Il Trasciatti » Maccari http://trasciatti.it Lunario inattuale di letteratura e desueta umanità Tue, 22 May 2012 09:37:52 +0000 http://wordpress.org/?v=2.9.2 en hourly 1 Giovanni Maccari: Animali http://trasciatti.it/2011/07/22/giovanni-maccari-animali/ http://trasciatti.it/2011/07/22/giovanni-maccari-animali/#comments Fri, 22 Jul 2011 09:16:51 +0000 Trasciatti http://trasciatti.it/?p=1333

3. gabbiano
L’anno scorso siamo andati in un gruppo di gente sulla spiaggia a festeggiare il compleanno di Bernardo. Ci eravamo sistemati su un lato di una caletta molto bella che ci aveva insegnato Alessandra, una mia amica; gli adulti stavano sotto gli ombrelloni e i ragazzi facevano il bagno. Andavano a uno scoglio a pochi metri dalla riva su cui era possibile arrampicarsi e fare dei tuffi. Anna si era portata un’amichetta che si chiamava Elisa, che a un certo punto, come fa un certo tipo di bambine, ha stabilito di sabotare il compleanno di Bernardo, forse perché le mancavano i genitori oppure perché non si sentiva abbastanza investita dell’attenzione di Anna. È uscita dall’acqua e ha cominciato a dire che aveva freddo, si è avvolta in un asciugamano, teneva il naso in alto e guardava dall’altra parte quando uno le parlava. Anna le ha proposto di cercare le conchiglie, di fare una buca, di andare agli scogli, di giocare a carte, di farsi delle fotografie, ma non le andava niente, quel che voleva fare era starsene lì a mostrare la sua espressione insoddisfatta.

Allora ho fatto la proposta di andare dall’altra parte della caletta, dove c’erano degli scogli che promettevano di ospitare qualche piccola vasca di acqua ferma dove si poteva dare la caccia ai granchi o addirittura alle bavose. Era una cosa che fino a qualche anno fa avrebbe avuto una presa notevole, ma ormai i ragazzi erano grandi e non sono voluti venire.
Io sono andato lo stesso, per la mia tipica vigliaccheria di non poter vedere una situazione di stallo; e dopo un po’ Bernardo mi ha raggiunto, correndo e saltellando coi suoi movimenti scoordinati. Gli scogli in realtà non ospitavano vasche di acqua ferma. Siamo andati un po’ avanti per il gusto di balzare agilmente da un sasso a un altro; a un certo punto c’erano dei ragazzi che pescavano a canna e che erano intenti a gridare e a lanciare dei legnetti verso qualcosa che stava nell’acqua. Siamo andati a vedere che cos’era. Era un gabbiano. Ho domandato ai ragazzi come mai gli tiravano dietro della roba. Loro hanno detto che gli rubava il pesce, e hanno cambiato posto per pescare. Il gabbiano galleggiava nello spazio fra due scogli, mantenendosi fermo con dei piccoli colpi delle zampe palmate. Guardava dritto davanti e non sembrava stare male né bene; aveva ancora il piumaggio quasi tutto grigio, un esemplare molto giovane, quindi.

Fra me e Bernardo si è aperto un dibattito su cosa si dovesse fare; io sostenevo l’opinione ragionevole che non si dovesse fare niente, ma non era una certezza radicata in una vera coscienza ecologica, una questione di rispetto dei meccanismi naturali, ma più che altro pigrizia e volontà di evitare per esempio di dover adoperarsi, cercare il numero di qualcuno, la protezione degli uccelli o qualcosa di simile. Mentre Bernardo era animato soprattutto dalla curiosità, una forza ben più attiva e vivace, che fra l’altro in una forma consumata e arrochita dalla crosta degli anni agiva parzialmente anche in me.
Alla fine ho ammesso la tesi che il gabbiano potesse aver fame e ho accettato di andare all’ombrellone a prendere del pane mentre Bernardo restava a controllare i movimenti del gabbiano. Arrivato all’ombrellone, ho annunciato il ritrovamento del gabbiano e questo ha acceso in modo straordinario l’interesse di Anna. Anna è la tipica bambina che adora gli animali. Sono tornato indietro mentre Elisa e Anna mi correvano avanti. Naturalmente il pane lo portavano loro. Mentre correvano vedevo che Anna faceva dei gesti con le mani come per dire sì però bisogna stare attenti a non fargli male. Il mio ruolo nella vicenda era alquanto impallidito; sono arrivato lì, il gabbiano era praticamente nella stessa posizione; non si voltava neanche a guardare il pane che gli lanciavano i ragazzi, gli faceva esattamente lo stesso effetto dei legnetti dei ragazzi di prima.
Di nuovo si è aperto il dibattito, molto più acceso di prima a causa della presenza di Anna, che trovava assolutamente necessario che si facesse qualcosa. Io ho ribadito debolmente le mie posizioni, che in effetti mi sembravano buone anche dal punto di vista della tutela del gabbiano, ma erano screditate ai miei stessi occhi dalla loro connivenza con la mia bassa pigrizia. Me ne sono andato. Sono tornato ancora all’ombrellone, dove Francesca e gli altri (in verità erano tutte donne) a loro volta stavano discutendo del gabbiano, e per vari motivi erano tutte d’accordo che non andasse spostato da dove si trovava.

Era una giornata molto bella, anche se il vento era sbagliato, c’era uno scirocchetto che rendeva i colori, sia del mare che del cielo, più slavati e più opachi del normale, almeno a detta di Alessandra. A destra, in alto sulla scogliera, c’era una villa che era stata di Marta Marzotto, un edificio lussuoso e in una posizione scandalosamente piacevole. Dietro s’intravedeva un grosso residence che era entrato in qualche modo nelle losche faccende legate al capo della protezione civile, di cui appunto si parlava l’anno scorso. Forse i discorsi vertevano su quello, sulla gente che c’era sulla spiaggia o forse su un libro che qualcuno aveva letto. A un certo punto abbiamo visto Bernardo che correva verso qua e le bambine che lo seguivano girandogli intorno. Tutti gridavano (si gridavano di non gridare) e la gente si voltava incuriosita a guardarli. Bernardo teneva fra le mani il gabbiano.

Non era facile capire cosa avessero in mente, ma venivano in qua per l’esigenza incontenibile di fare qualcosa che stesse in relazione col gabbiano, per esempio provare a dargli una carota, del prosciutto o un uovo sodo invece del pane che aveva rifiutato, o forse volevano spostarlo o infine avevano in mente di convincerci, noi adulti, a mettere in atto un’azione incisiva per salvarlo. Il gabbiano non muoveva la testa, stava fermo fra la mani di Bernardo come se il proprio corpo non gli appartenesse, e come se in generale tutto quel che succedeva non potesse incontrare né la sua resistenza né una sua minima reazione. Bernardo l’ha posato per terra.
“Prendilo in mano” mi ha detto “non pesa quasi niente”
L’ho sollevato con cautela e non pesava niente, era incredibile. Un animale grande più o meno come un gatto aveva un peso trascurabile, per via degli ossi cavi che consentono l’enorme resistenza in volo dei gabbiani.

Sono seguiti vari tentativi di nutrirlo, poi di sollecitarlo per vedere se andava, se faceva qualcosa, se provava almeno ad aprire le ali. Tutti si sono scoraggiati. Così è stato deciso di riportarlo in sede e Bernardo è ripartito di corsa attraverso la caletta. Ora la novità era che il gabbiano non sembrava più in grado di tenere il collo dritto, gli crollava la testa da una parte; ma se Bernardo si fermava e lo posava per terra, allora si rimetteva in piedi e se ne stava fermo come una statuetta. Anna correva avanti e indietro, e poi Elisa e lei hanno visto per terra dei sassolini che brillavano, delle conchiglie, occhi di Santa Lucia, e hanno iniziato a raccoglierle. Sono venute a chiedere un secchiello, ma non c’era, era da qualche anno che non avevamo più secchielli. Ho tagliato una bottiglia di plastica e hanno fatto con quello il recipiente.
Dopo c’è stato il pranzo, un altro bagno, altre cose: ogni tanto veniva fuori il discorso del gabbiano ma tenuto sottovoce, dato che Anna e anche Bernardo sembrava che se ne fossero un po’ dimenticati. Dovrei dire che il cielo era del tutto terso a parte un lento convoglio di nuvole che si muoveva basso sull’orizzonte; e offuscava un po’ l’aria, questo è vero, come se propagasse un’onda di leggero pulviscolo che si spargeva dappertutto, anche nell’acqua, che pigramente si gonfiava e rovesciava sulla spiaggia con un rumore di ciottoli spostati. Eppure il sole picchiava e c’era odore di salmastro, delle piante odorose che ricoprivano la scarpata alle spalle della spiaggia, sicché tutti cadevano in quel torpido stato di calore e spossatezza caratteristico dei pomeriggi in spiaggia. La gente entrava e usciva dall’acqua, e sulle spalle dei ragazzi, sulle maestose spalle di mia figlia Anna, si formavano dei fili di gocce che evaporando, in seguito, lasciavano una minuscola traccia di sale.

I ragazzi sono andati a vedere come stava il gabbiano. L’hanno trovato a ridosso di uno scoglio, che ondeggiava al ritmo della risacca. Non si capiva se era lui che era arrivato allo scoglio o se ce l’aveva portato la risacca. Allora i ragazzi di nuovo l’hanno preso, questa volta era Anna che lo stringeva fra le mani, e gli hanno fatto rifare la traversata della spiaggia, fino in fondo, e questa volta la testa era del tutto crollata come la manica di una giacca. Sono arrivati all’ombrellone, si è creato un capannello, la maggior parte degli adulti elevava delle recriminazioni perché fin dall’inizio ognuno aveva detto che non andava toccato, né spostato, anche se questo non significava che sarebbe stato meglio, forse avrebbe lo stesso reclinato la testa perché era troppo indebolito, un esemplare giovane, forse caduto dal nido. E così l’unica soluzione è sembrata metterlo in una piccola grotta che almeno era all’ombra, un po’ più in là, riparato, e sperare che per qualche motivo gli tornassero le forze.
Ho seguito personalmente le operazioni di ricovero: il gabbiano è stato messo nell’acqua sotto un sasso ricurvo che faceva ombra, in uno spazio protetto dalle onde grazie a due scogli piatti che fermavano la corrente. Faceva fatica a stare in sesto, anzi tendeva a ribaltarsi di lato, come una barca senza chiglia. Siamo rimasti un po’ a guardarlo e poi ci siamo allontanati; abbiamo detto a dei bambini che giocavano lì intorno di non andare a disturbarlo (quindi i bambini sono subito corsi a dargli un’occhiata, anche se senza avvicinarsi).

In quella cala, che è particolarmente a ridosso della scogliera, il sole tramontava presto, e inoltre c’era da tornare a casa, fare tutti la doccia e poi vestirsi per andare al ristorante. Mano a mano che l’ombra conquistava una fetta della spiaggia, quelli che c’erano prendevano la roba e si avviavano verso le macchine. Noi eravamo fra gli ultimi (Alessandra ci aveva insegnato la parte dove il sole se ne va più tardi) e quindi quando abbiamo cominciato a radunare le cose la spiaggia era praticamente vuota. Tutti i rumori si sentivano più forte, più distinti: il mare che sciabordava e gli strilli dei gabbiani che arrivavano sempre più vicini a cercare gli avanzi da mangiare. L’uomo degli ombrelloni, un uomo enorme, tatuato, con una moglie brasiliana e un figlioletto buffo, nero con i capelli biondi, si era messo a svuotare i bidoni della spazzatura. Così ci siamo incamminati lungo lo stradello che, arrampicandosi sulla scarpata, porta alla strada asfaltata e di lì al parcheggio a pagamento. Prima di andare però siamo andati a controllare come stava il gabbiano, e abbiamo visto che era morto. Mentre dall’altra parte della spiaggia, dove l’uccello era stato avvistato per la prima volta, c’era un gabbiano adulto che saltava sugli scogli e poi prendeva il volo; poi ne arrivava un altro, un altro ancora, si buttavano giù e ripartivano rapidi con delle ampie giravolte, accompagnate da alte strida. Forse cercavano il gabbiano morto, o forse si contendevano il pane che i ragazzi gli avevano gettato.

[Agosto 2010]

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Giovanni Maccari: Animali http://trasciatti.it/2010/10/27/bestiario-domestico/ http://trasciatti.it/2010/10/27/bestiario-domestico/#comments Tue, 26 Oct 2010 22:27:00 +0000 Trasciatti http://trasciatti.it/?p=713

1. pappagallo

Oggi ho capito che in realtà il pappagallo non è pagato dai servizi segreti per farmi saltare i nervi, è solo vittima a sua volta della situazione. È vittima di una sindrome compulsiva per cui quando la luce è accesa deve dondolarsi sulla sua altalena. L’altalena è fatta di un bastoncino e di due fili di ferro curvi alle sommità, che sono appese al sopra della gabbia. Questa altalena cigola, più forte quando il pappa accelera e più piano quando rallenta.
Il pappagallo inoltre, se la luce è accesa, ha un’altra sindrome compulsiva che consiste nel cantare, cioè produrre dei suoni di spaventosa acutezza e intensità. Lo si può mettere fuori, in terrazza, si sente solo il sottofondo dell’altalena che cigola e il suo canto tropicale in concorrenza coi versi degli uccelli locali.
Il suo obiettivo, quando è in gabbia, è uscire. Quando è fuori e mi cammina sulle spalle o mi si posa sul pollice, il suo obiettivo è strapparmi le pellicine vicino alle unghie o beccarmi le orecchie. Sale sul bordo del computer, si gira in modo che il culo è dalla parte dello schermo e poi deposita la sua piccola cacca, una minuscola cacca che però corrode, essendo acida. In casa mia in dei punti ci sono dei depositi di guano, questo succede anche perché non passo quasi mai lo straccio.

In compenso non faccio altro che aspirare, nel qual caso il pappagallo mi si sistema sulla spalla, molto vicino all’orecchio, e canta, ovvero emette i suoi fischi laceranti. Questo dipende da una terza sindrome compulsiva di cui soffre il pappagallo, che è quella di entrare in concorrenza con qualunque rumore e quindi anche con quello dell’aspirapolvere. Lo scaccio via con la mano e lui fa un volo e torna, come se fosse assicurato alla mia spalla per mezzo di un elastico.

Per acchiapparlo, quando è fuori e si accorge che lo voglio rimettere in gabbia, allora non ci vuole andare e comincia a sfuggirmi con una tecnica astuta. Vola in cima alla porta e quando io mi avvicino plana su una lastra di granito appesa al muro, un’opera d’arte contemporanea. Mi avvicino alla lastra e lui atterra sul computer, poi di nuovo la porta, poi la lastra. Alla fine mi si posa sulla testa e cautamente allora mi dirigo verso lo sgabuzzino, entro, chiudo la porta.
Al buio il pappagallo perde i suoi superpoteri, diventa un’altra cosa. Lo prendo in mano e lo accarezzo sulla testa, è una cosina piccola e indifesa, una testina rossa, il becco adunco, le ali verdi e arancioni.

Se avessi una casa più grande gli comprerei una voliera da tenere in terrazza, una terrazza grande, con un bel panorama sulla parte sud di Firenze.
Non lo terrei sempre in gabbia, lo farei uscire lo stesso. D’inverno lo terrei in una delle molte stanze di quella casa grande col parquet per terra, anzi con le liste di legno. I bambini avrebbero una camera per uno e io passerei per il corridoio gridandogli che se non mettono a posto non si esce per andare al cinema.
Con una casa grande, molti soldi, la coscienza a posto, la situazione sarebbe molto migliore e se ne avvantaggerebbe di sicuro anche il pappagallo. Non guarirebbe mai dalle sue sindromi, perché anche l’altra volta il dottore mi diceva che nessuno guarisce dalle sue nevrosi: solo che i sintomi sarebbero leniti, la sua vita di colpo gli sembrerebbe accettabile.

2. gatto
C’era una volta un gatto molto anziano che in seguito alla morte della sua padrona era rimasto solo in una casa vuota, dove andava una donna ogni due giorni a dargli da mangiare.
Dopo tre o quattro mesi un amico della padrona andò a prenderlo con una gabbietta e lo portò a casa sua, a Firenze, in una di quelle vie che ci sono fra piazza Oberdan e il cavalcavia. La mattina l’amico della padrona se ne andava, ma il pomeriggio era di nuovo in casa, e spesso apriva una portafinestra in modo che il gatto potesse andare in terrazza.
A volte telefonava qualcuno: allora l’uomo si metteva in poltrona e iniziava a parlare grattandosi la testa.

Il gatto soprattutto aveva scelto due posti: uno in camera e uno nello studio, e all’inizio tendeva a stare nella stessa stanza dove era l’amico della padrona, ma in seguito questa abitudine si era offuscata.
I due posti erano una branda pieghevole con un cuscino sopra (nello studio) e l’estremità sinistra del divano letto (camera), anche lì in corrispondenza di un cuscino.
Quando l’amico entrava in casa il gatto non se ne accorgeva neanche da quanto era sordo. Era anche quasi cieco. I suoi occhi celesti da siamese erano senza luce, come pietre opache, e così l’andatura era alquanto sbilenca. Eppure la gente che veniva lo giudicava un bel gatto e quando apprendeva la sua età (19 anni) diceva: «chissà come era bello da giovane».

Essendo molto vecchio era curioso osservare come questo gatto avesse delle fissazioni come hanno le persone anziane. Se non trovava il cibo per esempio, e soprattutto l’acqua, si metteva a miagolare con un’intensità e un senso di strazio che a sentirlo rimescolava il sangue.
Qualche volta, anzi praticamente sempre, emetteva questo miagolo atroce anche spostandosi da una stanza all’altra, caracollando sulle zampe malferme (soprattutto quelle posteriori), e allora dava l’impressione di essersi perso nel mondo, come un vecchio che se gli cambi casa non capisce più niente.

Ogni tanto l’amico della padrona alzava anche la voce contro il gatto, pur sapendo che era inutile, ma obbedendo unicamente al bisogno di sfogare la sua esasperazione. Quando per tanto tempo stava chiuso in casa senza fare quasi niente, e non veniva nessuno, non chiamava nessuno, solo gente che all’amico procurava delle noie o non faceva piacere.
Allora il gatto iniziava a miagolare e il pappagallo cominciava a strillare per tutta risposta. C’era un ronzio di sottofondo nella casa, dato dall’eco del traffico nelle strade vicine e da una specie di elettricità che passava fra i muri del condominio. L’uomo si alzava spesso e poi si rimetteva a sedere. Poi magari andava in camera per prendere una cosa e trovava che il gatto aveva vomitato sulla stuoia, o sul divano, sul cuscino, dappertutto meno che sul pavimento, dove sarebbe stato facile pulire.

Ecco allora che l’uomo alzava la voce contro il gatto, non perché avesse un senso, ma per sfogare la sua frustrazione dovuta a un insieme di cose.

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