi fa venire voglia di farne uno uguale. Non tanto nei contenuti, ognuno ha la sua vena, le sue fantasie, la sua testa che ragiona più o meno bene. Quanto nella struttura, nell’impalcatura che lo tiene insieme. E questa struttura o impalcatura di Mammi, per dirla con precisione, non esiste. Il libro è come un sacco dove è stato tirato dentro di tutto: brevi raccontini, aforismi, dialoghi, fulminei atti unici, elenchi di cose, frammenti e frattaglie varie. Se c’è un filo che tiene insieme tutta questa roba, è al massimo la vena di assurdità che circola dall’inizio alla fine: assurdità del singolo pezzo e assurdità complessiva, che viene fuori dall’accostamento arbitrario dei pezzi, sfidando ogni visione d’insieme. Sicuramente c’è stato un montaggio dei materiali, un ordinamento. Ma è una questione che riguarda l’autore che – possiamo ipotizzare – sia stato lì a studiare se il brano dal titolo “Zebrate” potesse stare meglio prima o dopo quello intitolato “Libri che non ho comperato per il titolo”. Quello che conta per il lettore è il risultato finale, l’effetto di accozzaglia casuale, il deliberato e micidiale dipaloinfraschismo che si trova sotto gli occhi. Senza andare a scomodare miscellanee monumentali e illustri, come lo Zibaldone di Leopardi o gli Essais di Montaigne, che erano tutt’altra cosa,  dei precedenti ci sono certamente in qualche autore novecentesco, ma non ricordo quale (Michaux? Leiris? Campanile?). E allora, tanto per fare un esempio, riporto due brani consecutivi.

L’uomo senza testa

Aspetta, ti faccio a fette il cane!
Quale cane?
Il tuo.
Ma non ce l’ho mica, io, il cane.
Allora ti faccio a fette la mano.
Quale mano?
La sinistra.
No, che sono mancino.
Allora la destra.
Va bene. Prima però ti stacco la testa.
Quale testa?
La tua.
Ma non ce l’ho mica, io, la testa.
Ostia, è vero.
 

Miliardi

Gli alieni sono tra noi a miliardi e si nascondono nei vasetti di yogurt, quello commerciale. Tutti quei fermenti vivi della pubblicità te lo dico io che cosa sono, sono piccolissimi extraterrestri molto più furbi di noi e nel loro piccolo ci governano dai nostri organi interni.

Prova te ad ammazzarne uno, non ci si riesce.

Leggetelo, Brevi dal Nord di Mammi (QuiEdit 2011, prefazione di Gisela Scerman), anche se non è facile trovarlo. Magari provate qui. Oppure leggete questa intervista all’autore su su Zibaldoni.it

Alessandro Trasciatti

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Alieni a Lucca http://trasciatti.it/2012/03/26/alieni-a-lucca/ http://trasciatti.it/2012/03/26/alieni-a-lucca/#comments Mon, 26 Mar 2012 19:28:30 +0000 Trasciatti http://trasciatti.it/?p=2040

Finalmente disponibile on line il primo dei Libratti nuova serie, MAI DIRE: A LUCCA MAI! Uno sguardo alla fantascienza italiana, presentato sabato 24 marzo a Lucca. Erano presenti alcuni degli autori del volume, anche nascosti tra il pubblico. Cerimoniere di turno, Luciano Luciani, di cui riportiamo il seguente brano, tratto dalla nota introduttiva al volume:

“Sconcerto, disappunto, collera: questa la gradazione, in crescendo, dei sentimenti della Professoressa delle Medie nello scoprire il genere delle letture del suo giovane discente. Eravamo alla fine degli anni cinquanta in una scuola alla quasi, allora, periferia di Roma e in una tranquilla discussione in classe sui libri preferiti da noi giovinetti alle soglie del “teenagerato” era emersa la mia già lunga – nonostante la giovane età – frequentazione con i Bem (Bug-Eyed Monsters, i Mostri dagli Occhi d’Insetto) che riempivano allora i volumetti di “Urania”. Mitici se si vuole, ma bruttini anzichenò, ora per le edizioni non integrali e maltagliate, ora per le traduzioni approssimative e discutibili, ora per gli autori, sovente di scarsa notorietà e ancora minori abilità nell’elaborare storie e protagonisti, contenuti e intrecci.
Due mondi – quello della mia scuola e quello della mia fantascienza di allora – si scontrarono e fu catastrofe cosmica. Con una certa arcigna sollecitudine venni invitato dalla brava donna – una nobile figura di educatrice e una mamma per tutti noi – a liberarmi quanto prima dal “vizio” assurdo che rischiava di sfregiarmi irrimediabilmente il gusto e l’anima. Pensassi, invece, a rivolgermi con più passione di quella dimostrata fino a quel momento ai Classici, evitando così le brutte figure scolastiche e le “borse” sotto gli occhi. “Naturalmente”, concluse la santa donna, “al prossimo ricevimento genitori non potrò fare a meno di riferire a tuo padre della robaccia con cui perdi il tempo da dedicare allo studio”.
Certo, a rileggerli ora gli oggetti dello scandalo – i fin troppo agili volumetti di “Urania” di quegli anni, così decisamente scadenti dal punto di vista della qualità letteraria, così densi di trame e di trovate, ma anche di comici esempi di cattiva scrittura, così zeppi di ossessioni anticomuniste espresse sotto metafore granguignolesche – bisogna ammettere che, forse, la Professoressa non aveva tutti i torti.”

(da Luciano Luciani, Una letteratura tra due maledizioni, in Mai dire: A Lucca mai! Uno sguardo alla fantascienza italiana, a cura di Alessandro Trasciatti, Del Bucchia editore)

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Ascolta Noventa http://trasciatti.it/2012/03/05/ascolta-noventa/ http://trasciatti.it/2012/03/05/ascolta-noventa/#comments Sun, 04 Mar 2012 23:05:15 +0000 Trasciatti http://trasciatti.it/?p=1996

Matteo Marchesini recensisce Nessuno è poeta. Scritti su Giacomo Noventa di Daniela Marcheschi per Radio Radicale.

Ascolta

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Reality http://trasciatti.it/2012/02/08/reality/ http://trasciatti.it/2012/02/08/reality/#comments Wed, 08 Feb 2012 21:30:50 +0000 Trasciatti http://trasciatti.it/?p=1929

Reality di Mariusz Szczygiel (Nottetempo 2011)

Reality è un librino magro, 150 pagine, corredato da belle foto in bianco e nero con quattro storie che ci raccontano di donne facendole parlare, con un un taglio a metà tra la narrazione e l’inchiesta giornalistica.
Szczygiel, che era già stato premiato col suo romanzo sulla ex Yugoslavia Gottland,  pubblicato da Nottetempo nel 2009, scrive sulla “Gazeta Wyborcza”.
In un paio di pagine che introducono i racconti di Reality l’autore dice di esser stato fin da piccolo un buon ascoltatore e di essere grato alla lavanderia dell’albergo Sotto la Torre, dove è cresciuto, che è stata la sua scuola d’ascolto  a diretto contatto con le cameriere che uscivano con  carichi di biancheria sporca e di storie. “Ascoltare è semplice. Basta non storcere la bocca se la vita di qualcuno non è esattamente come ci piacerebbe che fosse” dice Szczygiel.

Alla base di questi racconti ci sono dei documenti privati  che l’autore ascolta e fa parlare cucendoli sapientemente e tenendosi in una posizione di riserbo.  Quaderni e lettere che hanno riempito le vite di persone ordinarie mettono in luce il fatto che esistenze comuni celino al loro interno imprese letterarie particolari che raggiungono dimensioni quasi epiche,  innescando una riflessione sul  senso e sul bisogno di scrivere nella nostra vita e facendoci percorrere sia  un giro all’interno di singole esistenze che un viaggio nella storia della Polonia, dalla seconda guerra mondiale fino all’epoca degli sms.

In “Sceneggiato a due penne” l’autore seleziona parte della corrispondenza tra Teresa e Henrika, due amiche che pur vivendo a poca distanza non si visitano mai, ma dal 1970 al 2004 si scrivono più di  mille lettere in cui parlano delle attitudini e inettitudini dei mariti, dei loro figli,  di politica, si scambiano consigli, speranze e disperazioni. “Non siamo solite parlarci al telefono, perché un conto è quel che vien detto a voce, e ben altro quel che vien scritto. Una lettera può essere riletta più volte, mentre la parola detta si volatilizza”.
“Reality”, il racconto che dà il titolo alla raccolta è dedicato agli oltre 700 quaderni  di Janina Turek, un’ impiegata che  dal 1943 al 2000  scrive di nascosto e senza interruzioni una sorta diario nel quale  annota e cataloga minuziosamente e con distacco ogni singolo fatto della sua vita rendendolo in questo modo memorabile: cibi mangiati, persone viste di sfuggita, persone viste per caso, le offerte fatte alla messa, i film visti, i libri letti, le gite, le notizie del telegiornale, e  i suoi pensieri.
“il 1.10.1996 pranzò con una zuppa di funghi e pastina
il 21.03.1973 ricevette due telefonate mute
il 21.06.1976 trovò per strada un paio di calzini elasticizzati da bambino non usati”.
Il personaggio principale di “Foglio”, il secondo racconto, è un foglio di carta  con una lista di nomi di donne che, abbandonato casualmente in un caffè, fa partire un’indagine, un piccolo giallo con  telefonate,  incontri, varie ipotesi e il dipanarsi del racconto di stralci di tante vite.
“La prova”, titolo del terzo racconto, è la prova d’amore di un  rettore dell’ accademia di Tecnica Mineraria e Siderurgica di Cracovia che ha fatto fare una scultura della moglie Malgosia da mettere nel corridoio dell’ateneo. “ Il fatto è che il nostro ateneo dedica una grande cura alle aule e al materiale didattico, ma non presta sufficiente attenzione all’aspetto dei corridoi”. La moglie è ritratta sulla panchina dove lui l’ha vista la prima volta, il rettore ha fatto allo scultore un ritratto a memoria descrivendogli com’era vestita la moglie in quella giornata indimenticabile: indossava un vestito con le cuciture in risalto. Nonostante  svariate polemiche all’interno dell’Ateneo e l’ovvio imbarazzo della moglie, che pare non riesca a nominare ancora la sculturina, pare che la prova d’amore sia stata accolta con approvazione generale e che gli studenti spesso siedano sulla panchina abbracciando Malgosia o scelgano quel posto come luogo per i loro appuntamenti.

Finita la lettura di questo libro mi è subito venuto in mente ciò che mi disse un nostro vicino di casa, giornalista sportivo, alla morte della madre, che lo aveva cresciuto da sola tutta la vita in una casa piena di giornali dal pavimento fino al soffitto, cioè che aveva scoperto che la madre per molti anni aveva descritto le sua giornate scrivendo sul retro delle schedine del totocalcio.

Francesca Cardarelli

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Un acquario di plexiglass http://trasciatti.it/2012/01/29/un-acquario-di-plexiglass/ http://trasciatti.it/2012/01/29/un-acquario-di-plexiglass/#comments Sun, 29 Jan 2012 10:44:42 +0000 Trasciatti http://trasciatti.it/?p=1883

 Acquario, il fantaperiodico figurato di Liberta Edizioni, è arrivato al numero 4. Il titolo di questo numero è “Plexiglass”. Dopo averci scarrozzato tra la Terra e il pianeta Ramar, tra strani esseri come il mummulitto e Lerchi, e tra strani uomini come Crampal e Sania Olms, l’astronave di Acquario sembra essere a una svolta. Verso dove? Non si sa. Quello che è certo è che “Plexiglass” non spinge nelladirezione narrativa, piuttosto in quella poetica. L’unico testo lungo non è un racconto ma un carteggio (Carteggio rivarolese), affettuoso e lunare, tra due amici di vecchia data. La fantascienza è qui solo una vaga eco, un sottofondo, un ricordo che cede il passo ad una sorta di fantastico campestre. I due amici parlano con i bombi, con le lucciole, col gatto Stellamaris (nuova e ricorrente presenza anche in altri testi) e rievocano refettori, diaconi, suore, orfani di Albenga… tutto un armamentario di sapore crepuscolare che è come il rovescio delle incursioni nel fanta-sexy. Colpisce anche la lingua, raffinatamente letteraria, intessuta di scelti toscanismi. E se, in quest’ultima uscita, da una parte predominano i frammenti di prosa lirica o le illuminazioni in versi, dall’altra prolificano i disegni, gli schizzi, i ritratti di personaggi, le figurine naif: omìni, alieni, fantasmi incappucciati, insetti, tanti insetti… come a sottolineare che il giornalino prima di tutto si guarda e poi si legge, e si può anche sfogliarlo in avanti o all’indietro, senza una concatenazione determinata, senza un prima e senza un dopo. E anche stavolta Acquario ospita i contributi grafici di due artisti non fantasmatici ed emergenti: Andrea Mattiello e Niccolò Storai, più incline al pittorico il primo, al fumetto il secondo, entrambi capaci di entrare benissimo in sintonia con il clima di questa luogo acquatico e siderale. Ma dicevamo degli insetti. Questo della classificazione entomologica, del catalogo di reperti naturali è un altro tema che ricorre spesso e che è evocato, in esergo, fin dal primo numero, come un dichiarazione di poetica:

Di conchiglia in conchiglia

generazione

dopo

generazione,

la collezione si era

notevolmente ampliata.

Ora un’intera ala

della nave madre era adibita

a museo di storia naturale.

E poi ecco che in “Plexiglass” arriva, a ribadire il concetto, il misterioso Pik che pare avere tendenze tassonomiche enciclopediche e (forse) ciclopiche:

Mi chiamo Pik, catalogo reperti:

macerie universali, pesci fossili;

pietre che al buio brillano e alla luce

si fanno nere, oscure come inchiostro;

ho francobolli dai colori rari,

monete fuori corso sui pianeti

e certi librettini di figure…

Acquario è in vendita sul sito dell’editore (www.libertaedizioni.net) e presso L’Elefante Libreria del Fumetto, viale Europa 16 – Pescia (PT).

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Introduzione al mondo http://trasciatti.it/2012/01/26/introduzione-al-mondo/ http://trasciatti.it/2012/01/26/introduzione-al-mondo/#comments Wed, 25 Jan 2012 23:01:18 +0000 Trasciatti http://trasciatti.it/?p=1875

Idolo Hoxhvogli, Introduzione al mondo. Notizie minime sopra gli spacciatori di felicità, Scepsi & Mattana, Cagliari 2012.

Due frammenti

Come è fatto un romanzo di successo? (p. 48)

Questo è un romanzo di successo. La frase precedente è l’incipit. Faccia attenzione, si lascia leggere d’un fiato, altrimenti non sarebbe un gran romanzo, ma una vecchia barba che puzza di polvere. La narrazione scorre. Non si fermi. Non cerchi di capire riflettendo. Ogni frase di quest’opera – che sarà premiata a più riprese e dovrò disseppellire dalle targhette – una volta letta è letta per sempre, mai più bisognerà buttarci sopra gli occhi. È un gran romanzo talmente grande che non c’è bisogno di leggerlo più di una volta, perché tutto è chiaro sin dall’inizio. Non ci sono più livelli di lettura. Un’opera di successo non si permetterebbe mai di tener nascosto qualcosa. Con impegno, ogni anno che passa, mette in mostra onestamente il proprio nulla. È un gran romanzo, talmente grande da pesare due chilogrammi, così leggero da non pesare in testa con strane riflessioni. È un po’ radical, un po’ chic, a volte radical chic. È attento al sociale mentre strizza l’occhio ai potenti. Usa un linguaggio politicamente scorretto, ma in maniera corretta. È un volume già digerito e defecato. Appena si è seduto sulla tazza, l’ha terminato. Scorre bene. Il romanzo è finito. Le serve ora della carta, che non le manca: ha tra le mani cinquecento strappi.

Prostituzione per saltare le staccionate (p. 72)

La prostituzione è il fondamento del matrimonio, quindi della famiglia, in quanto funge da valvola di sfogo di pulsioni che nel nucleo familiare non trovano una corretta canalizzazione. Le linfe venefiche che percorrono gli sposi portano la casa allo sbando. La prostituzione è messianica. Libera la mente dai tarli, dalle perversioni nefaste, dai liquidi insalubri per la tranquillità di bimbi incolpevoli. La prostituzione affranca le famiglie dalle scorie putride che in queste si depositano. Come i cascami dei fabbricati fanno maturare tumori rapidi come gazzelle, così gli scarti dei bisticci fomentano la rottura. La prostituzione salva la vita, e in essa i matrimoni. Volete strangolare la vostra dolce metà? Fruite saggiamente della prostituzione. Tornerete tra le mura domestiche docili come agnellini. Ogni legame incontra ostacoli. Il ruolo principale, nella soluzione di un problema, è l’architettura dello stesso. Una prostituta vi aiuta a rappresentare il problema, che è risolvibile se a figurarlo è una mente serena perché ha goduto della prostituzione. La prostituzione aiuta dunque a saltare pericolose staccionate.

Idolo Hoxhvogli è nato a Tirana nel 1984. Si è formato negli studi filosofici all’Università Cattolica di Milano. Suoi scritti sono presenti in numerose riviste italiane e straniere, tra cui «Gradiva International Journal of Italian Poetry» (State University of New York at Stony Brook) e «Cuadernos de filología italiana» (Universidad Complutense de Madrid).

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