Il Trasciatti » Dal Falco http://trasciatti.it Lunario inattuale di letteratura e desueta umanità Tue, 22 May 2012 09:37:52 +0000 http://wordpress.org/?v=2.9.2 en hourly 1 Nicola Dal Falco: Storie etrusche di vino http://trasciatti.it/2012/02/26/nicola-dal-falco-storie-etrusche-di-vino/ http://trasciatti.it/2012/02/26/nicola-dal-falco-storie-etrusche-di-vino/#comments Sun, 26 Feb 2012 18:37:49 +0000 Trasciatti http://trasciatti.it/?p=1983

STORIE ETRUSCHE DI VINO NELLA MAREMMA GROSSETANA
I progetti di ricerca sul campo, condotti dall’Università di Siena

«È possibile che nell’attuale vegetazione dell’Etruria, in particolare nella fascia tirrenica della Toscana e del Lazio settentrionale, siano sopravvissuti lembi del paesaggio vegetale etrusco»?
Questa è la domanda che si sono posti Andrea Ciacci e Andrea Zifferero, docenti del Dipartimento di Archeologia e Storia delle Arti dell’Università di Siena. Domanda lampante che ha il pregio di riunire il passato e il presente non solo attraverso la scoperta e lo studio di architetture, di oggetti o di ossa, ma di farci percepire la continuità spaziale e la forza vitale del concetto, forse troppo scolarizzato, di storia.
Uno scavo o un museo rappresentano già delle esperienze forti, interrogative, che nel caso del paesaggio e delle sue forme viventi diventano addirittura uniche.
Capaci, insomma, di creare quella vertigine che accompagna, passo dopo passo, il processo di conoscenza e quello connesso di memoria.
Il progetto Vinum, nato nel 2004, con una visione multidisciplinare che affianca all’archeologia, la botanica e la biologia molecolare, punta a dimostrare quanto e come le popolazioni superstiti di vite selvatica siano imparentate con piante di età molto antica.
«Dal punto di vista paleobotanico – sostengono i due studiosi – il recente ritrovamento di vinaccioli di vite silvestre in siti della media età del Bronzo associati a vinaccioli più vicini, sotto il profilo morfologico, alla vite coltivata, evidenzia la presenza di una vitivinicoltura arcaica in area tirrenica.
«Uno dei postulati del progetto ha tentato di istituire un collegamento tra la difficile, ma oggi non più impossibile caratterizzazione del DNA dei reperti paleobotanici con il germoplasma della vite selvatica attuale».
Le ricerche si sono concentrate intorno ai siti archeologici etruschi e romani dove emergevano importanti indizi legati alla vitivinicoltura: «trincee di coltivazione della vite, palmenti, abbondanza di contenitori per la conservazione e il trasporto del vino».
Prelevando il germoplasma dalle infiorescenze e dalle foglie apicali delle piante risulterebbe che la diversa caratterizzazione genetica sia attribuibile alle varie fasi di domesticazione delle specie da parte delle comunità residenti.
Contemporaneamente, osservando il portamento della viti selvatiche, abbarbicate agli alberi, si è approfondita l’evoluzione del vigneto etrusco, mettendolo in relazione con le antiche tecniche di coltivazione superstiti, ancora visibili in Italia, sia di derivazione etrusca come in Romagna e nel Casertano dove i tralci si sviluppano in altezza, sposandosi al pioppo, sia più squisitamente greche, presenti nell’isola del Giglio e in Sicilia.
In quest’ultimi casi, per l’Ansonica/Inzolia, che non si eleva troppo da terra, geneticamente vicino ai vitigni greci Roditis e Sideritis, giunti probabilmente nella penisola con la colonizzazione euboica nell’VIII secolo a.C., perdura l’uso di graticci di canne.
Dal progetto Vinum ne sono scaturiti altri due che circoscrivono precise aree geografiche.

La valle dell’Albegna
Il primo, ArcheoVino, in collaborazione con il comune di Scansano, nella Maremma grossetana, interessa la località Ghiaccio Forte e gli insediamenti etruschi e romani tra la valle d’Albegna e il fosso Sanguinaio, dove potrebbe sorgere un parco a tema, il cui principale richiamo sarà la produzione di un vino quotidiano non troppo distante dal più remoto genius loci e dalle originarie possibilità dei produttori etruschi.
Il secondo, battezzato Senarum Vinea, che partendo dagli orti dentro e fuori le mura di Siena, servirà a mappare i vitigni minori e autoctoni, miracolosamente sopravvissuti in un tessuto urbano alla massificazione e omologazione agricola, contribuendo così a salvare un frammento di biodiversità.
La valle dell’Albegna ha avuto ed ha tuttora un’importante vocazione vitivinicola. Un tempo, il vino, grazie alle rotte commerciali che facevano capo al golfo di Talamone, era anche venduto a Liguri e Celti, ed oggi la tenuta di Marsiliana, proprietà dei Principi Corsini, oltre a produrre da vigneti recentemente impiantati, conserva importanti necropoli, scavate fin dai tempi di Don Tommaso Corsini che vi scoprì l’omonima fibula, rinvenuta in una tomba non lontana dal colle del Castello.
In questo lembo di terra, paragonabile, dal punto di vista archeologico ed agricolo, ad un vero e proprio palinsesto, sono stati individuati due esemplari di vite selvatica che presentano notevoli analogie genetiche e morfologiche con il sangiovese e il canaiolo nero.
La scoperta, avvenuta battendo palmo a palmo le aree boscose e umide intorno ai siti, autorizza a pensare che la campagna di Scansano fu uno dei teatri naturali in cui prese avvio la domesticazione della vite.
Un lungo processo che ha inizio nell’età del Bronzo, quando vengono individuate delle piante, generate dai semi dispersi negli immondezzai dei villaggi agricoli e che prosegue, successivamente, tra il X e il VI secolo a. C., con una selezione continua, legata alla produttività e alla qualità.
In base ai dati raccolti, intorno all’VIII secolo a. C., la produzione di vino diventa centrale per l’economia della valle dell’Albegna, che si trova nell’area di influenza di Vulci.

Il tumulo 6 di Macchia Buia
A questo proposito è sicuramente indicativa la scoperta, avvenuta ad ottobre del 2011, del tumulo 6 nella necropoli di Macchia Buia, Durante gli scavi nella tenuta del Principe Corsini, effettuati durante il III Campo Internazionale di Ricerca Archeologica, condotto dalla Associazione Etruria Nova Onlus, sotto la direzione di Andrea Camilli, dirigente della Soprintendenza archeologica della Toscana e di Andrea Zifferero, professore dell’Università di Siena.
All’interno della sepoltura, inquadrabile in quel periodo, sono stati rinvenuti i resti di un individuo dalla corporatura massiccia, avvolto in uno stretto sudario e probabilmente adagiato su un letto basso, il cui scheletro si presentava in discreto stato di conservazione.
Le analisi di questi resti sono state affidate a Stefano Ricci, docente dell’Università di Siena, che procederà anche ad una ricostruzione dei dettagli del volto.
Ai piedi del defunto sono stati rinvenuti i resti di un secchio che contiene ancora uno strato di materia bianca, il cui contenuto verrà analizzato nei prossimi mesi.
Accanto sono state, poi, scoperte delle tazze da vino in ceramica nera che, al momento della chiusura del tumulo, dovevano essere appese lungo una delle pareti della camera.
Ma il dettaglio più emozionante del tumulo 6 di Macchiabuia, già depredato dagli scavatori clandestini, sono le due coppe trovate all’altezza della mano destra.
Il defunto avrebbe continuato a libare agli dei e a se stesso anche nell’aldilà.

(In alto: l’antica tecnica di coltivazione della vite)

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Nicola Dal Falco: Lungocosta http://trasciatti.it/2012/01/31/1908/ http://trasciatti.it/2012/01/31/1908/#comments Tue, 31 Jan 2012 17:33:28 +0000 Trasciatti http://trasciatti.it/?p=1908

LUNGOCOSTA
Scolii al portolano
tirrenico di M.M.

Come antidoto all’ubbia, in giornate fredde, ma serene, totalmente all’asciutto, ben dentro la terraferma, ho commentato a modo mio i disegni e gli avvertimenti di un portolano tirrenico, pubblicato più di quarant’anni fa e perciò quasi del tutto superato. In quel quasi ho trovato diletto. Le frasi didascaliche (in maiuscolo) sono copiate dall’autore del trattatello di navigazione mentre i commenti sono in corsivo.
Gli ultimi due scorci si riferiscono all’Elba.


La Spezia

Due pagine consecutive, interamente occupate dal disegno del golfo, ripreso dall’alto: a sinistra la visione notturna, a destra quella diurna. La terra, tratteggiata di nero, delinea in negativo il profilo della rada come una testa o un albero su cui lumeggiano i fari.
Nella mappa successiva (a fari spenti) appaiono i nomi e il braccio di mare scompare tra le fauci della costa.
Curioso che in fondo al golfo, si aprano a ventaglio la Zona militare, il Porto commerciale e un’area indicata dalla parola DEMOLIZIONI.
Guerra e commercio con l’inevitabile, corteggiata, pausa a cui alacremente tendere.

A PORTIGLIONE C’È IL CAPOLINEA DI UNA TELEFERICA PER IL CARICO DELLA PIRITE

Trovo che il disolfuro di ferro, di un giallo civettuolo che gli ha fatto meritare il soprannome d’oro degli stolti, cesellato in cristalli cubici, pentagonododecaedrici ed anche ottaedrici – dorico nelle striature triglife che si alternano in senso longitudinale – sia perfettamente in simbiosi con l’accesso alla fiumara di Portiglione, poco più in là di quello scalo o porto d’antichi.
Una via d’acqua tortuosa che il portolano precisa passo passo, con disegni ingenui e febbrili, quasi volesse semplificare al massimo, fissandola in mente al punto da percorrerla ad occhi chiusi.
Simbiosi che nasce, in primo luogo, da un’osservazione di carattere generale.

NEL GOLFO DI FOLLONICA IL MARE È QUASI SEMPRE MANEGGEVOLE ANCHE QUANDO FUORI È MOLTO BRUTTO. FREQUENTI BARRE E BASSIFONDI LUNGO LA COSTA CHE È SABBIOSA.

Tutto quello che è a portata di mano, per occhi acquosi e avidi, luccica ingannevole come la pirite. Un mare maneggevole appunto, facile.
A sua volta, l’inganno non sta nel celare, ma nel mostrare il pericolo, danzandoci accanto.

LE BARCHE SEGUONO UN CANALE CON FONDALI MINIMI DI CIRCA UN METRO CHE PASSA DAL LATO DI TERRA DELL’ORMEGGIO DELLE VECCHIE CHIATTE.

Dalla chiglia al fondo l’altezza non supera quella di uno sgabello. La barca procede su un inguine, tra fango e alghe.

VERSO LA META’ DELL’ORMEGGIO CHIATTE SI PUNTA VERSO TERRA COME PER PASSARE GIUSTO IN MEZZO AI DUE TRALICCI CHE SONO INFATTI BASATI IN MARE. PER ENTRARE NELLA FIUMARA SI LASCIA A SINISTRA IL TRALICCIO PROSSIMO ALLA FOCE.

Con mare calmo, il bassofondo rossiccio si distingue facilmente dal blu del
canale. Diversamente, tutto illanguidisce nel dubbio. Ma come premio al zig zag, c’è un grumo di case.

IL COVO.

Buffo e tenero questo scalpicciare fino al canale di scolo del Padule di Scarlino che raccoglie anche le acque del torrente Pecora e che, periodi di magra a parte, s’allunga non più di duecento metri, subito sbarrati da un ponte.
Tanto basta, però, per fare locanda. Ripenso ancora alla pirite che oltre al debole valore minerario, occupa lo sguardo con quel suo sistemarsi in figure regolari, in angoli, in rotte? Minime.
Dopo Portiglione, il portolano che sto consultando riporta tre nomi: cala Maritima, cala Violina che nel 1968 venivano definiti “due posti per fare il bagno in pace!”
L’autore lo sottolinea ed enfatizza con un punto esclamativo, capace da solo di produrre quella sensazione di vuoto che, oggi, i paesaggi perlopiù nascondono o sbattono in faccia, inestricabilmente avvinta a panorami di abbandono. L’effetto pare simile, ma in realtà il vuoto qualifica uno spazio imponderabile mentre un posto abbandonato, al contrario, finitizza il vuoto.
Contraddizione in termini e di conseguenza estraniante. Il terzo nome è Torre della Civetta alla foce dell’Alma.
Oltre, la costa piega verso il largo a formare un’ala, seminando in mare gli scogli Porchetti e l’isolotto dello Sparviero, dove due frecce, altrettanto esclamative, convergono da nord e da sud, tirandosi dietro il tu di una frase imperiosa e al tempo stesso rassicurante.

Puoi passare tra lo scoglio grande e i PORCHETTI

Quest’ultimi sembrano riecheggiare il vecchio toponimo di punta Troia, ancora esistente, ma riassorbito dal più aereo punta Ala. Addirittura aeronautico visto che saltò in bocca ad Italo Balbo mentre sorvolava il promontorio, diventato quasi un’appendice corporea e personale per l’aviatore che, innamoratosene, ammarò e comprò settecento ettari, appartenenti, negli anni Trenta, al Cottolengo.
Punta Ala in omaggio agli idrovolanti di base nella laguna di Orbetello.
Per punta Troia e i suoi Porchetti bisogna risalire, forse, più indietro nel tempo ad altri fasti, a quel porcus troianus, servito intero alla mensa di Trimalcione.
Troianus, perché gravido non di Achei, ma di uccelli arrosto. Il più familiare “troia” deriverebbe, da qui, il suo doppio senso.

Bocca d’Ombrone c’è ancora il paesaggio vuoto e drammatico della antica maremma. IMPONENTI BANCHI DI SABBIA SI SPOSTANO ALLA FOCE

E si mineralizzano, onde comprese, come in un quadro di Carrà. Ci vuole una mano primitiva e un occhio ossessionante per dipingere la piatta solitudine di simili marine, dove cielo, mare e terra sedimentano senza aria o con un tale vento che asciuga i pensieri.
Fantastico sulla bocca e il labbro nord dell’Ombrone, teatro in versi di un’elegia tirrenica, quella di Rutilio Namaziano, del suo Ritorno in Gallia.
Il diario riporta, il 20 novembre del 415 o del 417 dopo Cristo, terza tappa dopo la partenza da Portus Augusti, un attendamento di fortuna.
Lui vorrebbe entrare nel fiume, ma i marinai insistono per proseguire fino a che il vento cala e scende la sera. Allora:

Litorea noctis requiem metamur arena
Tracciamo un campo notturno sulla spiaggia
dat vespertinos myrtea silva focos
un boschetto di mirti offre fuoco alla sera.
Parvula subiectis facimus tentoria remis
Facciamo piccole tende con i remi
Transversus subito culmine contus erat
E un palo di traverso, tetto improvvisato.

(Einaudi, traduzione di Alessandro Fo)
AMPIE SPIAGGE LUNATE… Attenzione al LIBECCIO che scende dalle colline a raffiche rabbiose.

Qui, la costa ha fianchi che lo sfiorano e l’astro pare entrarvi.
Poi, però, l’avviso disegna una falange, un rettangolo, fatto di minuscole piramidi, che dai rilievi punti e scacci ogni indulgente chiaro di luna.

Capo d’Enfola durante la stagione viene avvicinato dai TONNI.

Il gran pelagico, dicono, abbocchi quando si è distratti o fuori di pensiero.
Fuori, mentre lui il tonno naviga, con pelle ed occhio d’abisso, dentro quel blu
di cui è tinto e che la velocità muta in acciaio.
Forse, per morire, da giugno a settembre, sceglie il più distratto ed inumano.

 (Foto di Claudio Gaiaschi)

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Nicola Dal Falco: Pantano dei granchi http://trasciatti.it/2011/12/22/nicola-dal-falco-pantano-dei-granchi/ http://trasciatti.it/2011/12/22/nicola-dal-falco-pantano-dei-granchi/#comments Thu, 22 Dec 2011 10:01:30 +0000 Trasciatti http://trasciatti.it/?p=1758

A Pantano non manca l’acqua. Una volta c’era un fontanile che chiacchierava fitto con la strada bianca e nei giorni d’afa faceva accelerare il passo anche a chi non avesse la gola proprio secca.
L’acqua che scorre ha lo stesso potere di una voce che canta alla finestra o si perde nelle lontananze del campo.
Allora, salendo dal basso, si raggiungeva il fontanile passando davanti alla casa e costeggiando la scala esterna.


Facile immaginarsi che qualcuno, o molto giovane o molto vecchio, potesse usarla come un belvedere sopra il timido viavai di animali e persone, dirette al podere, verso Cerqueto ed oltre, a Castel di Fiori.
Ripensandoci bene, acqua e parole appartengono al genio del luogo, restano legate all’evidenza del nome e a quel paracarro sul lato della casa che guarda a sud.
Non era una strada larga e chi salisse o scendesse camminava avendo per un buon tratto sottocchio la facciata di pietra.
Una parete rosata e grigia con ampi squarci ricuciti a mattoni.
Tratti di muro che assomigliano a quadrati di carne viva.
Per il resto, dove la tessitura di piccoli sassi e schegge di cotto circonda le pietre una ad una, affiora una geometria di squame, un paziente gioco d’incastro.
Ora, la strada è stata spostata a una certa distanza, abbracciando la casa con una generosa curva, così che l’ampiezza dell’angolo e la siepe che la delimita interrompono il frastuono delle automobili e per qualche secondo sembra che ne siano come inghiottite.
Quell’improvviso silenzio resuscita una suggestione più forte: un rumore notturno di passi a cui, dopo il primo ringhiare dei cani, risponda la stalla. In origine, tutto il piano terra era un’unica stanza di fermenti e tepore.
Sopra, ricorda qualcuno, il massaro, di tanto in tanto, interrompendo il discorso, alzava il mattone del pavimento, accarezzando con l’occhio il dorso delle chianine.
Probabilmente il fontanile distrutto raccoglieva l’acqua della sorgente che si trova nel bosco e goccia dal pendio, in un punto folto, come un inguine, di ciuffi d’equisetum.
L’anno scorso, lavorando intorno alla vecchia cisterna, sradicato l’ultimo masso lungo il fosso, è apparso in tutto il suo battagliero stupore un granchio, ferito di striscio dal colpo di pala.
Proprio un granchio che mi ha fatto ricordare le reliquie di corazze e di chele, trovate sparse nel pratone di fronte alla casa.
Le avevo pure raccolte e disegnate, ma senza che la cosa mi spingesse a farmi delle domande. Mi rendo conto che certe sorprese finiscono immediatamente e misteriosamente su uno scaffale a vivacchiare in attesa.
Forse, il vero motivo è che così come sono uscite rientrano nello sfondo, nella scena che contempli, ricreando ogni volta un affetto e una comprensione vicini alla macchia, al gioco di piani, ad una certa dose di luce più che al singolo, conturbante dettaglio.
Quando, finalmente, lo fissi, la vaghezza d’insieme è già dissipata.
Sono passati dei mesi dall’agonia del granchio alla fonte e un’altra visione si carica di senso.
Oltre il pratone, tra giovani ulivi e olmi mischiati in cosciente abbandono, si è svelata un’ecatombe d’estate.
In meno di un metro quadrato sono ammucchiati i resti di una ventina di granchi. Non so quale possa essere il motivo. Forse un viaggio interrotto, il trofeo di un nemico naturale o un luogo d’esequie?
Più misuro lo spazio che li contiene e più riconosco la formidabile mano del caso, sempre imitata a partire dalla stanza non spazzata, dall’asaraton oikos, quel tipo di mosaico ellenistico, ideato da Sosos per la stanza del triclinio e decorato con resti di cibo.
Come lì anche nel prato, l’occhio ha cercato un equilibrio di vuoti e di pieni. L’ordinato disordine si è fatto composizione, da ludibrio a sintassi di forme.

(In alto: Il prato non spazzato)

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Nicola Dal Falco: Sul grande fiume http://trasciatti.it/2011/12/05/nicola-dal-falco-sul-grande-fiume/ http://trasciatti.it/2011/12/05/nicola-dal-falco-sul-grande-fiume/#comments Mon, 05 Dec 2011 09:28:01 +0000 Trasciatti http://trasciatti.it/?p=1713

Il fiume copre l’orizzonte, bagna la linea fin dove giunge lo sguardo. Nella stagione secca i contorni sfumano, non c’è la pioggia con i suoi violenti rovesci a dissolvere la foschia, avvicinando d’incanto i profili lontani.
Tutto rimane avvolto in un’aria stagnante, in un tremolio di braci al punto che le isole sembrano staccarsi e fluttuare secondo i capricci della corrente.
Il bollore che sale fa tremare la punta della canne palustri come il brodo di una pentola. Il fiume Zaire scorre in un’apparente immobilità, avvolgendosi nelle pieghe del letto che davanti a Kinshasa si allarga per più di venticinque chilometri, dando vita poco prima della foce ad un grande estaurio interno, il pool Malèbo.
Acqua primordiale, prima corrente che si è aperta un passaggio nella morsa del fango.
Seduti alla terrazza dello Yacht Club di Kinshasa, l’altoparlante diffonde una musica da colonna sonora, sempre uguale.
Un’eterna sigla in cui i titoli di testa continuano a scorrere senza che il film inizi davvero.
La sensazione netta, oppressiva, di attesa si legge negli sguardi, galleggia nelle conversazioni dei presenti, puntuali i fine settimana come tutti i fine settimana.
I motoscafi, allineati nel porto canale, sono già carichi di frigo portatili, sedie, tende e bocce.
Arlette ha pure pensato al budino.
Fin dal mattino, le barche dei residenti europei infiorettano otto, slalom più o meno riusciti per evitare i banchi di sabbia, brutali come la schiena di una balena.
Quando il fondo artiglia lo scafo, spingendo l’elica fuori, ai bagnanti non resta che smontare e spingere fino ai bordi del canale.
E la corsa riprende tra siepi galleggianti di giacinti d’acqua, meta uno dei tanti isolotti bianchi su cui drizzare una tenda tricolore per il pic nic.
Le ore passano scandite in ogni quarto, lentamente.
Potremmo essere in villa, in una qualsiasi campagna d’Europa.

Prima che arrivino le zanzare
Tuttavia, se a tavola si beve un Bordeaux servito da una bottiglia appena imperlata di ghiaccio, stoviglie e bicchieri si riciclano dopo una veloce sciacquata nel fiume.
Mentre passa l’arrosto passa anche una piroga di zairesi, uno rimane in piedi spingendo con la pertica sul fondo, l’altro si tuffa e nuota davanti cantando.
A volte solo un breve braccio di fiume separa due “giri” diversi. Sempre di bianchi si tratta, ma divisi da gusti e abitudini così diversi da costituire altrettante tribù sopraffatte da irrimediabili etichette.
La sfida a bocce continua; le signore sono più brave ad avvicinare il pallino.
Nel fervore del gioco le lingue si mutano in un idioma franco-italo-fiammingo.
A Mano a mano che il sole scende dietro le torri di Kinshasa, la linea bluastra della riva si scurisce e le cornacchie si avvicinano, stringendo i voli intorno al campo.
Conoscono l’ora. Ancora un po’ e tutto verrà ripiegato, arrotolato, rinscatolato a tempo di record.
Rimarranno solo le impronte sulla sabbia granulosa.
Sul grande fiume non si sono boe per indicare la via del ritorno, si naviga a vista e l’idea di una birra gelata al bar del circolo, prima che le zanzare scendano a stormi, fa spingere sul gas.

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Nicola Dal Falco: Il cavallo di Platone http://trasciatti.it/2011/11/17/nicola-dal-falco-il-cavallo-di-platone/ http://trasciatti.it/2011/11/17/nicola-dal-falco-il-cavallo-di-platone/#comments Thu, 17 Nov 2011 09:10:47 +0000 Trasciatti http://trasciatti.it/?p=1649

Vincenzo è uno dei pochi che quando viene al Pantano per cacciare tartufi, entra ed esce con passo leggero, silvano.
Riconosco la macchina, ma, a volte ho l’impressione che un suo doppio sottile, vi abiti in permanenza, comparendo quando meno te lo aspetti o proprio perché te lo aspetti.
In un tempo immemorabile, la natura mischiava le forme, le teneva vicine e anche un essere umano poteva mostrare le fattezze di un luogo o viceversa.

Ecco spiegate le ninfe, i fauni, i centauri. Figli come un masso o una siepe di pruni di quella collina, di quel pianoro, di quel cocuzzolo.
L’ho visto ripercorrere le stesse tracce di altri e trovarne sempre: scorzoni, pietrosi fuori e teneri dentro, che esalano un profumo di grembo, di caglio e zolfo, combinando l’elemento umido con quello igneo; seminati, come si credeva, direttamente dal cielo, a colpi di fulmine.
Il merito è dei cani che addestra e di cui ha assimilato qualcosa che sta al confine tra noi, loro e il passato remoto.
I suoi cani lavorano sodo, ma lo fanno ancora con un misto di massima attesa e di giubilo.
Incitamento, pacche e contentini sono le regole del gioco, poi però c’è il gioco in sé per sé. Il piacere di condividere tanto la strategia che lo scopo, di prepararsi, di imporre alle circostanze e agli altri un proprio stile.
Solo così l’utile, pur restando tale, si trasforma piano piano in un pretesto, un buon pretesto per stare al mondo.
Cosa ben diversa da chi, invece, è abituato a subordinare ogni azione all’interesse e, in maniera ancora più schizofrenica, al punto di vista altrui.
Potrei dire che, rispetto a certi vandali o ad altri visitatori rumorosi quanto inconcludenti, Vincenzo e il suo cane palpano il terreno, lo annusano e ci si rotolano insieme.
Il loro è un conoscere e un sentire, un fare d’artisti, facendosi corpo col paesaggio, diventandone a secondo dei momenti la parte fissa e mobile, la durata e la felicità.
Si avvicinano al vecchio uliveto come ci si siede al tavolo, per una, due tre, dieci mani di carte.
Al contrario, può capitare che giocatore e socio arrivino, diano
un’occhiata e passino oltre. Quel giorno non è aria, qualcosa sulla scena o negli immediati dintorni li disturba, togliendo alla serietà del gioco quel pizzico di bellezza che lo apparenta a un rito.
Anche i luoghi chiamano e quando un posto tace, non c’è da insistere.

***

Più che allungarsi verso l’alto Vincenzo si assottiglia. La prima impressione è di vedere un ramo che cresca al centro della pianta e ondeggi in cima. Poi, l’immagine si precisa in quella di una lama che danza sempre in sintonia col più recondito dei pensieri.
Perciò, la camicia aperta non è un vezzo, non serve a mostrare il petto.
Indica, piuttosto, un modo naturale di stare in guardia senza complessi, di farsi avanti per quello che già sei. O così o niente, perché va bene lo stesso, perché, girando nei boschi, gentilezza e fermezza né barano né fanno sconti.
Prima che del cavallo di questa storia, Indio era il nome di un cane da caccia.
Un cane sveglio, esuberante, tenace anche quando era costretto ad improvvisare, a giocare a calcio, nel ruolo di portiere.
Gli era capitato quel nome per via del pelo a chiazze, passato poi al cavallo che aveva un mantello se non proprio uguale altrettanto pasticciato.
Indio, corto ma dolce, esotico senza apparire troppo estraneo, è un bel nome. Ha la sua magia.
Uno di quei nomi che ripeti volentieri e che ti aiutano ad entrare in contatto, ad intrecciare un dialogo di note come succede tra due strumenti a fiato che si interrogano e si provocano.
La testardaggine fa il resto, ma possedere la parola magica, il nome segreto è essenziale anche se si tratta dello stesso nome per due animali di taglie e ambizioni diverse.
È forse proprio questo il talento di Vincenzo: riconoscere e seguire le vie che prendono certe incarnazioni.
Allora, a Faiolo, lungo la via del Fosso, si ripeteva l’identica scena con un numero variabile di animali che camminavano in fila indiana dietro ad Indio, montato da Vincenzo.
Fila indiana appunto, sorvegliata con ruvido zelo da una capretta, presa anche lei in questo strano ballo dove ognuno si mette al passo, cercando di intuire il linguaggio umano o bestiale dell’altro.

***

Un giorno qualsiasi, un giorno di lavoro, da casa cercano Vincenzo. Non è normale e Vincenzo si preoccupa. Immagina il peggio, non certo che Indio sia sdraiato a terra senza dar segni di vita. Da quando l’hanno trovato così, sono stati fatti diversi tentativi per rianimarlo, ora avvicinandogli la fiamma di un accendino, ora tirandogli la coda, ora gridandogli qualcosa nell’orecchio, ma sempre invano.
Indio «è un po’ morto» come qualcuno arriva a dirgli, andandogli premurosamente incontro.
Vincenzo si ferma, l’intera scena è comica e solenne al tempo stesso; per un po’ osserva i parenti, poi guarda Indio e lancia un unico fischio. Il cavallo scatta in piedi, è vivo, stava solo facendo il morto.
Dei presenti il più stupito è lo stesso padrone. Si ricorda che andandosene l’aveva accarezzato, salutandolo con un «Muori»!
E l’altro aveva eseguito, restando di sasso per qualche ora.
Come definire l’accaduto, il felice trapasso dello stesso nome da un cane ad un cavallo che si attiene scrupolosamente al macabro scherzo?
Mi viene in mente il duello verbale tra Antistene, il cinico e Platone.
«O Platone, vedo il cavallo – affermava il primo – ma non la cavallinità».
«Perché non hai l’occhio per vederla». Gli rispose l’altro.
Ad Antistene, che non ammetteva l’esistenza degli universali, il cavallo pareva solo un animale, una realtà corporea, materiale, mentre per Platone la sua essenza trascendeva il caso e
l’individuo. Era l’idea di cavallo che permette di pensarlo e di conoscerlo.
Indio come il cavallo di Platone non era solo un cavallo pezzato, vissuto a Faiolo, ma aveva a che fare con il concetto di cavallinità. Il quale abbraccia molte e misteriose cose.

(In alto: testa di cavallo in gesso nello studio di Romano Masoni, Santa Croce sull’Arno)

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Nicola Dal Falco: Due some http://trasciatti.it/2011/10/11/nicola-dal-falco-due-some/ http://trasciatti.it/2011/10/11/nicola-dal-falco-due-some/#comments Tue, 11 Oct 2011 10:17:44 +0000 Trasciatti http://trasciatti.it/?p=1536

Ho caricato, diligentemente, il mio fardello, diviso e bilanciato in due some. E per affrontare senza pompa la china acciottolata, l’ho ridotte ai minimi termini, al loro sentimentale peso specifico.


Salgo, quindi, verso Sabiona con due mezze noci vuote in tasca, una a destra, una a sinistra, sufficienti a dire e rappresentare la mia doppia pena: il qui (l’hic) e ora (nunc) quasi a portata di mano. Due minuscoli battelli da recapitare, passeggeri e chiglia, in cima al monte.
Cammino e a certe spire del sentiero potrebbe non tenermi il piede, che si fa via via pesante.
C’è però il respiro e ascendo, scivolando sulla gamba fessa.
Superata la porta dei bastioni esterni, oltre il parapetto, scorgo un mucchio di pietre, scalzate di fresco da un pendio terrazzato.
Hanno un colore più chiaro che indica pensieri non più di terra, solo occhiate verso il cielo e la nuova vigna appena piantata.
Altre, antichissime, hanno preso posto sotto i miei piedi, facendo nuova trama al dorso del monte.
Pietre lucidissime come lavate dal periodico diluvio di passi. Avverto l’attrito con gli ultimi metri di salita.
Subito dopo l’arco, si entra, ma sarebbe meglio dire, si sbatte contro una vena di roccia.
Ferita viva che mi fa posto.
Sarebbe questo l’abbraccio? Il monte soccorrevole? Entrare nella pietra?
Segni ricorrenti e pii lo confermano. Stiamo quassù in piena arsura, dentro un taglio.
Forse è questa l’apologia della vita monastica e di clausura: scegliersi la vetta di un monte, scendere nella propria ferita e sigillarla con nuovo fuoco, riunendo i palmi delle mani, gli spicchi speculari della noce.
Il sorriso della Badessa, così mansueto e libero, senza più tempo né spazio in mezzo, resta custodito nelle righe del libro, nei solchi dell’orto, dietro il filo che cuce.
Poco o niente, solo righe contigue, aperte.

In alto: Continental drift (Painting for Alfred Wegener), 2008,
olio su tela di Hannes Vonmetz

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Bolzano 21 settembre: Aurona http://trasciatti.it/2011/09/17/aurona-un-mito-ladino/ http://trasciatti.it/2011/09/17/aurona-un-mito-ladino/#comments Sat, 17 Sep 2011 19:49:41 +0000 Trasciatti http://trasciatti.it/?p=1478

Lettura in italiano e in ladino di uno dei miti delle Dolomiti
La Dante Alighieri e l’Istitut Ladin “Micurà de Rü” insieme a Bolzano per presentare il racconto Aurona

Aurona ovvero el pais de l’or e de la lùmes, è un racconto, pubblicato dalla stamperia privata Ampersand di Verona, e al tempo stesso uno dei capitoli di un prossimo libro sulla caduta del Regno di Fanes.
Scritto da Nicola Dal Falco e commentato, passo passo, da Ulrike Kindl, docente di germanistica all’Università Ca’ Foscari di Venezia, massima esperta di miti ladini, verrà presentato a Bolzano, il 21 settembre, alle ore 18, nella Sala di rappresentanza del Comune.
Ne parleranno Giulio Clamer, presidente della Dante Alighieri, Leander Moroder, direttore dell’Istitut Ladin “Micurà de Rü” e la professoressa Kindl.
Sarà anche l’occasione per una lettura pubblica di Aurona in italiano e nella versione in ladino gardenese a cura di Leander Moroder, accompagnata dalla proiezione di foto, scattate per l’occasione da Markus Delago e Max Moroder.

«Le contìe ladine di cui Aurona è un esempio – spiega Ulrike Kindl – non conoscono la differenza tra “fiaba” e “leggenda”, ma raccontano semplicemente storie vere sull’immaginazione fantastica e storie fantastiche sul sublime concetto di verità, storie inventate su verità storiche e storie tramandate su avvenimenti leggendari».

«La lingua e la cultura ladina – sottolinea da parte sua Giulio Clamer, presidente della Dante Alighieri, organizzatrice dell’incontro insieme all’Istitut Ladin Micurà de Rü – sono belle come le Dolomiti che le ispirano. Moltissimi guardano alle valli ladine come al luogo di una sintesi, insieme umile e solenne, fra tradizioni, comunicazioni, modi di dire, espressioni religiose, artistiche e culturali in genere appartenenti ai mondi italiano e tedesco, senza peraltro dimenticare la dimensione autenticamente originale delle sue radici storico-culturali. Quindi pensiamo al ladino come ponte fra le due identità confinanti, ma anche come lingua di un popolo orgoglioso e fiero di sé».

«L’Istituto Ladino “Micurà de Rü” – precisa infine Leander Moroder – guarda con interesse e sostiene il progetto di una completa rivisitazione del ciclo di Fanes, portato avanti da Nicola Dal Falco e dalla professoressa Ulrike Kindl. Chissà che questo progetto non aiuti a farci vedere i ladini per quello che sono, cioè quanto rimane degli antichi abitanti delle Alpi Orientali, una popolazione a sé stante, portata da sempre, dagli eventi e dai luoghi, a confrontarsi con chi li circonda».
Aurona
Ampersand 2010
racconto di Nicola Dal Falco
nota di Ulrike Kindl
composti a mano
in 30 esemplari numerati
nella tipografia di Alessandro Zanella
Santa Lucia ai Monti (Verona)

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Nicola Dal Falco: Del circo di Persefone http://trasciatti.it/2011/08/08/nicola-dal-falco-del-circo-di-persefone/ http://trasciatti.it/2011/08/08/nicola-dal-falco-del-circo-di-persefone/#comments Mon, 08 Aug 2011 15:51:17 +0000 Trasciatti http://trasciatti.it/?p=1373

Forse la dolceamara sensazione del circo un po’ dipende dall’ostentazione delle divise, lucide, anacronistiche, perdute come i balli a corte. Divise che difficilmente saranno sporcate e messe per così dire alla prova. Restano i numeri con i leoni e le tigri, i trapezi e le meraviglie di certi esercizi a cui comanda una schietta vena di sadismo … però, pare più ovvio che l’imprevisto, quello cattivo, possa solo accadere senza il pubblico, negli orari di lavoro, durante il tempo infinito delle prove. L’errore, la caduta, il calcolo sbagliato, il gesto sicuro e fatale dimorano tra parentesi, seguono il circo fuori dallo spettacolo. Ciononostante, questa musica di fanfare, il buio intorno, i cavalli, le fiere mostrano il sangue, indicano l’effusione del sacrificio. E i battimani servono a sciogliere una smorfia. Di paura e di piacere. Vi si consacra lo sforzo, la tensione che stravolge come nell’amore e nella morte. Sarà pure più triviale delle gare olimpiche, ma, in fondo, il circo attinge alla stessa fonte, al rapporto con l’imbarazzante offerta della vita. Che fare, insomma, di tutta questa energia? Dove dirottarla e, soprattutto, come restituirla, ripagarla, reintegrarla? Il circo, le gare, la guerra, la morte e l’amore saldano il conto. Offrono sacrifici, oblazioni. Al di là degli orpelli che riflettono la luce e viaggiano come i raggi del sole, le divise ci vestono per lo scopo opposto: essere uguali, nudi, vittime. Il bello del circo.
Tra tutte ce n’è però una che brilla di più, tessuta com’è di pezzetti di vetro. Da fermo o in movimento, il corpo di Pierrot riflette in maniera parossistica, imitando la faccia bianca, ora crescente, ora piena o calante della luna. Adeguandosi, in questo movimento, con espressioni che, di volta in volta, sono di brio, di placidezza e d’inevitabile malinconia. Con lui, la notte, guidata dal grande specchio che appena la rischiara, prende posto nel circo accanto ai nasi rossi, all’esuberanza dei microfoni e delle fruste. Spesso è fatto oggetto di scherno o di lusinghe, richiesto e rifiutato come l’oscurità della notte è invocata o maledetta. Ma ciò che alla fine turba è l’ambiguità stessa del vestito-divisa, a cominciare dagli scarpini di vernice e dalle calze bianche Mentre il berretto a cono evoca una cuspide di meringa o panna montata, un raggio selenico entrato dalla finestra e conficcatosi sulla nuca, i calzoni si allargano come anse, due alucce vuote, due sacche inamidate che alludono a dei fianchi, che vorrebbero ospitarne l’opulente evidenza. Di tutte le esibizioni circensi, la figura convessa, specchiante di Pierrot aggiunge alla scena un attore più potente degli altri, anzi un’attrice: Kore-Persefone, la fanciulla che coglieva fiori in Sicilia e, mangiato il chicco di melograno, regnò sugli Inferi, metà dell’anno alla luce e metà al buio.

(In alto incisione tratta dal De monstruorum natura, causis, natura, et differentiis libri duo, 1616, di Fortunio Liceti)

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