Il Trasciatti » Frigerio http://trasciatti.it Lunario inattuale di letteratura e desueta umanità Tue, 22 May 2012 09:37:52 +0000 http://wordpress.org/?v=2.9.2 en hourly 1 Mariapia Frigerio: Agende http://trasciatti.it/2011/10/30/mariapia-frigerio-agende/ http://trasciatti.it/2011/10/30/mariapia-frigerio-agende/#comments Sat, 29 Oct 2011 23:32:19 +0000 Trasciatti http://trasciatti.it/?p=1600

Sono una maniaca. Da una vita segno su un’agenda ogni cosa che faccio. Di anno in anno. No, nessun pensiero. Banalmente azioni. Ore 8: spesa al supermercato. Ore 10: ritirate ricette dal medico. Ore 12: aperitivo con Ida. Posso andare avanti così annotando anche la cosa più insignificante. Che poi insignificante non è se serve a farti rivivere la tua  vita. Faccio poi i riassunti mensili. A trovare genitori tot volte, dalla figlia tot, dai nipoti tot, dai malati dell’ospedale tot.
Tutti i tot confluiscono nel tot annuale. A seconda delle voci mi lancio nei tot quinquennali e decennali. Ho un’intera scaffalatura di agende.
Tutto documentato. Nulla lasciato al caso. Sempre un alibi pronto. Maniaca. Maniaca anche nella devozione. Figlia devota, moglie devota, madre devota, nonna devota.
Ciononostante le circostanze ti sono avverse. Tua madre si lamenta, tuo marito brontola, tua figlia è insofferente, i nipoti pretendono.
E i sensi di colpa lì, sempre pronti a far capolino. Perché se sei devota non è per naturale predisposizione, ma per colpa loro. Sì, proprio di quei maledetti sensi di colpa con cui ti hanno cresciuta.
Ieri non ce l’ho più fatta. All’ennesima critica ho riletto le agende degli ultimi cinque anni con tanto di riassunto mensile e annuale.
Una rilettura attenta in cui risultava chiaramente che tutti avevano avuto i loro tot di attenzioni e di cure. Quelle registrazioni così minuziose e dettagliate parlavano chiaro: tot ad abundantiam per tutti.
Allora ho preso la decisione. Se avessi avuto un camino ne avrei fatta un’immensa fiammata. Non ho camino. Mi sono accontentata di mettere tutte le mie agende in un grande cartone e di darlo alla raccolta differenziata. Non mi servivano più. Per merito loro avevo chiuso con i sensi di colpa.
Sono vecchia. Ugualmente ho girato pagina. Del resto per queste cose il tempo non guarda in faccia all’età.

(In alto: Santarcangelo di Romagna, il muro di una casa come un promemoria)

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Mariapia Frigerio: Fari nella notte http://trasciatti.it/2011/08/23/maria-pia-frigerio-fari-nella-notte/ http://trasciatti.it/2011/08/23/maria-pia-frigerio-fari-nella-notte/#comments Tue, 23 Aug 2011 06:54:41 +0000 Trasciatti http://trasciatti.it/?p=1392

                                
 «Cazzo! Ma perché non si levano dalle balle? ‘ste troie al volante»! Diede l’ennesimo colpo di clacson. Poi si accorse che non era colpa dell’auto guidata da una donna, ma che era un incidente a bloccare il normale scorrimento del traffico. Doveva arrendersi e restare in coda per chissà quanto tempo. «Porcoddio»!  Non c’era niente da fare. Non gli restava che aspettare. Si accese l’ennesima sigaretta.
La sera calava veloce. Il cielo mostrava le ultime striature rossastre, quelle che solo il freddo e l’aria tersa dell’inverno fanno vedere.
 Avrebbe necessariamente ritardato il suo rientro a casa. La cosa non gli dispiaceva. La famiglia gli pesava. Una moglie perbene, sì, ma noiosa. «Mai un guizzo, mai una fantasia» – borbottò tra sé. Poi quei dannati marmocchi: due bambine piagnucolose come la madre e un maschietto che prendeva il peggio dal gineceo in cui viveva. «Che maschio è quello? Piccolo di statura per i suoi dieci anni e sempre con le sorelle o con le sue stupide automobiline! Non ha proprio preso da me»!
Le altre persone in coda iniziavano a dare segni d’insofferenza. I suoni dei clacson si ripetevano ormai in modo ossessivo. Lui aveva smesso e, ora, non poteva sopportare che altri provassero la sua stessa impazienza. «Che coglioni! Cosa vi cambia suonare così»?
 Mise della musica. Chet Baker. Ripensò alla moglie. «Jacques Brel. Lei solo quei maledetti insopportabili lagnosi francesi»! Pensò di non rientrare per cena. Non gli piaceva, del resto, neppure come cucinava. «Mi fermerò da qualche parte. Ora la chiamo». 
Fece più volte il numero di casa. Sempre occupato. Il cellulare, come sempre, spento. «Ma perché mai glielo avrò regalato»?
 
Ormai non restava più nessuna traccia del tramonto. Ora il buio della notte dominava e le sirene delle autoambulanze non davano pace.
«Deve essere successo qualcosa di grosso». Si trovava imbottigliato in una coda di cui non si vedeva né l’inizio né la fine. Avrebbe potuto scendere e chiedere spiegazioni. Non ne aveva voglia. Spense anche la musica. Pensò di chiamare la sua amica per proporle di mangiare con lui e poi magari… Ci ripensò. «No, donne stasera, no».
Rimase al posto di guida. Dal finestrino vedeva un andirivieni di persone. Poi dei barellieri. Lui restava solo un immobile spettatore.
Ma il suo sguardo, ad un certo momento, iniziò a superare l’affollamento della strada e a salire su per le colline che costeggiavano la superstrada.
Salì su dove si vedevano diverse abitazioni: piccoli condomini, squallide villette e alcune ville. Lo spettacolo di tutte le sere. Ma ora, lì fermo, il suo occhio poteva indugiare sulle luci delle finestre accese.

Di colpo, una dopo l’altra, le finestre prendevano vita. Immaginò quali persone si muovessero là dentro. Iniziò a divertirsi a fantasticare. Pensò a quelle stanze illuminate dove qualcosa prendeva vita e quella vita, vista da lui che ne era al di fuori, era qualcosa di commuovente. Pensò che inteneriscono sempre le luci nelle case di sera, per chi ancora deve arrivare o per chi è lontano.
Si rivide bambino. Si rivide in viaggio – un viaggio di più di un’ora – in auto con suo padre e sua madre che lo portavano in collegio in città. Aveva undici anni, ma non era come gli altri bambini. Era, al tempo stesso, più sensibile e più ribelle. Era un bambino diverso.
Il collegio. Tre anni lunghi quanto una vita. Una vita di cui aveva serbato gelosamente e dolorosamente due ricordi. I suoi compagni più grandi che lo chiamavano bambolina, perché piccolo di statura e bello. Già, quel bambolina non lo avrebbe abbandonato mai. Bambolina. Anche in mezzo alle ragazze che spudoratamente lo avrebbero corteggiato e con cui avrebbe avuto una storia dopo l’altra, quella parola gli sarebbe martellata nel cervello. Aveva, addirittura, proibito a sua madre di mostrare la foto in cui lui compariva  –unico-  con i calzoni al ginocchio, in prima fila. Bambolina.
Poi l’altro, ora che vedeva le luci delle case accendersi con una incredibile frequenza. Ecco, lui bambino, con gli occhi alla finestra, mentre guardava accendersi le luci nelle case, sperando – chissà come- di vedere la sua. Due fari nella notte che cercavano di riconoscere nel buio la sua casa, che sognavano il calore della famiglia.
Era in preda, mentre lentamente il traffico ricominciava a fluire, a uno struggimento indicibile. Di colpo rivide il suo, di bambino, piccolo di statura e bello. Pensò che con i suoi occhi appoggiati al vetro della finestra che dava sulla via, forse, lo stava aspettando. Due fari nella notte in attesa del suo arrivo.
Pigiò il piede sull’acceleratore. Doveva correre da lui. Non gl’importavano né la moglie né le due figlie, ma il suo bambino, quel suo bambino che magari nascondeva lui pure un segreto (o due segreti?), quello sì che ora gl’importava.

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Mariapia Frigerio: due storie http://trasciatti.it/2011/04/03/mariapia-frigerio-due-storie/ http://trasciatti.it/2011/04/03/mariapia-frigerio-due-storie/#comments Sun, 03 Apr 2011 08:43:14 +0000 Trasciatti http://trasciatti.it/?p=1102

Il costruttore di piste

Aveva solo dodici anni ed era già il più abile costruttore di piste di tutto il bagno Tirreno. Era una grande emozione quando si metteva all’opera, perché, a suo modo, di vera e propria opera si trattava. Tutti i ragazzini della spiaggia seguivano estasiati. Pochi erano ammessi a collaborare. Le bambine impazzivano per lui.
Iniziava sempre col cercare qualche bambino che si lasciasse trascinare per segnare il percorso sulla spiaggia. Poi la pista veniva bagnata con secchielli di acqua di mare e battuta dalle sue mani esperte. Immancabili erano il sottopasso, la curva a U, la cunetta, i tornanti della montagnola con la relativa caduta nel cratere che riportava la pallina in pista.
Lui aveva sempre quella verde, con Anquetil. La colpiva con il dito medio e la faceva rotolare nel sottopasso, nella curva a U, sulla cunetta, sui tornanti della montagnola. Poi, quando dal cratere ricadeva in pista, dava l’ultimo colpo. Il suo dito medio si staccava dal pollice e colpiva la pallina con la spinta decisiva per percorrere il lungo rettilineo e tagliare il traguardo.
Era quasi sempre il vincitore oltre che il costruttore.
Terminata la gara, il caldo del sole faceva perdere fisionomia alla pista. E verso sera le piccole onde della battima completavano l’opera. Della pista non restava più traccia.

Il costruttore crebbe. La sua vita simile alle sue piste: tutta sottopassi, curve a U, cunette, tornanti. Nessun rettilineo, però. Lui continuava a vincere, anche senza Anquetil.
Vinceva incarichi di prestigio, posti di lavoro invidiabili con inaspettate curve a U, difficili cunette, pericolosi tornanti. Poi c’erano le donne: tante e tutte importanti. Mai una comune.
Le onde della battima anche della sua vita non lasceranno traccia.

Padre e figlia

Ugo è molto vecchio. Solitario. Abitudinario. Stessi gesti, immutabili, nella sua vita vuota. Vuota come il suo frigorifero. Giusto le cose essenziali da mangiare. Sempre le stesse.
C’è chi provvede a comprarle. Qualche yogurt, mezzo litro di latte, una fetta di filetto, un po’ d’insalata. Poi a cucinargliele.
A fine pranzo una tazza di Nescafé. Insieme a due wafers alla nocciola. I Loacker. Due. Non uno di più.
Virginia viene a trovarlo il sabato. Quasi tutti i sabato. Non più giovanissima, quando entra in casa la sua voce chiama con entusiasmo: «Papà!».
È il segnale del suo arrivo. Una voce argentina che risuona per la casa vuota. Una voce che risveglia Ugo dal suo torpore. Una voce squillante che pure lui, che fatica a sentire, riconosce come quella della sua bambina.
Succede che per le festività (i morti, Natale, Pasqua) la figlia si fermi alcuni giorni.
La scatola di latta dei Loacker, allora, non occupa più il solito posto e viene lasciata aperta. Così pure quella dei grissini. Il barattolo del suo Nescafé spostato.
Il frigorifero riempito di cibi per lui impensabili.
«Sempre così quando arriva la Virginia» borbotta tra sé, quando vede quello che per lui è uno scempio. Per le sue abitudini. Per la sua solitudine. Per il suo modus vivendi.
Mangiano insieme, nei loro sabati. Lei parla. Lui ascolta distrattamente. Poi, come se niente fosse, se ne va a riposare.
Quando, al risveglio, rientra nella grande cucina Virginia non c’è più. È ripartita senza disturbarlo. È ritornata in città.
Tutti i sabati…
Ma c’è qualcosa in questa figlia, già madre e nonna, che non lo lascia indifferente.
Lui che è insensibile a tutto.
Lui che non ha mai pianto.
È il piattino.
Il piattino con gli avanzi di certi dolcetti che lei, nelle sue venute, non tralascia mai di portargli.
Ugo è severo. È arcigno. Non ne vuole sapere. Mai rinuncerebbe alla inveterata abitudine dei due Loacker. Due. Non uno di più.
Dice sempre, fra sé e sé: «Odio gli avanzi».
Ma quel piattino che ritrova sul grande tavolo della cucina, con due o tre fettine di torta o con un biscotto particolare, quando si sveglia dal suo cupo sonno pomeridiano, oppresso da nubi nere, lo commuove.
Pensa che ora è debole. Pensa una cosa per lui impensabile. Pensa che ora vorrebbe piangere. Piangere col pianto di un bambino. Ma i suoi occhi restano asciutti. Ugo non ha mai pianto. Forse non sa neppure come si faccia.
Il sabato successivo, mentre la figlia sta sistemando le sue cose prima di ripartire e ancora non ha preparato il ‘piattino’, Ugo va nel suo studio. Siede allo scrittoio. Con mano tremante inizia a scrivere.
Poi lascia questo biglietto sul tavolo.
Alla mia cara Virginia, che ogni sabato, col suo piattino, mi fa sentire un po’ meno solo e che, soprattutto, mi ha aiutato a piangere.
Sul piccolo foglio una macchia impercettibile. Umida.
Lo lascia lì, sulla grande tavola, pur sapendo che ugualmente, con fastidio, quando troverà gli avanzi dei dolcetti, getterà tutto nella spazzatura.

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Mariapia Frigerio: Cicatrici http://trasciatti.it/2010/12/22/mariapia-frigerio-cicatrici/ http://trasciatti.it/2010/12/22/mariapia-frigerio-cicatrici/#comments Tue, 21 Dec 2010 23:50:57 +0000 Trasciatti http://trasciatti.it/?p=853

Sei troppo insistente. Sì, d’accordo, la tua intervista. Capisco. Ma trovo le biografie noiose. Anche quelle ‘ridotte’ per i giornali.
E poi, scusa, a chi può interessare la mia vita?
Dici che quando una scrive un libro, soprattutto se non è una ragazzina, suscita curiosità? Nel mondo intellettuale? Chiariamo subito, allora, che non sono un’intellettuale.
La laurea? Che c’entra? Non è mica il Nobel!
Amo la letteratura, ma non sono un’intellettuale. “Le intellettuali sono come le scarpe strette: non vedi l’ora di levartele dai piedi”.
Ecco, vedi, preferisco ancora essere una donna. Passare, magari, per una un po’ scema, anche un po’ matta. Ma restare una donna. Senza nessun incasellamento.
La politica? Figurati! Piuttosto la morale.
Figli? Oddio: quanti, come, dove, con chi? La vita sentimentale?
Ma che importa? A me nulla. Figuriamoci agli altri!

Dai, non ho voglia di queste banalità. E la mia vita è banale.
Insisti?
D’accordo, d’accordo: non mi farò più pregare. Ma ti sembro il tipo? Sarà però a modo mio: una roba brevissima e di getto. Tu poi, da giornalista, taglia dove vuoi, rigirala come credi. Basta che io non debba sottostare alle tue domande. A quelle che pensi interessino i lettori.
Inizio?
Inizio.

Le mie ginocchia.
La mia vita è tutta lì. In quelle cicatrici.
Vuoi vedere? Perché no? Non ho ginocchia da esposizione. Non ho perso nessuna occasione per fare un calendario… In questo sono fortunata. Ma a te le farò vedere. Cominciamo.
Ginocchio destro.
Aspetta: mi levo la calza.
Questa orizzontale (due centimetri circa) risale ai miei cinque anni.
Lo vedo ancora: bello, giovane, biondo, occhi azzurri. In Vespa. Aveva aperto il cancello ed era entrato. Lo zio Titta. Io gli ero corsa incontro. Mi faceva sempre fare un giro in giardino con lui, sul sedile posteriore, prima di metterla in garage. Con quelle mie gambine magre che stavano per aria. Quella volta, però, la mia corsa era stata troppo precipitosa. Precipitosa come la passione che provavo per lui. Passione nascosta. “Affetto di bambina”, pensavano tutti. Che errore! Non capire che i bambini possano provare, sebbene ad armi impari, quello che sentono gli adulti. Ma con più intensità.
Non mi ero fermata in tempo. Ero finita, così, contro la chiusura dello sportello laterale. Sangue. Nonni preoccupati. Ci vorrà un punto? Due? Poi la vecchia domestica si era prodigata per medicarmi e aveva sostenuto che non ci fosse bisogno di niente.
La cicatrice si era formata col tempo.
Mi ha sempre fatto compagnia vedermi quella riga più lucida sulla pelle uniforme del ginocchio.

Di traverso, questa più sotto. Tre centimetri circa. Incontro clandestino con un uomo. Verso Siena. L’emozione mi possedeva. Su una strada sassosa caddi. Lui mi aiutò a rialzarmi. Guardò poco la ferita sanguinante… Di più la mia bocca che “baciò tutto tremante”. Sei contento che faccia l’intellettuale? Mah, un’intellettuale da poco, comunque. Mi spiace per i tuoi lettori.
La guardai a lungo, quella cicatrice, quasi simbolo di un nuovo amore.
Poi non la guardai più.

Questa, vedi, è orizzontale. Ero in piena crisi coniugale. Ero caduta camminando. La testa persa nella più totale disperazione. Non mi ero accorta di dove mettevo i piedi. Non guardavo la strada sconnessa.

Ora mi rimetto questa calza e levo l’altra.
Passiamo al ginocchio sinistro.
Dunque: questa enorme me la sono fatta andando in bicicletta con la mia cagnetta. Pipì improvvisa della bestiolina che si blocca di colpo. Io, distratta, volo per terra. Mi è partita la pelle di mezzo ginocchio. A fatica sono rientrata a casa. Mi hanno detto di fare l’antitetanica.
Mi sembra di ricordare che fossero tre iniezioni da fare in tre giorni consecutivi. Andai da Enzo, un vecchio medico amico. Noto per essere un grande donnaiolo.
Entravo in casa sua dopo aver percorso il piccolo giardino. La Mariuccia mi diceva che il marito mi aspettava in salotto. Ero ancora piuttosto giovane. Forse neanche tanto male. Lui se ne stava seduto sul divano con le gambe divaricate per fare spazio alla sua enorme pancia. Una specie di grande Budda.
Letteralmente esultava quando mi vedeva entrare. Ricordo di avergli chiesto, la prima volta, dove mi dovessi sdraiare. Mi impose di mettermi in piedi, di schiena, di fronte a lui. Con gesto rapido e deciso mi sollevò la gonna a balze. Con gesto ancora più rapido e deciso mi abbassò le mutande. Non sentii nulla. Neppure la più piccola puntura. Neppure il più leggero formicolio. Per tre giorni consecutivi. Mi chiedo ancora oggi se me le abbia realmente fatte quelle iniezioni…
Questa è la cicatrice più cara che ho. Quella che amo di più. Triangolare. La cicatrice per un amore incondizionato e fedele. L’unico che ho avuto in tutta la mia vita.

Più sotto ce n’è un’altra, se guardi bene. Orizzontale. Stavo andando in biblioteca e caddi dalla bicicletta sul prato antistante. Entrai nella sala di lettura con la calza rotta sulla ferita. Senza disinfettarmi. Non è successo niente… Come vedi sono ancora viva! Alcuni ragazzi interruppero la lettura e risero quando si accorsero che sulla giacca e sulla gonna ero piena d’erba. Non me n’ero accorta. Vado bene in bicicletta: sicura e spedita. Ma quel giorno no. Lui mi aveva detto che riceveva telefonate da una donna. E rideva. Ridono sempre gli uomini quando una donna li corteggia. Felici e soddisfatti. Io… io non ero più in me. Destabilizzata totalmente.

Ora che ho finito con le ginocchia vorresti che aprissi la camicetta? Come hai detto? Per arrivare con un bisturi  fino al mio cuore? Ma scherzi!? Una scena trash! E cosa ci vorresti trovare?
Dai, ho capito benissimo. So cosa intendi. Non sono scema del tutto!
E comunque hai ragione, caro intervistatore, lì sono le cicatrici più profonde. Quelle più lucide e indelebili. Quelle che, in superficie sulle ginocchia, diventano nel cuore solchi profondi.

Mi chiedi perché ho questo ginocchio blu?
Scusa, mi ero scordata di rinfilarmi la calza. Sarebbe stato meglio. E invece così mi tocca dirtelo. Mi tocca finire così questa curiosa biografia.
Questo blu è una nuova caduta dalla bicicletta.
Scardinata… meglio: scorticata. Questa è oggi la scrittrice a cui tanto ti interessi…
Mi diceva di cavalcare i sentimenti. Sì, ti assicuro che mi diceva proprio così! Ma una che ama può cavalcare i sentimenti? Ti sembra possibile? Non li puoi imbrigliare, i sentimenti. In alcun modo. Ne sei sottomessa, soggiogata, schiava. Felicemente schiava.
E smettila… sempre a pregarmi! Neppure stavolta te la apro la camicetta! Oggi non ti servirebbe neppure il bisturi! Non avresti bisogno di giungere in profondità. Vedresti il rosso di una ferita ancora fresca. Qui, sopra il cuore.
Una stilettata.
Sai, me la guardo ogni sera. È solo di poco sopra il seno.

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Mariapia Frigerio: En ascenseur http://trasciatti.it/2010/11/07/maria-pia-frigerio-en-ascenseur/ http://trasciatti.it/2010/11/07/maria-pia-frigerio-en-ascenseur/#comments Sun, 07 Nov 2010 21:52:14 +0000 Trasciatti http://trasciatti.it/?p=766

Quando salì sull’ascensore al 7 di rue de Grenelle si trovò in uno strano corpo a corpo con un prestante signore.
«Secondo piano» seppe solo dire Marzia.
«È la nuova inquilina?».
«No… no» rispose con un certo imbarazzo.
L’uomo premette il pulsante. Marzia si chiese se poteva immaginare da chi stesse andando.
L’ascensore si fermò e l’uomo le aprì, galante, il cancelletto scorrevole. Poi la porta.
«Arrivederla, signora». E le sorrise.
Marzia suonò alla porta di Antoine.
Il ragazzo le aprì. Richiuse prontamente e l’abbracciò con la passione e la forza di un giovane.
Rimase con lui per almeno due ore.

Alle 20 della stessa sera, quando uscì, Marzia prese il metrò alla fermata Rue du Bac. Cambiò a Saint Lazare. Prese la linea 3. Scese a Parmentier.
Camminò veloce alla volta del 25 di Avenue de la Republique dove suo figlio Pietro l’aspettava per cena. Si accorse di essere in ritardo.
Pietro – come lei del resto – non sopportava i ritardi.
«Santo cielo! Ogni volta con Antoine perdo il senso del tempo».
Al portone digitò i codici per entrare. Mentre stava aprendo sentì dei passi affrettarsi alle sue spalle. Si girò e si ritrovò in faccia lo sconosciuto dell’ascensore della casa di Antoine.
Di nuovo si ripeté la scena del pomeriggio. Il solito corpo a corpo in quegli strettissimi ascensori parigini. La solita richiesta del piano. Il solito aprire cancelletto e porta. Il solito arrivederci. Il solito sorriso dell’uomo.
Ma questa volta senza domande.

«Come mai così in ritardo? Non è da te» le disse Pietro aprendole.
«Hai ragione, ma sono stata al Maillol» si giustificò Marzia ricordandosi di quante volte, andando da Antoine, avesse visto lo striscione di “Vanités – de Caravage a Damien Hirst”.
«Bella la mostra?».
«Oh, sì, molto interessante» rispose con finta indifferenza. Certo che se il figlio le avesse fatto domande più precise avrebbe dovuto arrampicarsi sugli specchi.
«Comunque se domani sera sei libera viene Gérard qui da me. Lui ha collaborato attivamente all’allestimento. Mi piacerebbe ne parlaste insieme».
«Oh, certo! A che ora?».
«Alle 8. Guarda che mi piace una mamma puntuale… Mi ha sempre dato sicurezza la tua puntualità. Sapere che su te potevo contare anche per una piccola cosa del genere… oltre che per tutto il resto».
«Vedrai che sarò puntualissima. Sarò la tua mamma di sempre».

Dopocena guardarono le foto degli ultimi lavori di Pietro. Poi Marzia lo lasciò.
«Sei sicura di non volere un taxi?».
«Ma figurati. Arrivo benissimo al mio albergo in metrò. Anzi, grazie ancora. Hai scelto bene: è proprio grazioso».
Si salutarono sulla porta dell’ascensore che il figlio le aprì.
Scesa in Avenue de la Republique anziché andare alla fermata, si  sedette su una panchina. Prese le sigarette dalla borsetta e se ne accese una. Era bello stare su quelle panchine doppie di Parigi… doppie come i sedili di legno dei treni di quando lei era bambina.
Fumava tranquilla. L’aria era fredda, ma di un freddo piacevole. D’altronde mai Pietro le avrebbe permesso di fumare in casa, né tanto meno di fumare. Le avrebbe fatto le solite prediche.
Si sentiva un po’ monella. Le sigarette… Antoine… Insomma per tutto. E questo la divertiva. Pensava al giovane Dansier. Lui avrebbe voluto passare la notte con lei. Lei avrebbe potuto… Non ci voleva molto da lì a tornare in rue de Grenelle. Ma non ne aveva così voglia. L’appuntamento del giorno successivo le sembrava più che sufficiente. E poi… la liberté! Impagabile.
Dalla panchina guardava le case: grandi palazzi che si susseguivano. Finestre spente e finestre accese. Era bello lasciarsi scorrere il tempo addosso. Lasciare lo sguardo perdersi tra le luci e i bui. Non avere impegni stressanti per una settimana. La sua settimana parigina in visita al figlio. Poi in Italia tutto sarebbe ripreso come prima. E gl’impegni non le sarebbero certo mancati.
Tornò col pensiero ad Antoine Dansier, l’amico di Pietro e di Gérard Duplessy. Per fortuna non era stato invitato anche lui la sera successiva. Che imbarazzo, altrimenti.
Lui le parlava d’amore. Lui avrebbe voluto condividere con lei il suo lavoro, il suo tempo, la sua passione.
Marzia su questo era svizzera: c’era un tempo per ogni cosa. Anche per la passione. La passione, il giorno successivo, avrebbe occupato due ore. E precisamente dalle 14 alle 16. Poi non poteva perdersi la mostra al Maillol. Che figura se la sera Gérard si fosse accorto che lei non ne sapeva niente delle Vanités…
A dire il vero la sua storia con Antoine non le piaceva completamente, ma era stata la classica prova da donna di mezza età.
Mettersi alla prova… Quante volte lo aveva sentito dire alle sue amiche! Ora lei le aveva battute tutte. Non un separato. Non un divorziato. Neppure uno con moglie che tiene il piede in due scarpe… Antoine era libero. Giovane e libero. Giovane e pronto a far progetti con lei. Ma lei?
Neppure le passava per la mente di immaginarsi un mezzo futuro con lui. Non era così stupida da non rendersi conto della differenza d’età. Troppa fatica, poi! E gli uomini, lei lo sapeva bene, alla lunga l’annoiavano. Ecco perché se ne stava lì sulla panchina a fumare invece di correre da lui. Poi… poi da svizzera quale si sentiva non per nascita, ma per certe coordinate mentali che ruolo poteva dare ad Antoine? Sì, uno ce n’era e Marzia lo sapeva bene: il ruolo dell’amante. Ma la parola amante le faceva venire la pelle d’oca. Mai e poi mai avrebbe voluto averne uno né, tanto meno, essere l’amante di qualcuno.
Anche per questo se ne stava lì nel freddo parigino. Lì, su quella panchina, in attesa di trovare la forza per raggiungere il metrò.
Di certo le piaceva di più essere la “mamma di sempre” di Pietro, come gli aveva detto lasciandolo. E nella sua vita di “mamma di sempre” non c’era posto per nessun Antoine.
C’era stato un momento però – e non lo pensava per giustificarsi – in cui aveva sentito ancora il bisogno di amare. Pensava fosse lecito. Ma il suo bisogno di amare non poteva essere la storia con quel ragazzo.

Il giorno seguente partì dal suo albergo all’una. Con un’ora di anticipo su quella dell’appuntamento. La svizzera di sempre. Un’ora per fare il tragitto con calma. Sarebbe bastato molto meno, lo sapeva. Ma voleva percorrere tranquillamente a piedi la strada da Place Goudeau fino alla fermata Abbesses. Aspettare l’ascensore che le facesse scendere la Butte Montmartre. Poi il metrò. Avere tempo di fare il tragitto della linea 12 fino alla fermata Rue du Bac, prendere con calma Rue de Grenelle e, passeggiando, raggiungere il numero 7.
Ugualmente arrivò in anticipo. Si fermò allora a prendere un café noisette e gironzolò guardando le vetrine.
Alle 14 meno due minuti entrò nel portone.
Alla porta dell’ascensore trovò il solito signore. «Che combinazione» pensò. «Neanche ci fossimo dati appuntamento». Era la terza volta in due giorni.
«Mi sembra di ricordare che lei vada al secondo piano» le disse lo sconosciuto appiccicato a Marzia in un modo a dir poco imbarazzante. Non per colpa sua. Solo per le dimensioni minime di quegli ascensori parigini.
«Sì» gli rispose Marzia mentre si scusava per essergli finita sui piedi.
«Si figuri. Lo spazio è quello che è». Poi, salutandola dopo averle aperto cancelletto e porta: «Questa sera la rivedrò in Avenue de la Republique? Io abito lì».
Marzia non seppe cosa rispondergli. Abbozzò un mezzo saluto e uscì.
La porta di Antoine era già socchiusa.

Non c’era rimasto per nulla bene Antoine. Né se lo sarebbe aspettato. Com’era possibile? Da quando l’aveva conosciuta lui era sempre stato presente. Quanti voli low cost aveva preso per raggiungerla i fine settimana da quella volta in cui Pietro lo aveva portato a casa sua in Italia! Perché tutto era nato lì, quando la prima sera, dopocena, lui era uscito con i vecchi amici e Antoine aveva preferito restare a casa. Marzia allora gli aveva offerto da bere. Poi avevano parlato ininterrottamente fino a tardi. Alle due, quando Pietro era rientrato, stupito li aveva trovati ancora insieme sul divano.
Rientrato a Parigi Antoine aveva iniziato a cercarla e a raggiungerla quasi ogni fine settimana. Poi era rimasto in attesa di lei. Di quella settimana che Marzia avrebbe trascorso in visita al figlio. Una settimana che sarebbe stata anche per lui. E ora, solo al secondo giorno, lei gli diceva che non se la sentiva più…
Le due ore che Marzia aveva stabilito per la passione erano state spese così in mille domande, in mille ricerche di presunti errori, nei mille interrogativi di questi casi…
Ma da vera svizzera, quando si accorse che l’orologio segnava le 15.55, la donna si alzò e uscì.
Non era del tutto insensibile alla sofferenza altrui. Anzi le spiaceva molto per Antoine, ma che farci? Lui aveva una vita davanti. Lei molto meno di una vita. Un terzo di vita? No, non ci voleva neanche pensare. Comunque non più abbastanza vita da gettare nei tormenti amorosi, nelle pesantezze della passione. E in questo stava cadendo con quel ragazzo. Le sue gelosie, poi!
Da giovane aveva provato anche lei cosa volesse dire avere accanto un uomo geloso. E il peso. Ma ora? Quel ragazzo geloso di una coi suoi anni? Inammissibile!
Camminò veloce in rue de Grenelle verso il 61. Il Maillol l’aspettava con le sue Vanités. Veloce e leggera. Talmente leggera che le sembrava di volare. Ah, la liberté!
Alla  mostra fece il percorso a ritroso. Iniziò con il teschio di brillanti di Damien Hirst. Poi, di sala in sala, arrivò al San Francesco di Caravaggio. La incuriosì il soggetto. Si spostò indietro per vederlo da una prospettiva migliore. E andò a sbattere contro qualcuno.
Di nuovo lui… lo sconosciuto degli ascensori!
Allora insieme, quasi avessero preparato la parte, esclamarono: «Comme c’est curieux! Comme c’est bizarre! et quelle coïncidence!». E risero alla citazione comune di Ionesco.

Quando Marzia quella sera prese il metrò alla fermata Rue du Bac, cambiò a Saint Lazare, prese la linea 3, scese a Parmentier, camminò veloce alla volta del 25 di Avenue de la Republique – per non fare aspettare il figlio – non era sola. Al suo fianco che le parlava c’era lo sconosciuto degli ascensori.

(Nella foto: la Casa Danzante, Praga, foto Trash)

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Mariapia Frigerio: La padrona di Beniamino e il bel francese http://trasciatti.it/2010/08/05/mariapia-frigerio-la-padrona-di-beniamino-e-il-bel-francese/ http://trasciatti.it/2010/08/05/mariapia-frigerio-la-padrona-di-beniamino-e-il-bel-francese/#comments Thu, 05 Aug 2010 10:39:41 +0000 Trasciatti http://localhost:8888/wordpress292/?p=12 Post image for Mariapia Frigerio: La padrona di Beniamino e il bel francese

Lucca ha, tra le tante caratteristiche, quella di essere una città di approdi. Qui, infatti, approdano figure estranee alla realtà lucchese e, nello stesso tempo, capaci di diventarne parti integranti, di essere, proprio loro – così diverse dagli abitanti della tranquilla e conformista città murata – talmente importanti da caratterizzarne la fisionomia, diventando figure più cittadine di quelle realmente cittadine.
Occhi azzurri – quasi cerulei – e chiome grigie, un’educazione comme il faut e un eloquio raffinato ed elegante, oltre a una cultura non comune e fuori da qualunque gabbia scolastica, accomunano una bella novantenne e uno splendido quarantacinquenne. E vite, per entrambi, avventurose.
Vita alla grande, per la signora, che, dopo un’infanzia dorata a Milano, sposa un nipote di Volpi di Misurata trasferendosi a Roma.
Vita alla grande, tra balli e mondanità. Poi l’incontro fatale con la cultura e la politica, che si incarnano per lei nel giornalista Antonio Calvi, direttore per tre anni de “La voce repubblicana”. Da qui nuove nozze e nuove figlie. E, tutt’intorno, il clima inebriante  de “Il mondo” di Pannunzio.
Da qui non più balli e mondanità, ma, invece, ore piccole spese in discussioni e dibattiti. Una nuova vita, dunque, per la nostra novantenne.
Ma gli amori e i matrimoni non sono eterni. Così, dopo una separazione tumultuosa dal giornalista, ecco Maria Rachele  (Muci per tutti), nata Giussani, sposata in prime nozze Berghins e in seconde Calvi, giungere – tra una battaglia coniugale e l’altra – a villa Rossi a Gattaiola per trascorrervi lunghi periodi in compagnia dei suoi ospiti, Paolo e Giusi Rossi. Fino alla decisione – forse incoraggiata dagli stessi amici – di trasferirsi definitivamente nella cittàdall’arborato cerchio.
E da un grande appartamento, in un antico palazzo, che si affaccia su piazza S.Pietro Somaldi, la si può ora veder scendere e uscire dal vecchio portone col suo inseparabile, elegante bastone nero con in cima una testa di cagnolino argentata. Ma dove va la nostra amica? Chi vede e frequenta?
Va in libreria e si interessa di libri, tanto da essere la più vivace sostenitrice di Francesca Duranti nel seguire le vicende della “Società dei lettori”, premio letterario cittadino fondato dalla figlia di Paolo Rossi più di vent’anni fa.
Va a trovare amici che, numerosi, è riuscita a crearsi nella nuova città in cui ormai vive da più di trent’anni e che con grande sollecitudine la invitano a pranzi e a cene.
In questi ultimi anni, però, forse un po’ stanca anche di questa nuova mondanità intellettuale, si circonda solo di quelli che lei chiama i ragazzi, ovvero cinquantenni che gravitano intorno al mondo della scuola e dell’università. Persone anonime nel contesto cittadino, ma ricche di curiosità, di interessi e di racconti che s’intrecciano e si amalgamo, quasi, con quelli della vecchia amica: professori, presidi, lettori universitari.
Tra questi Patrice Lestournelle approdato pure lui dalla Francia a Lucca,  una ventina d’anni fa, insieme alla sua compagna d’allora, la pittrice tedesca Kornelia Roth. Due ragazzi di buona famiglia in cerca di una vita alternativa in una città straniera. Eccoli così affittare una delle soffitte del palazzo Mazzarosa di via Burlamacchi, arredarla con oggetti originali (oltre a qualche pezzo di famiglia) – di loro creazione per lo più – e partire da lì, dopo aver sceso gli innumerevoli gradini, alla scoperta di questa città. Una coppia diversa e fuori dal comune, capace di attrarre e conquistare tutti gli stranieri che vivono a Lucca. Li troviamo così, in breve tempo, in quel ristretto giro di intellettuali che si distingue in questa città ricca, borghese e bottegaia. Ma anche la storia di Patrice e Kornelia finisce. Lei, con la sua esuberanza, se ne torna in Germania. Lui, nel suo dignitoso silenzio, risale gli innumerevoli gradini e rimane nella grande, spoglia soffitta. Scrive di storia, collabora con l’università fiorentina, si interessa di questioni umanitarie cilene, ci ‘parla’, dalle pagine di un quotidiano locale, di personaggi lucchesi visti da uno straniero, offre il suo bel volto all’industria cinematografica, quando in città si girano film di un certo interesse. E si riconosce per le vie di Lucca non per un bastone, ma per la sua pedalata veloce con cui attraversa le strette e contorte vie su una vecchia bicicletta che porta, montato sul portapacchi, una cassetta di legno. Così come una testina argentata di cagnolino è l’attributo della Muci, una povera cassetta è quello di Patrice.
Ora la Muci, stanca di mondanità di qualsiasi tipo, e il bel Patrice, senza più impegnativi gioghi amorosi, si ritrovano ai pranzi di una ragazza insieme ad altri ragazzi.
Ecco allora la vecchia amica entrare e dire: “Metto Beniamino qui, se qualcuno mi offre un braccio!” appoggiando in un angolo dell’ingresso il suo elegante bastone, mentre, più pronto di altri, il nostro giovane amico francese si china su di lei con un gesto di affetto, in un abbraccio che confonde le chiome grigio- argentate dell’uno in quelle dell’altra.
Resta così in noi una domanda in sospeso, una domanda che mai potrà avere una risposta, mentre osserviamo questa scena che a ritmi regolari si ripete nel tempo: quale sarebbe stato il destino di queste due persone se i più dei quarant’anni che li separa non ci fossero stati? Avrebbero unito, la Muci e Patrice, oltre alle loro identiche chiome, anche gli sguardi dello stesso azzurro-ceruleo, le voci garbate nel parlarsi in francese, le loro parole sobrie ed eleganti?

In ricordo di Muci che ai primi di maggio in silenzio è partita.

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